Arte senza senso
di Sandro Lazier
- 9/5/2010

Gli iconoclasti di Bisanzio fracassavano le immagini per cancellarne il
significato (la figura visibile di Dio).
Anche noi, sotto l’apparenza
del contrario e malgrado il nostro culto degli idoli, siamo sempre degli
iconoclasti: distruggiamo le immagini schiacciandole sotto il peso del
significato, le uccidiamo tramite il senso.”
(J. Baudrillard)
Jean Baudrillard è stato sicuramente un intellettuale
scomodo e poco amato. Per tal motivo il suo pensiero ha subito una repentina
sepoltura nel camposanto del manicomio postmoderno. Luogo nel quale, sono certo,
sta malissimo e da dove vorrebbe andarsene con la stessa velocità con cui
l’hanno sepolto molti suoi colleghi e contemporanei. Desiderio, questo, dal
medesimo già espresso in vita: “Quello che non sopportava, mi disse una
volta, erano domande come: cosa ne pensa del postmoderno? E lo infastidiva il
fatto che venisse preso come ispiratore o filosofo della postmodernità
.(1)
Se lo si rilegge alla luce di
quanto i fatti, gli eventi, la nostra stessa realtà quotidiana abbiano perduto
in “consistenza” non solo sociale ma addirittura individuale, ora che la società
dell’immagine è giunta alla sua massima rivelazione, ma soprattutto se si
riflette sull’esito dell’architettura di spicco degli ultimi dieci anni, non
possiamo che contemplare alcune pertinenti profezie del suo pensiero e ammirarne
la strabiliante attualità.
Mi riferisco, per provare
quanto ho detto, all’ultimo periodo del suo lavoro intellettuale, da molti
ritenuto oscuro per la sua latente trascendenza e per la serenità con cui, con
tragica rassegnazione, egli ci descrive la scomparsa delle apparenze
(rappresentazioni mentali della realtà fisica) usurpate dall’iperreale
(rappresentazione realistica di una realtà solo mentale) e ci racconta con cinica
ironia l’impossibilità pratica degli autori di quello che lui definisce “il
delitto perfetto” di sbarazzarsi del cadavere del mondo.
Rassegnazione scambiata per disimpegno o smarrimento filosofico che riducono il
nostro autore a “un provocatore che getta ombre sulle cose
”.(2)
Ma non è così.
È sotto gli occhi di tutti quanto la
rappresentazione dei fatti sia ormai a totale servizio del modo con cui vengono
descritti; quanto la loro messa in scena sia più importante dei fatti stessi. È
noto a tutti come qualsiasi programma giornalistico televisivo, schierato
indifferentemente a destra o a sinistra, prima di proporre gli eventi ne
stabilisca la loro rappresentazione, la loro mappatura, e ne determini il
significato esclusivamente in funzione d’un senso gradito. Paradossalmente la
mappa viene disegnata prima e indipendentemente dal territorio che la dovrebbe
generare. È la realtà, quindi, a doversi adattare alla sua descrizione e non
viceversa. Non c’è evento, non solo televisivo, nel quale gli attori e le loro
situazioni, sempre più spesso rappresentate come autenticamente reali, vengano
accomodate o, meglio, stravolte per poter soddisfare il gusto collettivo (in
funzione di un premio o un sondaggio) o un altro scopo razionalmente calcolato.
Ora, quando il significato viene prima del significante, che fine fa la
comunicazione? Ma, soprattutto, che fine fa la verità? (Stiamo parlando
principalmente di verità, non di realtà).
La realtà filosofica, a questo punto, ci
interessa poco se l’inautenticità, o meglio la falsificazione, riguarda anche il
linguaggio con cui si dovrebbe negare l’evidenza del reale. Per questa ragione è
essenziale che almeno il linguaggio sia autentico. Ed è estremamente importante
che il linguaggio, come sostiene Baudrillard, sebbene per una via parecchio meno
pragmatica di quella che sto raccontando, valga molto di più di ciò che
dice
.
“…ciò che davvero interessa Baudrillard
non è il problema della conoscenza, né l’enfasi vitalistica che pervade i
filosofi italiani del sublime. Per lui, infatti, l’illusione non significa
sogno, inganno, miraggio, e nemmeno utopia, bensì l’ingresso in una dimensione
non usuale, non quotidiana, non statica. Ed è a partire da questo momento che ha
inizio una rivalutazione di ciò che chiamiamo l’arte, il teatro, il linguaggio:
perché lì si è conservato qualcosa di quella violenza al reale che si attua
nella cerimonia iniziatica e nel rito.
