Michelucci sulla linguistica architettonica
 
  Oggi il 5/4/2008
Linguaggio Architettura
Linguistica in architettura Discussione sulle invarianti zeviane
Michelucci sulla linguistica architettonica
di Giovanni Michelucci - Zevi
Giovanni Michelucci. Testo tratto integralmente da L'architettura, cronache e storia n227 del settembre 1974

La n227 settembre 1974
Prima parte, in collaborazione con Agostino Palazzo (sociologo)

1-Una occasione recente, e precisamente un dibattito televisivo su temi che "il linguaggio moderno dell'architettura" ha riproposto in tutta la loro drammaticit, ci ha spinti a ripercorrere -con riferimento a quei temi- un disorso che, in forma non solo privata, andiamo svolgendo da qualche tempo. Ci limiteremo qui a fermare alcuni punti: sulla distinzione tra il "classicismo" e il "moderno", e sul ruolo della progettazione architettonica del nostro tempo.
L'architettura morta, si sente ripetere: le sue tensioni creative si sono spente e la ricerca di nuove misure che alimentino la sensibilit e il comportamento progettuale oscilla tra pretese irrealizzabili, utopie impossibili e arbitri devastatori.. Intanto in discussione l'identit dell'architetto: chi , cosa fa e come? L'architetto divene altro: economista, antropologo, sociologo, politico, perfino psicologo, biologo, ecologo. E cessa di essere se stesso, rinuncia a un suo specifico linguaggio, o a un linguaggio che abbia proprie forme epressive.
Legare queste "forme" alle "funzioni" come si tentato di fare nella prima met di questo secolo [XX secolo] significa impoverirle, umiliarle, impoverire e umiliare l'architettura: quindi negarla. La conseguenza visibile, dolorosa, il deperimento dell'oggetto architettonico e, pi in l, la perdita del senso della citt che poi il senso dello spazio vivente. La dipendenza quasi causale dalle "funzioni" apparsa dispersiva, inconcludente. Si risolve nella esaltazione del momento analitico, il quale diviene fatalmente disgregante, incoerente, caotico.
Se non prevale il senso della citt e perci il momento della sintesi come ricerca e tensione globalizzante, viene meno l'idea di architettura come linguaggio, come comunicazione. I singoli oggetti architettonici se sono, come sono, gli elementi del linguaggio, i mezzi della comunicazione, implicano sistemi di significati che richiamano l'idea e l'esperienza della totalit.
E qui si affaccia una distinzione: tra il pensare e l'agire architettonico e il pensare e l'agire urbanistico. Una distinzione che volta a volta o pu essere di metodo, di prospettiva, di contenuto. Una distinzione, quindi, tra dati e modalit eterogenei e perci, in definitiva, imprecisabile.
Il cosiddetto movimento moderno solo apparentemente ha operato il raccordo, l'incontro, o, se si preferisce, l'integrazione. In realt ha optato per l'urbanistica; ma rinunciando all'architettura per l'urbanistica ha finito con l'ucciderle entrambe. Divenendo urbanistica, ossia pretesa di totalit, disegno della citt, ha tracciato tale disegno con strumenti tecnici e concettuali, non architettonici: ma politici, economici, sociologici e cos via.
Si deve dire piuttosto che il pensare e l'agire urbanistico un pensare e un agire secondo certe forme; che tali forme non sono mutuabili da ambiti diversi; e che esse si identificano nelle "forme espressive" che sono proprie dell'architettura. E allora: i metodi, le prospettive, i contenuti dell'urbanistica sono gli stessi dell'architettura. E non si pu dire neppure che l'urbanistica si esercita sul territorio, che essa disciplina e organizza, mentre l'architettura si esercita su elementi e rapporti particolari che si iscrivono nel territorio: perch il territorio, ossia lo spazio dell'urbanistica, lo stesso spazio dell'architettura, in quanto l'architettura attinge via via attraverso i suoi prodotti e il mutevole reticolo dei rapporti tra i suoi prodotti, ulteriori livelli di sintesi -dal di dentro dunque e non dal di fuori- e perci concorre alla "costruzione" dell'immagine della citt e dello spazio vivente.
Da ci discende un altro limite dell'urbanistica, che non pu essere intesa ormai pi come un pensare e un agire riferito alla citt se l'idea stessa di citt in discussione, se siamo costretti a chiederci ogni volta di quale citt si tratta, se insomma le stesse modalit qualitative della realt urbana come eravamo abituati a intenderla e a viverla, sono coinvolte da processi trasformativi radicali che ne alterano la identit.
La "citt" che per essere definita abbisogna di caratterizzazioni quali appunto "citt-regione", "citt-territorio" o che altro, gi una realt diversa che invano si cercher di comprendere usando criteri d'identificazione valsi per il passato.
Cos l'urbanistica o va oltre l' "urbano" o estende l' "urbano" oltre i limiti della citt, fino a comprendere tutto il territorio vivente e vivibile. In tal modo la stessa idea di "comunicazione" acquista nuove, imprevedibili, valenze: crescono le distanze tra gli attori e muta fatalmente la qualit del rapporto. La comunit si dilata fino a divenire la pi ampia societ: ma le due strutture, della comunit e della societ, della citt e della regione o come altro si voglia dire, sono incomparabili, eterogenee. Il mutamento di scala modifica lo sfondo da cui emerge, come si dice con termine ambiguo, l' "effetto citt", sviluppa un ordine diverso di significati spaziali che noi oggi ci sforziamo di cogliere e tradurre in forme.

