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Ci sono 2 commenti relativi a questo articolo

Commento 14719 di vilma torselli del 04/08/2018


La nostra cultura occidentale ci impone un senso cenestetico della città, il quale esige che ogni spazio urbano abbia un centro i cui andare, da cui tornare, un luogo compatto da sognare e in rapporto al quale dirigersi e allontanarsi [...] il centro delle nostre città è sempre pieno: luogo contrassegnato, è lì che si raccolgono e si condensano i valori della civiltà: la spiritualità (con le chiese), il potere (con gli uffici), il denaro (con le banche), le merci (con i grandi magazzini), la parola (con le "agorà": caffè e passeggiate). Andare in centro vuol dire incontrare la "verità" sociale, partecipare alla pienezza superba della "realtà". (Limpero dei segni, Roland Barthes, 1970)
Il senso della cenesteticità della città è di origine culturale e viene conservato e trasmesso con levoluzione e perpetrato attraverso l'immagine del centro come la parte migliore della città, la più degna di essere tramandata, tanto che luomo tendenzialmente propende a costruire a somiglianza del costruito rappresentato dal centro, e anche se quanto esterno raccoglie significati che esso rifiuta o reprime, li riconosce tuttavia come indispensabili allesistenza stessa di un centro che non avrebbe identità senza le relazioni binarie che lo connettono ai margini. Il punto centrale del centro-città (ogni città possiede un centro) [] non è il punto culminante di alcuna attività particolare, ma una specie di "fuoco" vuoto dellimmagine che la collettività si fa del centro. Abbiamo dunque, anche qui, unimmagine in qualche modo vuota che è necessaria per lorganizzazione del resto della città, scrive ancora Barthes.
Questa interazione, in un mondo in cui lo spazio fisico sta perdendo importanza a favore della mobilità virtuale, forse non deve necessariamente essere conflittuale, sta emergendo un modello sociale a vocazione connettiva basato su comunità metaterritoriali slegate da ogni identità collettiva di appartenenza, una 'comunità connessa in cui le informazioni si aggregano per le loro funzioni e non le loro posizioni, acquisendo di volta in volta significato dal loro modo d'uso.
Linformazione è per sua natura equidistante, superando una serie di stereotipi contrapposti quali centro/periferia, prossimità/lontananza, concentrazione/frammentazione, si può provare a considerare le periferie non come luoghi (o non-luoghi) generici e senza identità, ma come luoghi con dinamiche sociali e spaziali specifiche, non necessariamente in rapporto gerarchico o antitetico con il centro città, in grado di veicolare significati autonomi, nuovi, diversi.

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Commento 14731 di vilma torselli del 11/09/2018


Roland Barthes scrive di un senso cenestetico della città, il quale esige che ogni spazio urbano abbia un centro i cui andare, da cui tornare, un luogo compatto da sognare e in rapporto al quale dirigersi e allontanarsi, in una parola, inventarsi .. il centro delle nostre città è sempre pieno: luogo contrassegnato, è lì che si raccolgono e si condensano i valori della civiltà: la spiritualità (con le chiese), il potere (con gli uffici), il denaro (con le banche), le merci (con i grandi magazzini), la parola (con le agorà: caffè e passeggiate). Andare in centro vuol dire incontrare la verità sociale, partecipare alla pienezza superba della realtà. Il senso della cenesteticità della città è di origine culturale, viene conservato e trasmesso con levoluzione e perpetrato attraverso l'immagine del centro come la parte migliore della città, la più degna di essere tramandata e anche se quanto esterno raccoglie significati che il centro rifiuta o reprime, li riconosce tuttavia come indispensabili allesistenza stessa di un centro che non avrebbe identità senza le relazioni binarie che lo connettono ai margini. Il punto centrale del centro-città [] non è il punto culminante di alcuna attività particolare, ma una specie di "fuoco" vuoto dellimmagine che la collettività si fa del centro. Abbiamo dunque, anche qui, unimmagine in qualche modo vuota che è necessaria per lorganizzazione del resto della città scrive ancora Barthes.
Oggi, in un mondo in cui lo spazio fisico sta perdendo importanza a favore della mobilità virtuale, forse non è necessario che le periferie si emancipino e diventino centro per acquisire pregio, ma è necessario che scoprano la loro vocazione di entità priva di preciso significato e al tempo stesso capace di accoglierli tutti, serbatoio di risorse e di potenzialità impensate che non va necessariamente reintegrato nella logica produttiva e funzionale della città per avere un senso, non un disturbo a cui rimediare o un problema da risolvere, ma una realtà urbana che può fare dei propri difetti un valore.
La periferia come terrain vague, organismo di frontiera e di confine, punto di contatto fra due identità diverse ma non opposte, una sorta di post-metropoli dove si è spontaneamente modificato il rapporto tra urbano e suburbano, non necessariamente a struttura unitaria, omogenea e concentrata ad imitazione di un ipotetico centro, ma un insieme di luoghi autonomi e singolari, senza ordine gerarchico n con il centro n tra loro.

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