” (3)
Tirare
in ballo la ritualità ci porta inevitabilmente in una regione di confine con la
trascendenza ma, come sa bene la Chiesa Cattolica che sulla liturgia ha fondato
la sua continuità, abolire il rito “…equivarrebbe a eliminare tutto il tema
del linguaggio dei segni e dell’evocazione per accedere all’interno di un mondo
che non trova altra risorsa per esprimersi se non quella del rito
”.(4) L’architettura non è
un’istituzione, tantomeno religiosa anche se annovera parecchi credenti che a
volte ce lo fanno pensare, ma riguardo al linguaggio dei segni può solo
rivendicare la stessa necessità. Rito e linguaggio sono le sole risorse della
sua autenticità.
La ragione? Il linguaggio, autentico lo è sempre perché,
come il rito di cui è strumento, ha una sua struttura autonoma che non risponde
a senso e significato se non all’interno della struttura stessa. Si può parlare
per ore, usandone il linguaggio, di algebra o geometria senza dire nulla intorno
alla realtà. Si può parlare per ore di musica o di grafica senza dire nulla
intorno alla realtà. In ambedue i casi ci si può sbagliare, certamente, e fare
degli errori, ma mai mentire. Si può essere “incoerenti” ma mai bugiardi.
Escludendo il significato (l’idea che abbiamo della realtà del mondo) dalla
nostra espressione (linguistica, artistica, scientifica) liberiamo il linguaggio
dalla schiavitù del senso e dall’uso distorto che la nostra condizione di
contemporanei ci costringe a farne. Se lasciamo al linguaggio la sua autonomia e
non lo costringiamo nella condizione di servo del nostro destino, egli saprà
raccontarci il mondo e la nostra storia con l’onestà e la sincerità che gli sono
naturali.
Le implicazioni di tutto questo sono molto importanti, soprattutto
in quel territorio dove l’espressione raggiunge i suoi livelli più sofisticati:
l’arte.
Così Baudrillard:
“ L’avventura dell’arte moderna è finita. L’arte
contemporanea è contemporanea solo a se stessa. Non conosce più trascendenza
verso il passato o il futuro, la sua unica realtà è quella della sua operazione
in tempo reale, e del suo confondersi con tale realtà. (…)Non esiste più
differenziale dell’arte. È rimasto soltanto il calcolo integrale della realtà.
L’arte non è più altro, ormai, che un’idea prostituita nella sua
realizzazione.”
“(…)È quanto fa appunto il ready-made, quando si accontenta
di disinvestire un oggetto della sua funzione, senza alterarlo in alcun modo,
per farne un oggetto da museo. Basta fare del reale stesso una funzione inutile
per trasformarlo in oggetto d’arte, consegnandolo all’estetica divorante della
banalità.”
(5)
Aggiunge René Capovin (Baudrillard
in Polvere): “Secondo
Baudrillard, la maggior parte dell’arte contemporanea è mediocrità che si
spaccia per arte passando dal primo al secondo livello, ‘ma è nulla e
insignificante sia al primo che al secondo livello’. L’arte moderna, in quanto
dominio dell’anti-utilitario, si è esaurita al momento della messa in scena
della sua sparizione: Duchamp e Warhol non hanno inventato nuove forme di
opposizione alla logica della merce, come consigliava la regola aurea del campo
estetico, ma hanno raddoppiato la merce, ne hanno proposto un supplemento
ecolalico (del tipo: tutto è merce, ‘appunto’). Tale messa in scena, però, se
ripetuta, decade a simulazione della sparizione dell’arte: l’auto-sovversione
diventa allora ‘complotto’, cioè complicità ‘occulta e alquanto turpe’ tra
artista (che gioca al secondo, terzo, quarto, x-livello) e masse ‘stupefatte e
incredule’. Che la scomparsa dell’arte venga ‘simulata’ non significa affatto
che, ormai, la sua morte sia avvenuta: situata oltre la propria fine, l’arte è
allo stesso tempo esaurita (in quanto sistema orientato da valori fissi, retto
da un canone estetico) e in proliferazione incontrollata. Essendo collocata al
di là della sua data di scadenza storica, ce n’è e ce ne sarà sempre di più, e
in una misura tale da rendere impossibile un giudizio effettivamente ‘critico’ –
dal momento che ‘tutto’ è arte, ‘si ha solo una spartizione in via amichevole,
necessariamente conviviale,della nullità’.
Il
corrispettivo nel campo intellettuale di questi nipotini di Warhol è costituito,
per Baudrillard, dal postmoderno e dal pensiero debole.”