2. Tutto ci ripropone il problema dell'identit dell'architetto e del senso dell'architettura. E l'attenzione cade subito sui valori potenziali dello spazio e dei rapporti spaziali, valori che vanno esplicitati, tradotti in atto, sperimentati. Bisogna anzitutto liberarsi dalla dicotomia tra pubblico e privato: non mediando tra i due, o tentando di comporli e integrarli o fonderli, come che sia: ma andando oltre, cercando modi di organizzazione e di fruizione dello spazio non riconducibili all'una o all'altra categoria o a entrambe. Le sterminate, caotiche, anonime periferie solo in termini di spazio fisico segnano l'espandersi gigantesco delle citt: in termini di spazio etico sono definitivamente la necropoli, il rifiuto della citt.
Qui -anche se le misure sono o possono essere istituzionalmente di ordine pubblico- il "privato": come risposta ai bisogni emergenti di masse che vengono segregate e perci urbanisticamente privatizzate: ...deprivate della citt vera...del senso della citt...che invano cercheranno altrove: un altrove fisico e un altrove morale.
Un "altrove" che si chiamer, ad esempio, "centro storico", il quale risulter con ci snaturato e, a sua volta, anch'esso deprivato del suo senso intrinseco, originale.
Le masse non sono il "mondo", ma l'esclusione dal mondo. Perch il mondo, ancora una volta, non un dato fisico, ma morale: tensione ideale, "trascendimento senza trascendenza", come direbbe Bloch. Le masse allora sono "mondo" quando diventano popolo, ossia partecipazione, consapevolezza, capacit di scelta.
Le periferie sono pi che la degradazione della citt: la citt che scompare inghiottita dalle periferie. Tempo spazializzato o fine della storia. In una societ tendenzialmente "protensiva", il tempo spazializzato segna il dominio del "privato": privilegia il dato fisico sul dato morale, la costrizione sulla libert, i rapporti rigidi ed inclusivi sui rapporti dinamici e aperti. Con la pretesa di favorire le relazioni a livello di societ, predispone di fatto le condizioni della cosiddetta "incomunicabilit psicologica".
L'uomo, l'epoca dell'uomo, si avvia al tramonto.
Chi l'architetto oggi? Quali i compiti dell'architettura? Il "tempo spazializzato" va rovesciato. Questo il senso della rivoluzione architettonica: "temporalizzare lo spazio" : che come dire restituire all'uomo la sua dimensione autentica, la sua originaria creativit.
In qual modo? Con quali criteri? E sono possibili criteri? Sono possibili parametri o, per tornare a una lettura recente, fortemente stimolante e suggestiva, "invarianti"?
Cerchiamo un esempio fuori della citt, un esempio innocente (?).
Fuori della citt, nella campagna aperta, senza mura la casa colonica. Qual il senso architettonico, se sivuole attribuire un senso, della casa colonica? La casa colonica non , o non soltanto, un oggetto architettonico collocato in un mondo diverso da quello della citt, e rispondente alle esigenze di vita del "suo" mondo. E'di pi ed altro. E'architettonicamente la forza espressiva della realt rurale come fatto esistenziale totale.
E allora se diciamo che l'architettura ha, deve avere, forme espressive proprie, intendiamo -o dobbiamo potere intendere- che l'espressivit concerne, certo, quel modo di pensare e di progettare, e perci di parlare, che proprio dell'architettura, ma con l'avvertenza che l'architettura se parla, come infatti parla, parla a qualcuno o a qualcosa -agli uomini, alla citt degli uomini; e parlando comunica, deve potere comunicare contenuti che siano intellettualmente ed emotivamente recepibili come tali, e perci praticamente plausibili; cio in una parola vivibili.
E le periferie non sono, non posssono essee linguaggio, perch esse non parlano. Distruggono.

