Il progetto di Richard Meier per l’ara pacis a Roma: perché si!
di Giannino Cusano
- 13/7/2004

1. Il coro della parrocchietta anti-Meier. 2. Piazza Augusto Imperatore: un vuoto ? No: un pieno! 3. Perché difendo il progetto di Meier per l'Ara Pacis
Nulla di nuovo: si levarono scudi contro gli interventi per Venezia di Le Corbusier,
Wright, Kahn in una delle sue versioni migliori; contro quelli per Roma come
il PRG di Luigi Piccinato del '62, l'Asse Attrezzato, il Museo di Sacripanti
in via Giulia, ce ne sono ora contro l'intervento di Richard Meier per la sistemazione
dell'Ara Pacis a Roma. E condite di demagogiche manifestazioni, di pretestuosità
stilistiche, di storicismo d'accatto ed argomenti estetizzanti, di astratte
ipotesi alternative di restituzione del sito al suo presunto "dov'era e
com'era". Ma quali confini spazio-temporali dovrebbero circoscrivere queste
doglie filologiche?
E' il meno, se questi segnali invitano la pubblica opinione italiana, poco avvezza
all'esperienza diretta degli articolati e complessi spazi dell'architettura
contemporanea, a rifiutare la modernità in qualsiasi versione spacciandola
per 'stile' inadatto al contesto.
Collaudata e ben calcolata strategia della confusione, che ora induce in equivoci
anche la neonata associazione "ecoradicali". Chi scrive ha contribuito
a farla nascere iniettando pazientemente nel suo programma concetti peculiari
della Carta del Machu Picchu. Inutile: l'associazione fa sit-in per il blocco
del cantiere. Ipotesi dalla quale mi dissociai ben prima del primo dibattito
pubblico preliminare all'Assemblea costitutiva, cui non ho presenziato. E ho
rifiutato di far parte del Comitato Scientifico (o Presidenza) dell'associazione,
nel quale ero stato ripetutamente invitato ad entrare. Della Presidenza, per
la cronaca, fanno parte personalità come l'on. Carlo Ripa di Meana, il
prof. Angiolo Bandinelli, il prof. ing. Antonio Tamburrino, il prof. ing. Marcello
Vittorini, urbanista, e il prof. arch. Aldo Loris Rossi. Il quale mi disse in
sordina durante l'incontro preliminare -Qui la modernità è in
pericolo!- Già: perché restare, allora?
Per amor di verità, gli aderenti non sono necessariamente radicali; l'iscrizione
è libera, le associazioni in larga misura autonome dal Partito. Né
tutti i radicali concordano con la linea dell'associazione. Ma sono questioni
secondarie: conta che in assemblea costitutiva viene presentata e approvata
una mozione-lampo dell'ultimo momento, poco o nulla discussa preliminarmente,
che prevede il blocco dei lavori del progetto di Meier.
Non la conosco testualmente né so chi l'abbia predisposta; ma importa
la sostanza: membri della Segreteria politica dell'Associazione ora sbandierano la riesumazione
del porto di Ripetta sulla base di 50 anni di studi fatti dal prof. Paolo Marconi
(sic!) in alternativa al progetto di Meier (ri-sic!), ora l'ipotesi di un Concorso
di idee contro l'incarico assegnato "in modo autoritario" (tri-sic!)
dal Comune; ora parlano di restituzione filologica dell'intero settore piazza
del Popolo-via della Scrofa-Ripetta all'assetto di Roma barocca, ora si oppongono
al progetto in quanto iniste sul porto di Augusto: che con Roma Barocca c'entra
come il due di briscola.
Strategia velleitaria: subordinare più ampi discorsi sulla progettualità
di un settore del Centro di Roma al blocco di un cantiere equivale a dire che
se il fermo non ha luogo sarà gioco forza rinunciare a qualsiasi ipotesi
di più ampio respiro. E' un fatto: innumeri obbiezioni contro la riesumazione
di Ripetta non hanno mai trovato risposta in alcuna sede, dal forum di ecoradicali
fino a docenti 'blocchisti' (Loris Rossi a parte, che sulla vicenda vidi di
sfuggita).