Ci risulta difficile contestare che il
“poco”, anche dopo lunga riflessione, possa diventare altra cosa, malgrado i
salti mortali degli acrobati del mondo dell’arte che da anni continuano a
lucrare sulla banalità delle opere con utilissimi profitti (alla faccia della
loro inutilità).
Ma le implicazioni riguardano maggiormente l’architettura,
molto più pronta a cogliere, praticare e sperimentare le novità linguistiche,
essendo per sua natura costretta ad un confronto sempre leale con la realtà
(materiale e sociale). Non è un caso che proprio la disillusione
postmoderna
abbia rivelato la sua pochezza teorica nello squallore della propria produzione
architettonica. La falsificazione diffusa, in cui inevitabilmente si casca
quando il significato delle cose prevale sulla loro apparenza, ha mostrato la propria
modestia nel momento in cui scrittura e linguaggio hanno rinnovato il loro ruolo
e rivendicato la loro autonomia.
La falsificazione postmoderna - e conseguentemente
neostoricista - ha infatti dimenticato che la storia ha scritto e scrive le sue
frasi nella materia e non nella forma delle sue architetture. Rifare la forma
sostituendone la materia sopprime la storia, non la salva e tanto meno la evoca,
ma la uccide. Le cose rifatte (la conservazione del loro senso in assenza della
scrittura originaria) smarriscono la profondità del tempo
perché il rifacimento cancella la loro scrittura e, nella convinzione di
sostituirle con un metalinguaggio adeguato, per il fatto che il linguaggio non
può mai mentire, di fatto le si sostituisce con la loro desolante caricatura.
Questi sono i limiti concettuali di teorie che riguardano l’uso della
filologia e della tipologia
in architettura e che, dal punto di vista della scrittura,
risultano veri reati contro l’intelligenza creativa e si rivelano per quel che
sono: argomenti accademici per amatori o, al massimo, prontuari per analfabeti
della scrittura architettonica. Il fatto che Vittorio Sgarbi, possibile prossimo
curatore del padiglione Italia della Biennale d’Arte di Venezia, da uno dei suoi
abituali teatrini mediatici condanni pregiudizialmente qualsiasi nuova
architettura priva di disciplina tipologica o ambientale, ci dà la misura
dell’arretratezza e del limite della condizione autarchica della cultura
nazionale.
Ma torniamo alla scrittura e alla sua libera autonomia.
L’architettura di questi ultimi anni ci ha mostrato molti volti spesso confusi,
costringendo il nostro giudizio a salti di quota che vanno dall’entusiasmo più
alto alla delusione più profonda.
La ragione? Molta architettura subisce
l’egemonia dell’arte figurativa e ne ripropone principi e limiti.
Altra
architettura, pur generandosi da essa, ne ha scavalcato i valori superandone di
gran lunga l’esito emozionale e artistico, tanto che molti critici e loro
affiliati hanno spesso lamentato l’inadeguatezza delle nuove strutture museali
accusate d’essere troppo rumorose rispetto alle opere esposte. Ma il problema,
in verità, non riguarda la spettacolarità dell’architettura ma la pochezza
dell’arte figurativa che la ricomparsa di una scrittura autentica ha messo a
nudo. Occorre quindi distinguere le architetture che hanno autori capaci di una
scrittura coraggiosa e libera da quelle che sorreggono la banalità dei loro
testi su improbabili significati che spesso hanno a che fare con tutto tranne
l’architettura.
Gli scrittori autentici, purtroppo, sono pochi e hanno
coscienza del loro attuale primato sull’arte figurativa, concettuale e minimalista in
particolare.
Certamente uno di questi è l’autore del museo Guggenheim di
Bilbao.
Cos’altro è l’architettura di F. O. Gehry se non questo: libera,
autentica, dirompente felicità della scrittura?
Possiamo contestare a questo
autore la sua tendenza al manierismo, lo snobismo di una posizione privilegiata,
se volete anche la mercificazione dei suoi segni. Ma nessuno può contestare
sinceramente la dimensione titanica della sua scrittura, nella quale non c’è
significato altro che per l’architettura e per il suo rituale. Nella sua
profonda onestà, questa scrittura ci dà prova delle intuizioni dell’ultimo
Baudrillard: liberata dal giogo del significato essa ci rivela la gioia
dell’esistenza e ci ridà l’evidenza dell’architettura nella sua realtà più
autentica. Nel Guggenheim di Bilbao la storia si rivela nuovamente una vicenda millenaria,
grazie al suo linguaggio e alla sua scrittura.
Irrita qualcuno per la sua
teatralità?