3. Se il "classicismo" pu essere ricondotto a uno stile, a un ordine, a un insieme di stili e di ordini, che si succedono nel tempo e coesistono nello spazio, il "moderno" sar inteso come ricerca: di nuovi stili, di nuovi ordini. Finch dura la ricerca sar il "moderno"; via via che la ricerca conduce a nuove forme (stili, ordini) e le forme si consolidano, si fissano e diventano paradigmatiche, di nuovo il "classico"; mentre il "moderno" si propone o ripropone ancora e sempre allo stato di tensione.

Vi tuttavia -non pu non esserci- un "moderno" vissuto: ma finch dura, il "moderno" il presente come contemporaneit, il presente degli atteggiamenti, degli interessi, delle azioni: modalit qualitative in atto della sensibilit. Il problema del moderno vissuto un tutt'uno con il problema della durata del presente -quando il riferimento alle forme dello spazio vivente- un dato di cultura, riflette i diversi modi in cui l'uomo nel tempo si pone di fronte a se stesso e al mondo. Il presente -in una societ "protensiva", tutta volta al futuro, attraversata da un'ansia diffusa di mutamento- si contrae fino a divenire puntiforme. L'effimero diventa paradossalmente un dato strutturale e perci mutano alle radici le condizioni in cui possibile l'esercizio della libert intesa come evento globale. Cos la ricerca di nuove forme espressive a livello architettonico , o deve essere, un continuo atto liberatorio da tutti i limiti posti da quelle modalit d'uso dello spazio che privilegiano l'avere e il potere sull'essere e il divenire, il movimento guidato eterodiretto sul movimento spontaneo, i rapporti rigidi e preordinati sui raporti flesssibili e innovativi.
Ora, il "moderno", se e finch ricerca costante di nuovi moduli, non pu identificarsi in nessuno di essi, giacch il senso della ricerca nello sperimentare incessantemente nuove alternative, nel rifiutare volta a volta ci che contribuisce a "fermare" nel tempo un processo in corso. La qualit del "moderno" nella sua "variabilit", e tutto il problema di evitare che il variabile diventi arbitrario e che l'arbitrario finisca col riflettere interessi di singoli e di gruppi che fruirebbero del nuovo ordine della libert per imporre -alla comunit, alla citt, al territorio- volont particolari. Ma quando l'attenzione cade sul "moderno" con l'intendimento di segnare i confini che lo separano dal classicismo, occorre innanzitutto chiedersi se la rottura tra il classicismo e il moderno, come viene oggi invocata per avviare o proseguire l'opera di liberazione dell'uomo, non corrisponda a quella "logica del mutamento" che attraversa per intero la storia, rendendo ragione ogni volta del passaggio da un'epoca a un'altra e del conseguente succedersi di diverse forme espressive in sede architettonica. Se la risposta positiva, e per quel tanto che lo , si dovr parlare di una sorta di processo dialettico grazie al quale uno stile o un ordine architettonico, nell'atto stesso in cui emerge e si costituisce, contiene gi in se gli elementi del suo superamento, del suo divenir "altro". I motivi per i quali ci accade, quando accade, vanno cercati al di l dell'ambito che proprio del pensare e dell'agire architettonico: perch il pensare e l'agire architettonico sono sempre il riflesso di un modo di pensare e di agire generalizzato in cui si esprime e si riconosce la collettivit nel suo insieme.
Di qui l'insistita istanza di "coralit" nella costruzione della citt, nell'invenzione di moduli spaziali in grado di rispettare, e garantire, la misura dell'uomo. Quando questa istanza disattesa, la creativit collettiva di cui l'architetto o deve essere interprete o, se grande architetto, anticipatore, diviene costrizione: la spontaneit si spegne e alla libert espressiva si oppongono le manovre del potere che dilatano oltre ogni limite lo spazio del "privato", che anche lo spazio delle divisioni, delle segregazioni, delle chiusure.
Ora, questo processo creativo pu sopportare l'uso di "invarianti", e, se s, in che senso?
Non c' il rischio che le "invarianti", in quanto categorie che costituiscono il "basic language" dell'architettura moderna orientino la ricerca in direzioni volute e preordinate (volute e preordinate da chi e a quali fini, bisognerebbe intano chiedersi)?
Un esempio: la "asimmetria" in luogo della "simmetria".
La simmetria si richiama a un codice dominato dalla "geometria". E la geometria l' "invariante del potere dittatoriale"; in pi, col pretesto di garantire la sicurezza e la stabilit, mortifica l'iniziativa, inibisce la spontaneit, riduce il movimento in moduli innaturali. Finch l'asimmetria mette a nudo le contraddizioni (sociali, politiche, culturali) che si nascondono dietro la facciata del geometrismo identifica un atto liberatorio. Ma quando dal negativo (libert da) si passa al positivo (libert di), dal rifiuto critico alla progettazione, non pu accadere che anche l'asimmetria si codifichi, si traduca in norme, in modelli ideativi, e operativi che "costringano" di nuovo la realt, il dato esistenziale, anche se pi ricchi, vari, articolati?
Occorrer rilegger la storia in chiave antropologica:verificare volta a volta il senso di quella fatale ambiguit alla quale mai potr essere sottratta la nozione di natura umana, in cui il biologico e il culturale si incontrano dando vita a sintesi mutevoli. L'uomo quale e quale diviene. Un esempio: l'organizzazione percettiva del mondo. Il mondo asimmetrico, ma le condizioni strutturali della sua percettibilit sono sottoposte alle leggi della "buona forma": e, tra esse, la simmetria. Qual il ruolo della filogenesi nel processo di formazione delle condizioni strutturali del sistema nervoso cerebrale? Eventuali reiterate modificazioni dell'esperienza spaziale a livello di generazioni potranno incidere su tali condizioni? Fino a che punto e in che misura potr la funzione, per usare un'espressione cara al positivismo di fine secolo, modificare l'organo? Che come chiedersi: come in che misura il dato culturale pu scatenare meccanismi trasformativi a livello fisiologico?
Sono domande che ci portano molto lontano, ma sono domande-limite, che testimoniano quali responsabilit sono connesse, anche se non in modo implicito e mediato, con la ricerca in corso sui modi di lettura o rilettura e di trattamento dello spazio vivente.