La riesumazione del porto di Ripetta presuppone la demolizione parziale di Ponte
Cavour, di parte di via Tomacelli, ambedue in asse con la mezzeria del porto,
e di un pezzo di lungotevere per vedere se ancora ce n'è traccia: cosa
assai dubbia, vista la posizione delle pile e della spalla sinistra del ponte.
Si dice che la restituzione del porto non è un dato inoppugnabile, che
se ne può benissimo fare una copia: chiamiamola pure Genoveffa, è
solo un nome diverso per dire "falso". E dunque l'alternativa propugnata
non è solo elusiva: postula uno sperpero di danaro pubblico per produrre
falsi maleodoranti, arbitrari e clamorosi, ancorché filologicamente ben
documentati: dal porto alla quinta barocca di via della Scrofa. Megalomane follia
italica che, come spesso accade in questo Paese, rischia alla lunga di diventare
realtà.
Non sono le sorti di *ecoradicali* a preoccupare, ma gli effetti congiunti -anche
solo in termini di opinione- di questa incipiente azione: ad AN, schierata in
consigli comunali come Latina con Krier ed i suoi, al pari di alcuni settori
della sinistra toscana, si affiancano sit-in anti-Meier. Si profila un movimento
trasversale antimoderno: aggiungiamoci l'onnipresente Sgarbi, il crescendo di
segnali -anche da ambienti universitari- sulla stampa e tiriamo le somme: siamo
di fronte a un minestrone di prospettive equivoche e contraddittorie il cui
denominatore comune è aggredire la modernità in una sua versione
moderata e prevenire altri, meno timidi itinerari. Ma è poca cosa: in
fondo accade un po' ovunque.
Il peggio è che gli attacchi vertono su sterili diatribe stilistiche:
il rischio più serio è un regressivo abbassamento di livello del
confronto; è che soprattutto giovani vengano indotti ad accettare questo
terreno di scontro elaborando risposte negli stessi termini e finendo per svilire
la modernità, che pure amano e vorrebbero approfondire e perseguire.
L'accanimento su questioni formali, infatti, salta a piè pari qualsiasi
premessa in termini di programmi, contenuti e impegno spaziale.
C'è da chiedersi: se vivessimo in un contesto dinamico, avvezzo a fare,
sbagliare, rilanciare, la vicenda Meier per l'Ara Pacis avrebbe tutta l'importanza
che assume oggi?
Visitando piazza Augusto Imperatore colpisce quanto sia vuota di persone e preclusa
al vissuto degli utenti. E' un vuoto non creativamente pensato, in mezzo al
quale troneggia un rudere scuro, estraneo, spaesato, decapitato e buttato lì
a casaccio: il Mausoleo. Come rotolato da una colossale ghigliottina e dimenticato
in terra dal boia; qualche cipresso gli spunta in cima e tutt'intorno una desertica
desolazione accuratamente sbarrata da neri edifici, portici schiacciati e smisuratamente
alti, soffocanti, sotto i quali si sosta o si cammina con fastidio.
Non si capisce dove siamo: di là dalla barriera potrebbero esserci la
steppa, la foresta nera, le sabbie mobili, le paludi degl'Inferi o il deserto
del Nevada dopo un'esplosione nucleare: tutto fuorché Roma. Non un alito
di vita; l'invaso non invera un 'esserci', un Dasein spaziale: non ci si sta,
non ci si passa né ci si agisce, non ci si muove verso, dentro, attraverso,
oltre: incubo di un cimitero per Ciclopi. Al quale, questo sì, mancano
solo due tocchi finali: aprire il quarto lato al Tevere melmoso e pagare un
paio di dipendenti del Comune perché, vestiti da Caronte, trasportino
in barca le anime dei malcapitati.