“Osceno è tutto ciò
che è inutilmente visibile, senza necessità, senza desiderio e senza effetti.
Ciò che usurpa lo spazio così raro delle apparenze.”
Note:
(1)
“Quello che non sopportava, mi disse una volta, erano domande come:
cosa ne pensa del postmoderno? E lo infastidiva il fatto che venisse preso come
ispiratore o filosofo della postmodernità. Baudrillard non si è mai identificato
con l’oggetto delle sue osservazioni; così come è stato presente di fronte alla
società iperreale basata sul principio della simulazione e della “scomparsa del
reale”, lo è stato altrettanto di fronte alla razionalità degli oggetti della
società del consumo cui corrispondeva l’irrazionalità dei bisogni degli anni ’60
e ’70. Qui il soggetto era come un “attrattore strano”, era la forza centripeta
del consumo, nella società iperreale, invece, resta solo l’oggetto come
attrattore strano, il soggetto scompare nell’oggetto. Attribuire certificati
d’identità a un pensatore atipico come lo è stato lui, significa falsificarne
l’immagine. Tra gli equivoci più grossi vi è quello dei “simulazionisti”
newyorkesi, un gruppo di artisti emerso negli anni ’80, i quali si erano illusi
di ispirarsi ai suoi scritti. Su questa prole spirituale non
voluta Baudrillard è stato lapidario: “Non ho nulla di dire su loro. I miei
testi potrebbero servire da giustificazione per qualsiasi cosa. Fare dei miei
scritti una referenza è già in sé una simulazione ”. In tutti i suoi scritti vi
è qualcosa di diabolico, qualcosa che sfugge sempre alla presa del pensiero,
allo scambio nel concetto, ha fatto di tutto perché la sua scrittura si
volatizzasse subito dopo esser apparsa.
Preferiva vivere a lato dei
fenomeni, la vicinanza lo infastidiva, nella distanza si sentiva a suo agio. Era
uno di quegli esseri per cui la storia o il senso che l’uomo attribuisce alle
cose potevano pure non esistere, senza questo peso del valore che si attribuisce
a ogni cosa il mondo per Baudrillard sarebbe stato ancora più magico. Amava le
cose dissimili e gli universi paralleli come quello della Patafisica di cui ne è
stato dopo la morte di Baj l’ultimo grande Satrapo. La Patafisica nelle sue mani
diventava un’arma micidiale per il pensiero, e questo non gli è stato perdonato.
Ma a Jean non importava. Amava Borges, i sui labirinti fatti di immagini che si
perdono in altre immagini, e anche per il suo bestiario ideale. Era orgoglioso
che il suo nome iniziasse con la B, la lettera che accomuna Baudelaire,
Benjamin, Brecht, Barthes, autori da cui non si è mai staccato. Vedeva il mondo
sempre come se fosse riflesso in uno specchio, che si divertiva a deformarlo, ad
anamorfotizzarlo, e a volte a prenderlo alla lettera per scoprirne il ridicolo
che cela.”
(http://www.ubishops.ca/BaudrillardStudies/obituaries_mfaletra-pf.html)
(2)
“In ultima analisi, Baudrillard è forse più utile come provocatore che
sfida e mette in discussione la tradizione della filosofia classica e della
teoria sociale che come qualcuno che fornisce dei concetti e dei metodi che
possono essere applicati nell’analisi filosofica, sociale o culturale. Egli
dichiara che l’oggetto della teoria sociale classica – la modernità – è stato
superato da una nuova postmodernità e che perciò sono necessari strategie
teoretiche, modi di scrittura e forme di teoria alternativi. Mentre il suo
lavoro sulla simulazione e la rottura postmoderna, muovendo dalla metà degli
anni Settanta fino ad arrivare agli anni Ottanta, fornisce una teoria
postmoderna paradigmatica e un’analisi della postmodernità che è stata altamente
influente, e che a discapito delle sue esagerazioni continua a essere impiegata
per interpretare le tendenze sociali attuali, il suo lavoro successivo è
probabilmente più di interesse letterario. In definitiva, Baudrillard va oltre
la teoria sociale, in una nuova sfera del modo di scrittura che fornisce delle
introspezioni occasionali all’interno dei fenomeni sociali contemporanei e
critiche provocatorie della filosofia contemporanea e di quella classica e della
teoria sociale.“
(http://www.filosofico.net/baudrillard7.htm)
(3)
Nella seconda fase, aperta dall’idea di strategia fatale, è centrale
la parola «illusione», che va intesa sia in senso metafisico-cognitivo, ossia
come il contrario della realtà e della verità, sia in senso
estetico-psicologico, ossia come il contrario del disincanto e della delusione.