Seconda parte. Appunti di Michelucci.
Poco dopo la seconda guerra mondiale, costruii alcuni edifici che, se furono bene accolti dalla critica, non mi lasciarono soddisfatto. Sul momento non mi fu chiara la ragione di questa insoddisfazione; sentivo solo che rischiavo di seguire una strada senza sbocco. Forse avrei potuto indugiarmi ad affinare, perfezionare le cose gi dette, ma nulla di pi e, forse, nulla di meglio.
In un tempo non breve, e con fatica, compresi che l'insegnamento che avevo ricevuto nella scuola di architettura mi aveva condizionato, mi aveva messo in testa certi principi, certe "invarianti" da cui non sapevo liberarmi. Anche perch le opere dalle quali quei principi derivavano erano di alto valore architettonico.
E quel condizionamento vanificava ogni possibilit di parlare un linguaggio moderno, perch, in ultima analisi, la scuola mi aveva convinto (altrimenti non l'avrei seguita) che lo studio di un progetto consisteva nel fare di ogni edificio un piccolo grande "monumento" che rispondesse ai canoni classici. Il Garnier era per quella scuola l'architetto moderno per eccellenza, al quale bisognava sempre ricorrere, per capire e fare architettura moderna. Naturalmente al Garnier si arrivava dopo gli esempi antichi, fra i quali il celebratissimo Palazzo Strozzi: questo "mostro" che, indifferente agli infiniti suggerimenti ed ai richiami della struttura cittadina, si insediato egoisticamente, di prepotenza, nella citt, schiacciandola con il suo peso e determinando una soluzione di continuit nel tessuto stradale. Gli "assi", la "simmetria" sono qui esaltati con tale maestria, da costituire un insegnamento difficilmente dimenticabile, che ha influenzato per secoli l'architettura dei palazzi e poi di tutte le banche e di tutti gli Uffici di Assicurazione, particolarmente nella Toscana, nella intelligentissima, colta, sensibile, "tradizionale" Toscana.