Prima degli sventramenti fascisti una vitale spinta comunitaria, sospesa fra
colto e dialettale, aveva reinventato il Mausoleo in Teatro popolare, assediandolo
di frastagliate casupole che riempivano lo spazio: l'assieme e l'intorno si
arricchivano scambiando pluri-messaggi contrastanti perché densi di vita.
Elio Vittorini osservò che le classi popolari parlano mangiando le sillabe,
come a supplire alla fame fisica. La situazione attuale della piazza è
frutto di una ripulitura stilistica di scuola insensibile ad apporti popolari
e kitsch, alle frasi tronche, alle sillabe mozze e ingoiate, ai loro residui
affastellati, alle parole sincopate: in una parola al vissuto, che anima e sottende
qualsiasi lingua architettonica. Ha vinto l'iperbole di un'idea sacrale del
sapere cattedratico e di una non meglio precisata "bellezza" che,
dopo e nonostante Duchamp, Schwitters, Rauschenberg, Carmelo Bene, pretende
oggi nuova egemonia. Eppure chi, dopo l'Impressionismo, potrebbe ancora sostenere
che le foglie degli alberi sono verdi?
A piazza Augusto Imperatore, come in ogni ambito storico, non serve ripristinare
alcuno status pregresso; ma aiuta intuirne, immaginarne valori vitali e vissuti:
per capire l'abissale differenza dallo stato di cose attuale e come stimolo
a riaffidare quell'invaso alla vita: a quella di oggi, non a immaginarie e mitiche
età d'oro del passato.
Comunque lo si guardi, quel vuoto è un pieno: se lo riempissimo con un
parallelepipedo cementizio massiccio e impenetrabile non cambierebbe nulla,
rimarrebbe impercorribile esattamente come ora anche se un lato di quel vuoto/pieno
venisse lasciato degradare verso il fiume.
E giova tener presente che col progetto di Meier per l'Ara Pacis è in
gioco molto meno: per i limiti di programma premessi all'opera, probabilmente
nessun intervento a quella scala può pretendere di trasformare piazza
Augusto Imperatore fino a sottrarla al suo attuale carattere di cosa inerte.
Fare o non fare l'edificio di Meier, demolirlo, lasciarlo come un rudere, riesumare
in sua vece Ripetta o il porto di Augusto non toglie, non aggiunge una virgola
al non-carattere della piazza nel (e del) suo intorno. Non si vuol sostenere
che l'intervento di Meier è rispettoso dell'assetto morpurghiano: più
semplicemente, che non scalfisce il problema: questo resta e va affrontato al
d là dalle sorti dell'intervento in corso.
A me pare che la sfida del futuro di piazza Augusto Imperatore si faccia più
comprensibile cogliendo il senso, per esempio, di quegli "Intervalli"
cari a Roland Barthes, recentemente oggetto della mostra curata da Achille Bonito
Oliva a palazzo Venezia a Roma. Barthes afferma di cercare, negli acquerelli,
non le note ma i silenzi che le distanziano e danno loro vita: il gesto allo
stato nascente, il segno del prender forma che ancora non è costituito
in linguaggio. Non la regressione prelinguistica di certo espressionismo, ma
segno sospeso fra grado zero ed espressione piena.
Meier o no, piazza Augusto Imperatore pare attenda un netto disancoraggio da
ogni sentenza di scuola, da ogni ipotesi di "completamento", di "compimento"
formale: necessita piuttosto dell'innesco di nuove, vitali e problematiche incertezze,
l'avvio di un inedito prender forma che invece di cercare un fraseggio definitivo
sappia, nel non detto, lasciare l'ultima parola al visitatore e all'utente.
Pare
abbia già subito alterazioni rispetto alla prima versione. E ad ogni
modo, una Commissione di mediazione presieduta da Leonardo Benevolo è
stata instituita dal Comune. E certo nessuno avrebbe immaginato 30 anni fa di
dover sostenere strenuamente così poco; di questo passo, e non per colpa
di Meier ma dell'andazzo italiano, si rischia di dover difendere Bramante: e
non dai suoi detrattori ma dai suoi stessi epigoni.