Se si privilegia la prima accezione, il pensiero di Baudrillard acquista una
coloritura scettico-nichilistica non lontana da alcune tendenze della filosofia
italiana contemporanea - per esempio il «pensiero debole» di cui condivide il
radicale rifiuto della metafisica e dell’etica, e quel filone della cultura
filosofica caratterizzata dal catastrofismo vitalistico, che in Italia corre da
Pirandello a Giorgio Colli e a Giorgio Agamben. Ma sono paralleli, in realtà,
ingannevoli: perché ciò che davvero interessa Baudrillard non è il problema
della conoscenza, né l’enfasi vitalistica che pervade i filosofi italiani del
sublime. Per lui, infatti, l’illusione non significa sogno, inganno, miraggio, e
nemmeno utopia, bensì l’ingresso in una dimensione non usuale, non quotidiana,
non statica. Ed è a partire da questo momento che ha inizio una rivalutazione di
ciò che chiamiamo l’arte, il teatro, il linguaggio: perché lì si è conservato
qualcosa di quella violenza al reale che si attua nella cerimonia iniziatica e
nel rito. È in quell’ambito che si conserva una padronanza delle apparizioni e
delle sparizioni, e in particolare la padronanza sacrificale dell’eclissi del
reale. Siamo quindi molto lontani dal gioco inteso come ricreazione, loisir o
distrazione; l’idea che Baudrillard ha dell’arte come illusione è semmai
prossima alla concezione antropologica della magia, dove la potenza
dell’illusione riesce a irrompere nel reale e in qualche modo a prenderne il
posto, senza però identificarsi con esso. Un passaggio fondamentale, questo, per
capire una tra le idee più oscure della riflessione di Baudrillard, quella di
strategia fatale. Non è un progetto o un piano di azione elaborato da un
individuo, la strategia così come la pensa Baudrillard, bensì una concatenazione
di elementi esterni alla volontà soggettiva: dunque è un sinonimo di regola e di
rituale. Ma questa concatenazione non è né necessaria, né casuale, né
teleologica, né fortuita, è un rito senza mito, un significante senza
significato, tuttavia può diventare fatale, aggettivo cui Baudrillard consegna
il senso di legato al male, funesto.
Tutte le cose sono chiamate ad
incontrarsi - secondo il filosofo francese - solo il caso fa sì che questo
appuntamento non si realizzi; al contrario, dunque, di quanto è proprio all’idea
di "hasard objectif" dei Surrealisti, che in un mondo retto dalla casualità
cercavano di attribuirle un significato e un valore reconditi indipendente dalle
intenzioni e dalle volontà soggettive, scoprendo una trama occulta: una specie
di astuzia della ragione (List der Vernunft) hegeliana. Sebbene Baudrillard dia
invece per scontato che le cose si incontrino, non attribuisce a questo incontro
alcun significato, perché non di una concatenazione provvidenziale si tratta, ma
di un rituale, che tuttavia talvolta manca l’appuntamento e si trasforma in
rituale mancato. La distanza estetica su cui si reggeva il rituale è però
annullata, in occidente, dalla cancellazione della scena e dall’annientamento
delle mediazioni, di qualsiasi tipo esse siano (artistiche, politiche,
sessuali). In questa direzione l’analisi di Baudrillard si distanzia da quella
di Guy Debord: il mondo attuale, infatti, non sarebbe caratterizzato dal trionfo
dello spettacolo, ma dalla sua sparizione. La scena è stata sostituita
dall’osceno, il posto dell’illusione è stato preso da qualcosa che pretende di
fornire un effetto realistico maggiore dell’esperienza della realtà (ed è perciò
iperreale), ogni evento è anticipato e annullato dalla pubblicità e dai
sondaggi. Dunque l’azione diventa impossibile e ad essa succede la
comunicazione, che riesce appunto a fare precipitare ogni cosa
nell’insignificante, nell’inessenziale, nel derisorio. Nel mondo della
comunicazione, nulla più accade: tutto è senza conseguenze, perché senza
premesse, suscettibile di essere interpretato in tutti i modi, tutti ugualmente
irrilevanti e privi di effetti.