Per uscire dalla strada sulla quale mi aveva condotto la scuola, dovevo considerare quello che essa non considerava, la vita, cio come si muovevano e si comportavano gli uomini, e come mi comportavo io stesso; le reazioni singole e collettive agli avvenimenti, agli ostacoli, alle manifestazioni di varia natura, per poi trarre alcune conclusioni sul rapporto fra tutto questo e la forma urbana.
Fu per me una scoperta, tanto che, essendo in quel tempo Preside della Facolt di Architettura, proposi, in una riunione di docenti, di aprire la porta della scuola alla popolazione: agli artigiani, ai tecnici, ai commercianti ecc. perch parlassero con gli studenti. Proposi di abolire l'insegnamento della "composizione architettonica" e di dare maggiore rilievo a quello delle materie scientifiche. E ci per rinnovare l'aria di quella scuola nella quale io stesso avevo studiato e di cui avevo constatato gli effetti negativi; e per offrire agli studenti le occasioni di prendere contatto con la vita.

Ledoux ha presentato l'architetto come un "titano terrestre rivale del creatore". E qui sta il male, perch la presunzione di quel titano ribelle a Dio pesa spesso sulle creature: sugli uomini, cio su tutti noi, fino ad alienarci. Perch la sfida a Dio la sfida agli uomini.

Prendere contatto con la vita, guardare all'uomo ed attenersi al suo dettato, non significa registrare la realt umana cos come si pone quotidianamente con i suoi lati positivi e negativi: n significa registrare le sue fattualit puntuali. Significa invece capire lo stato di civilt, il modo di essere e di sentire dell'uomo, la via del suo destino, per proporre alternative di libert in una prospettiva che va necessariamente oltre ogni geometrismo e che rifiuta l'assiale, il simmetrico, che costringono l'uomo, non lo liberano.
Considerata la simmetria come un dato del linguaggio classico e l'asimmetria un dato di quello moderno, possiamo affermare per che l'architettura moderna non nasce dall'apparire della prima finestra orizzontale o dalla prima porta asimmetrica, ma da una svolta del pensiero verso la ricerca di una nuova dimensione del vivere, di una misura cio che liberi l'uomo dalle forme ossessive del potere: misura spesso tanto invocata, quanto puntualmente disattesa.
Un piccolo esempio: il sedile di pietra posto attorno al Palazzo Strozzi, che sembra invitare il cittadino a riposarsi, si risolve invece in un mero fatto decorativo. Privo di senso: quindi antiarchitettonico.

Evidentemente la asimmetria non crea un'opera architettonica moderna. Se gli edifici pubblici e privati, pur asimmetrici, conservano il loro perimetro sbarrato alla citt da un cristallo infrangibile, o da un muro; se la citt non pu penetrare e vivificare gli spazi interni e stabilire una continuit con quelli esterni, l'opera non moderna. In realt non architettura.
La asimmetria, dunque, non ccome tale n architettura n antiarchitettura: ma una "condizione" del linguaggio architettonico moderno.

L'uomo libert, non costrizione. L'uomo, come qualcuno ha detto, un animale simbolico. Dunque il suo essere nel processo di creazione della vita, della sua vita. La creazione invenzione di nuove forme, di possibilit inedite. Cos nulla si oppone di pi alla creazione, quanto il geometrismo che la logica della simmetria.

Si dir che la simmetria il linguaggio architettonico classico: vero e non vero. In realt nell'opera d'arte classica non che trionfi la simmetria: la simmetria solo una modalit espressiva di una profonda istanza d'equilibrio e di armonia; quindi di un modo di essere della sensibilit.
Ora, la dimensione del vivere un'altra; un'altra la misura dell'uomo. Altro , dunque, il modo della sensibilit. Ed per questo che "quella simmetria non parla pi". Da ci la ricerca di una "simmetria diversa", che per intenderci chiameremo "asimmetria".