Chi legittimamente vuole più occasioni e ben altrimenti coraggiose e
innovative, può essere tentato di non appoggiare il progetto di Meier,
timido persino nel contesto del suo curriculum. Ma il rischio opposto, di assumere
toni due righe sopra il necessario, non è meno irreale e scivoloso. Quel
progetto ha un pregio: non imita il contesto ma dichiara apertamente di costituire
uno strato successivo rispetto a quelli sovrappostisi finora e oggi leggibili.
Conoscendo il rigore, l'eleganza impeccabile, la raffinatezza con cui Meier
opera non c'è da dubitare che saprà farne vivere gli interni e
far vibrare anche questo edificio e l'atmosfera che lo circonda con pochi, calibratissimi
toni di colore e con due o tre materiali. In relazione al contesto parla il
solo linguaggio della storia: che è, senza finzioni, plurilingue.
Come sia, il rischio, nel primo caso, è di trascurare e abbandonare a
sé una componente fondamentale della modernità: il Razionalismo,
sia pure in versione manieristico-meieriana, lasciando passare l'idea che se
ne può fare a meno e che le sue radici possono essere abbandonate impunemente
nella torbida landa del novecentismo e dell'architettura anni '30. E proprio
il contesto anni '30 di piazza Augusto Imperatore evidenzierebbe in modo inequivocabile
che nessuna assimilazione è possibile.
Nel secondo caso si rischia di far passare l'idea che sia tutta lì, la
modernità in gioco in Italia: in un Paese che nell'esperienza e nella
pratica quotidiana non ha la più pallida idea di cosa si tratti in realtà,
sarebbe un boomerang. Alla domanda iniziale, quindi, la risposta è: vale
la pena difendere il progetto di Meier se non ci s'llude che rappresenti la
svolta, la fine di un'età di timidezza e di oscurantismo nel nostro Paese
e magari l'inizio di un'età coraggiosa: è difficile pensarla così.
Ne vale la pena perché quel progetto è solido ancoraggio a una
delle radici ineludibili della Modernità; se non è considerato
come terminale di qualsiasi azione immaginabile, come atto unico e definitivo,
ma quanto meno una lampante conferma di rifiuto dei falsi e dell'ambientamento
e soprattutto spunto per l'avvio di nuovi e più organici interventi.
Ma è anche occasione per denunciare che è poco, ancora troppo
poco per Roma e per il Paese.
>>6 righe pro Meier per l'ara pacis .
>>Per
aggiungere un nuovo appello seguire questo link.
Da questo link è possibile scrivere un commento a favore del progetto
di Meier e della ripresa immediata dei lavori.
(Giannino Cusano
- 13/7/2004)
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Commento 762 di Andrea Pacciani del 14/07/2004
Quel progetto ha un difetto: non imita il contesto, uno dei posti più belli del mondo, ma dichiara apertamente di costituire uno strato successivo rispetto a quelli sovrappostisi finora e oggi leggibili, con l'arroganza autoreferenziale di sentirsi migliore.
Non Condivido l'appello al Sindaco Veltroni di accelerare le procedure per l'appalto in itinere del secondo lotto riguardante la sistemazione definitiva del complesso Ara Pacis.
Commento 767 di Stefano Stefani del 09/08/2004
Non condivido in nessun modo la "parziale" sistemazione del complesso Ara Pacis per i seguenti motivi:
1) Non occorre creare un altro polo museale...Ulteriori edifici che anzichè liberare alcuni punti della città, la occupano, sottraendo spazi e limitando scorci e vedute complessive..
Erano sufficienti degli accorgimenti e non erigere un complesso museale!
2) La piazza sarà + un punto di ritrovo per turisti che per i romani!
3) Assai discutibile il progetto soprattutto perchè aggettante sul lungotevere, riducendone lo spazio utile alla viabilità, seppur si adatti abbastanza (non troppo per la verità!) agli edifici del razionalismo, resta di dimensioni notevoli, con apertura principale su via ripetta (da p. del popolo/tridente) anzichè degradare di livello anche verso p.augusto imp.
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