(Testo di Mario Perniola pubblicato in "Il Manifesto", 7 marzo
2007, col titolo "Potente e fatale la strategia di Jean Baudrillard")
(4)
"L’azione liturgica consente di verificare che Dio non permane come
un'illusione creata dalla mente dell’uomo, ma una realtà con cui riferirsi in
maniera oggettiva nel susseguirsi dei tempi e degli spazi che assumono valore
sacro". A mettere in luce la centralità del rito nel discorso su Dio è stato
monsignor Rino Fisichella, Presidente della Pontifica Accademia per la vita e
Rettore della Pontificia Università Lateranense. Concludendo i lavori
dell’evento internazionale "Dio oggi. Con Lui o senza di Lui cambia tutto",
promosso dal Comitato per il progetto culturale della Cei, monsignor Fisichella
ha sottolineato che "il rito conferisce alla conoscenza di Dio uno spazio di
comunicazione che ingloba l’intera realtà creata e l’uomo in essa". "L’azione
liturgica, il rito sono forme espressive e linguaggi con cui è necessario
confrontarsi nel nostro parlare di Dio", ha ribadito il Rettore dell’Università
Lateranense per il quale sarebbe "illusorio pensare di emarginare questa
dimensione". Questo, ha aggiunto, "equivarrebbe a eliminare tutto il tema del
linguaggio dei segni e dell’evocazione per accedere all’interno di un mondo che
non trova altra risorsa per esprimersi se non quella del rito". "L’analisi di
questa componente – ha spiegato - mostrerebbe che si apre il passaggio per
verificare quale relazionalità intercorre tra Dio e l’uomo senza cadere in forme
di alienazione o psicosi".
"Se le religioni hanno fatto del rito un elemento
determinante - ha concluso - ciò implica che possiede un effetto essenziale e
costitutivo nel discorso su Dio, per cui la cultura contemporanea non può né
deve allontanarsi".
(Mons. R. Fisichella: il rito fa sì che Dio non sia
un'illusione)
(5)
“L’avventura dell’arte moderna è finita. L’arte contemporanea è
contemporanea solo a se stessa. Non conosce più trascendenza verso il passato o
il futuro, la sua unica realtà è quella della sua operazione in tempo reale, e
del suo confondersi con tale realtà.
Nulla la distingue dall’operazione
tecnica, pubblicitaria, mediatica, numerica. Niente più trascendenza, niente
divergenza, niente altra scena: solo un gioco speculare con il mondo
contemporaneo così come esso ha luogo. Per questo l’arte contemporanea è
inesistente, perché tra essa e il mondo si ha solo un’equazione
perfetta.
Fuori di questa complicità vergognosa, in cui creatori e
consumatori comunicano senza dire una parola nella considerazione di oggetti
strani, inesplicabili, che rimandano solo a se stessi e all’idea dell’arte, il
vero complotto sta nella complicità che l’arte stringe con se stessa, nella sua
collusione con il reale, grazie alla quale diviene complice di quella Realtà
Integrale di cui è ormai soltanto il ritorno-immagine.
Non esiste più
differenziale dell’arte. È rimasto soltanto il calcolo integrale della realtà.
L’arte non è più altro, ormai, che un’idea prostituita nella sua realizzazione.”
(…)
“L’idea rivoluzionaria dell’arte contemporanea era che qualsiasi
oggetto, qualsiasi dettaglio o frammento del mondo materiale poteva esercitare
la stessa strana attrazione e porre gli stessi problemi insolubili che un tempo
sembravano prerogativa di poche e rare forme aristocratiche dette “opere
d’arte”.
Qui stava la vera democrazia: non nell’accesso di tutti al godimento
estetico, ma nell’avvento transestetico di un mondo in cui ogni oggetto, senza
distinzione, avrebbe il suo quarto d’ora di celebrità (e soprattutto gli oggetti
senza distinzione). Tutti si equivalgono, tutto è geniale. Con il corollario
della trasformazione dell’arte e dell’opera stessa in oggetto, senza illusione
né trascendenza, acting out puramente concettuale, generatore di oggetti
decostruiti che, a loro volta, ci decostruiscono.
Niente più volto, niente
più sguardo, niente figura umana né corpo lì dentro – organi senza corpi,
flussi, molecole, frattali. Il rapporto con l’”opera” appartiene alla sfera
della contaminazione, del contagio: ci si connette, ci si assorbe, ci si
immerge, esattamente come nei flussi e nelle reti. Concatenamento metonimico,
reazione a catena.
Niente più oggetto reale in tutto questo: nel ready-made
non c’è più l’oggetto ma l’idea dell’oggetto, e noi non godiamo più dell’arte ma
dell’idea dell’arte. Siamo in piena ideologia.
E nel ready-made si riassume
in fondo la doppia maledizione dell’arte moderna e contemporanea: quella di
un’immersione nel reale e nella banalità, e quella di un assorbimento
concettuale nell’idea dell’arte.