Le "invarianti" proposte recentemente sono la storia degli ultimi cinquant'anni di architettura. Fare la storia significa insegnare a pensare architettonicamente. La storia dell'architettura si pone come metodo dell'architettura, e tanto pi si pone come metodo, quando meno lo storico vuole porlo e proporlo.
Ogni ricostruzione storica necessaria per capire in quale modo si sia riusciti (se si riusciti) a creare unit e armonia tra i vari aspetti della vita (sociale-economica-culturale). Ogni civilt manifesta il suo valore dal modo con cui ha raggiunto quell'armonia e quell'unit, alla cui base sempre l'uomo, l'uomo sociale, con i suoi valori etici, con il suo benessere, ecc.: una vicenda strettamente condizionata, nella quale cambiano i modi espressivi, ma non muta il soggetto della storia. Cambia il modo di porre i problemi, uno dei quali resta costantemente sulla scena drammatica della vita e che la ricerca e la costruzione dello spazio della libert, in un perenne conflitto umano ed urbano.

Ogni ricostruzione storica sollecitata dal presente e deve agire sul presente per vincere le resistenze pi tenaci. Le quali si vincono, se al fare degli uomini si pone l' "invariante" riferita all'uomo, all'umanit, quali soggetti immutabili della storia.


Bruno Zevi sulle considerazioni di Michelucci
D'accordo sostanzialmente su tutte le osservazioni espresse da Michelucci e Palazzo. Tuttavia, poich i problemi del linguaggio vanno sempre pi approfonditi, non sar inutile qualche commento:
1- Legare le forme alle funzioni : la prima invariante del linguaggio moderno, l'elenco, il principio n.1 dei sette deducibili dall'esperienza architettonica dell'ultimo secolo e, in effetti, dell'intera vicenda architettonica. Il n.1 non basta, da solo riduttivo e impoverente; occorrono anche i 2-7. Ma senza il n.1, senza l'elenco funzionale, non esiste linguaggio moderno. Esatta quindi la denuncia dell'insufficienza dello slogan deterministico "la forma segue la funzione" (nessun maestro del movimento moderno gli stato fedele), sottolineando per che, alla base di ogni discorso architettonico pregnante, c' un dialogo efferato e creativo con i contenuti, i comportamenti, le funzioni: come Michelucci e Palazzo riaffermano ampiamente nel contesto del loro scritto. L'esaltazione del momento analitico delle funzioni costituisce un errore. Ma, fuori di questo momento, c' la sintesi a priori, classicista e reazionaria.

"Il cosiddetto movimento moderno...rinunciando all'architettura per l'urbanistica ha finito con ucciderle entrambe". Indubbio, il "cosiddetto" ha fatto questo. Ma il movimenoto moderno autentico non ha mai accettato la separazione tra urbanistica e architettura; ogni suo maestro ha creduto nella "urbatettura", per quanto ostica sia la parola. Basti pensare al piano di Algeri di Le Corbusier, dove non possibile distinguere il momento urbanistico da quello architettonico.

2- Che il senso della rivoluzione architettonica sia "temporalizzare lo spazio", appare incontrovertibile, anche alla luce della scienza contemporanea. Lo spazio statico rappresenta il potere, la repressione, l'immobilit dei valori, il dispotismo delle idee universali. Il tempo in assoluto rifiuto e mortificazione della vita terrena, libert ma libert del suicidio. Spazializzare il tempo pu avere un nesso metaforico nel progettare un'autostrada, ma il vero impegno architettonico quello di temporalizzare lo spazio.

Il richiamo alla casa colonica non ha nulla a che vedere con lo "spontaneo", il rustico, i vernacoli, il gusto di Strapaese. Significa piuttosto il volgare rispetto al latino erudito e sclerotico. Troppi architetti parlano ancora in latino, mentre l'edilizia anonima, costruita senza preconcetti formali, invera assai spesso le sette invarianti, l'elenco, le dissonanze, la tridimensionalit antiprospettica, la scomposizione, il coinvolgimento strutturale, la temporalit dello spazio e la reintegrazione. Il nostro compito consiste nello scrivere poesie architettoniche in volgare, alimentando il linguaggio di apporti popolari. In architettura manca uno Schonberg ma, prima ancora, un Mahler.

Rende perplessi l'affermazione che "le periferie non sono, non possono essere, linguaggio, perch esse non parlano. Distruggono". Perch, se persino i rifiuti della societ industriale "parlano" ai pittori, il Kitsch periferico non dovrebbe parlare agli architetti? Perch esiste una pop-art e non dovrebbe esistere una pop-architettura e una pop-urbanistica? L'argomento merita forse maggiore meditazione; dobbiamo scoprire le potenzialit vitali ed espressive delle periferie, e intervenire per esplicitarle. Come fa Burri con gli stracci, o Rauschenberg con i pneumatici consumati.

3- Classico = stile, ordine; moderno = ricerca. Tale impostazione , grosso modo, accettabile, ma non coglie il nocciolo della questione. Perch, sostenendo che la ricerca "conduce a nuove forme (stili, ordini) e le forme si consolidano, si fissano", si viene a riproporre in termini tradizionali il rapporto "langue/paroles" di De Saussure. La norma sarebbe il classicismo, contestato da quella "tensione" creativa i cui prodotti, ad un certo punto, si classicizzano.
In architettura non cos. nessuna "parole" di Brunelleschi (lo ha dimostrato, meglio di ogni altro, Michelucci), di Michelangiolo, di Borromini, di Wright ha mai scalfito l'accademia. Il classicismo non una "langue", ma un'ideologia linguistica del potere, impermeabile ad ogni arricchimento. La creativit non dissonanza rispetto alla consonanza, non deroga rispetto alla regola, come si credeva una volta. Schonberg ha scoperto, e Adorno ha spiegato, che un linguaggio dissonante non dipende dal suo opposto assonante, ma ha una validit in s, autonoma. Quindi, se finora, educati nella schiavit classicista, abbiamo dovuto puntare su "un continuo atto liberatorio", oggi possedendo un linguaggio, possiamo prevedere una civilt di atti liberi. Dovremmo affrancarci da quel condizionamento psicologico che ci fa pensare alla libert solo in antitesi alla prigionia; altrimenti, continueremo ad avere bisogno delle carceri (classiciste e Beaux-Arts) onde potercene liberare.

Le invarianti, in quanto categorie, rischiano di orientare "la ricerca in direzioni volute e preordinate"? Interrogativo paralizzante, ma scarsamente fondato: anzitutto, perch le invarianti non sono categorie, ma dichiarazioni d'indipendenza dalle categorie d'ogni matrice e genere; poi, perch la libert non pu sfociare in direzioni "preordinate", a meno di essere conculcata. Un altro interrogativo incomprensibile: "non pu accadere che anche l'asimmetria si codifichi, si traduca in norme?". Diciamolo francamente: non pu accadere. Il dubbio nasce da una paura della libert che ci fa agitare mostri e pericoli inesistenti, come l'illibert della libert. Quale autorit ha stabilito "le leggi della buona forma" tra cui sarebbe da annoverare la simmetria? Il linguaggio moderno non riconosce autorit e leggi, deride la "buona forma" e la "bella forma", lotta per la forma fera.

Passiamo ora agli appunti di Michelucci. Additandoli anzitutto ad esempio. Cos gli architetti, giovani o maturi, dovrebbero intervenire nel dibattito sul linguaggio: testimoniando sul loro lavoro con modestia, seriet ed intelligenza, e non improvvisandosi semiologi e divagando ad un livello pseudo-teorico. Questi appunti di Michelucci sono una lezione di moralit. Tanto che definiscono l'asimmetria "una condizione del linguaggio architettonico moderno", e poi confermano: "nulla si oppone di pi alla creazione, quanto il geometrismo che la logica della simmetria". Palazzo Strozzi, Ledoux e Garnier: ecco i mostri contro i quali Michelucci ha dovuto combattere con estrema fatica e che riuscito a sconfiggere nella sua arte colta e popolare, satura di storia e dissacrante, aperta al quotidiano dell'uomo ma diffidente verso l'umanesimo astratto. In "Spazi dell'architettura moderna", Michelucci viene definito "il migliore artista italiano della sua generazione". La sua opera e il suo pensiero incutono rispetto e ammirazione; ancor pi, suscitano affetto e solidariet. Di fronte a questi appunti, possiamo dire a Michelucci una cosa sola: grazie, senza la tua presenza, noi saremmo infinitamente pi poveri, e smarriti.

Bruno Zevi
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  15/9/2002
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