Sì, ma cosa diviene questa prospettiva del
vuoto e dell’assenza in un universo contemporaneo già totalmente svuotato del
suo senso e della sua realtà?
L’arte può ormai soltanto allinearsi
sull’insignificanza e l’indifferenza generali. Non ha più alcun privilegio. Ha
come unica destinazione finale questo universo fluido della comunicazione, delle
reti e dell’interazione.
Emittente e ricevente si confondono nel medesimo
anello: tutti emittenti, tutti riceventi. Ogni soggetto interagisce con se
stesso, votato a esprimersi senza avere più il tempo di ascoltare l’altro.
Il
Net e le reti moltiplicano evidentemente questa possibilità di emettere per
proprio conto, a circuito chiuso, con ciascuno che mette in gioco la sua
performance virtuale e contribuisce all’asfissia generale.
(…)
Interfaccia e performance: i due leitmotiv attuali.
Nella
performance si confondono tutte le forme d’espressione – arti plastiche, foto,
video, installazione, schermo interattivo. Questa diversificazione verticale e
orizzontale, estetica e commerciale fa ormai parte dell’opera, il cui nucleo
originale è irreperibile. (…)
In questo mixaggio universale, ogni registro
perde la sua specificità – proprio come ogni individuo perde la sua sovranità
nelle reti e nell’interazione – proprio come il reale e l’immagine, l’arte e la
realtà perdono la loro energia rispettiva cessando di essere poli
differenziali.
A partire dal XIX secolo l’arte vuole essere inutile. Se ne fa
un titolo di gloria – cosa che non accadeva nell’arte classica dove, in un mondo
che non è ancora né reale né oggettivo, il problema dell’utilità nemmeno si
pone.
Per estensione di questo principio, basta portare un oggetto qualsiasi
all’inutilità per farne un’opera. È quanto fa appunto il ready-made, quando si
accontenta di disinvestire un oggetto della sua funzione, senza alterarlo in
alcun modo, per farne un oggetto da museo. Basta fare del reale stesso una
funzione inutile per trasformarlo in oggetto d’arte, consegnandolo all’estetica
divorante della banalità.
Analogamente, le cose vecchie, antiquate, e quindi
inutili, acquisiscono immediatamente un’aura estetica. Il loro scarto nel tempo
è l’equivalente del gesto di Duchamp, divengono anch’esse dei ready-made, delle
vestigia nostalgiche risuscitate nel nostro universo museale.
Si potrebbe
estrapolare questa trasfigurazione estetica alla produzione materiale nel suo
insieme. Una volta che essa abbia raggiunto la soglia al di là della quale non
si scambia più in termini di ricchezza sociale, tale produzione diviene come un
gigantesco oggetto surrealista, preso da un’ estetica divorante, e si inscrive
dappertutto in una sorta di museo virtuale. Museificazione a tambur battente,
come un ready-made, di tutto l’ambiente tecnico sotto forma di zona industriale
dismessa.
La logica dell’inutilità non poteva che portare l’arte
contemporanea a una predilezione per lo scarto – anch’ esso inutile per
definizione. Attraverso lo scarto, la figurazione dello scarto, l’ossessione
dello scarto, l’arte si accanisce a mettere in scena la propria inutilità. Essa
manifesta il suo non-valore d’uso, il suo non-valore di scambio – e, nel
contempo, si vende carissima. ”
(J. Baudrillard - Il patto di lucidità o
l’Intelligenza del Male)
(Sandro Lazier - 9/5/2010)
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Commento 8030 di Vilma Torselli del 11/05/2010
Sandro, sono molti i punti del tuo articolo sui quali discuterei, anche se so di non avere la preparazione e gli strumenti per contestarli efficacemente, ma ci provo ugualmente, premettendo che le mie argomentazioni potranno sembrare semplicistiche.
Ti chiedi “che fine fa la verità”, datosi che la mappatura del territorio viene costruita prima di esplorarlo e la rappresentazione dei fatti, scrivi, è “ormai a totale servizio del modo con cui vengono descritti”.
Io credo che i fatti siano nella stragrande maggioranza dei casi ‘fatti descritti’, in tutti i modi possibili, oggi con le simulazioni virtuali, in passato attraverso il racconto di testimoni o storici o cronisti, l’invenzione dei linguaggi e delle scritture hanno permesso la prima, importante decontestualizzazione della storia rendendo possibile raccontare ‘la realtà’ dei fatti anche senza esserne stato testimone oculare.
Da allora la ‘verità’ dei fatti ha cessato di esistere.
Io non sono mai stata a Petra, so che esiste, o almeno mi hanno fatto credere che esista, perché me l’hanno raccontata, fotografata, descritta, oggi me la fanno percorrere con sofisticati mezzi tecnologici di simulazione in 3D, è comunque sempre un racconto mediato, seppure costruito con linguaggi diversi, probabilmente inquinato, come tutti i racconti, dalla soggettività del narratore.
Mi è anche difficile, data la mai ignoranza in materia, discutere sul discorso del linguaggio, al quale attribuisci una sua autonomia strutturale che lo rende sempre autentico e veritiero: da ciò che capisco, lo paragonerei al medium di McLuhan, dotato di una struttura intrinseca che lo straforma da mezzo per esprimere un messaggio a messaggio vero e proprio. E allora, il virtuale non è un mezzo, quindi un linguaggio? Non racconta una sua verità?
Quanto a Duchamp, mi viene in mente una curiosa foto del Baudrillard-artista che fotografa una poltrona nascosta sotto un drappo rosso (dalla mostra ‘Scatti’, Bologna, 2000, http://img104.imageshack.us/img104/8784/baudrillardsaintbeuve19.jpg): che fa, se non decontestualizzare un comune ed insignificante pezzo di stoffa “senza alterarlo in alcun modo […… ] per trasformarlo in oggetto d’arte, consegnandolo all’estetica divorante della banalità.”? Io lo leggo come un ironico e benevolo omaggio al pop, non è proprio una lattina di campbell's soup, tuttavia …..
Quanto a “Il delitto perfetto, così commenta lo stesso autore:“ [……] Voglio dire che la perdita più grave è senz'altro quella dell'illusione, vale a dire di una parte diversa del nostro rapporto con l'esistente. Il concetto di realtà è relativamente recente, contiene un sistema di valori solo da poco consolidatosi. Per contro, mi sembra che l'illusione sia parte integrante dell'organizzazione simbolica del mondo, ed è perciò assai più dinamica. È l'illusione vitale di cui parla Nietzsche, costituita da apparenze, fantasie, e tutto ciò che può essere la forma di una proiezione, come una scena diversa da quella della realtà. E mi pare che essa sia stata completamente eliminata da questa operazione del virtuale che, in parole semplici, io chiamo "delitto" ma che in fondo non è che una metafora un poco esagerata e forse persino non troppo giusta, nella misura in cui non si tratta in realtà di un crimine o di un assassinio in senso simbolico. Quando Nietzsche diceva "Dio è morto", ad esempio, intendeva identificare con l'uccisione di Dio una rivoluzione positiva, se così posso esprimermi, mentre nell'altro caso non abbiamo un omicidio ma una eliminazione, una scomparsa, un annullamento, cosa alquanto più grave. Quanto all'aggettivo "perfetto", esso denota come il vero delitto, come sto per dire, consista nella perfezione, perché vuol dire che è quest'ultima il risultato finale.” (Intervista sul virtuale a Jean Baudrillard, 1999, http://www.mediamente.rai.it/home/bibliote/intervis/b/baudrillard.htm).
Sono convinta che se Baudrillard, per cause di forza maggiore, non si fosse perso gli ultimi tre anni del decennio, avrebbe cambiato almeno alcune delle sue affermazioni.
Sulla felicità della scrittura di F. O. Gehry, sono d’accordo, è senz’altro felice, lui, prima di tutto, che ha il coraggio, la capacità, la possibilità e l’onestà(?) di esprimersi, credo che non ci sia un architetto che non lo invidi!
E’, come dici, una scrittura “liberata dal giogo del significato”, ma io il “confronto sempre leale con la realtà (materiale e sociale)” che sarebbe prerogativa ineludibile dell’architettura non ce lo vedo.
Mi sembra anche discutibile sostenere che la spettacolarità di certa architettura risulti tale perché confrontata con la pochezza dell’arte figurativa che ospita, fra contenente e contenuto c'è, ci deve essere, una tensione reciproca che suggerisca un equilibrio delle parti a beneficio di entrambe, perché si capisca che sono fatte l'una per l'altra.
“who’s the star, the building or its contents?” si chiede Andrew McClellan, storico dell’arte: non c’è dubbio, la star, anzi l’archistar, è sicuramente Gehry !
11/5/2010 - Sandro Lazier risponde a Vilma Torselli
Vilma, ho letto il tuo ultimo scritto “Se questo è un quadro” dove lamenti per l’arte e l’architettura l’assenza di racconto. So, quindi, che non puoi essere d’accordo con me, che propongo una decisa presa di distanza da qualsiasi forma di significato. Il racconto, secondo la mia opinione, non è vietato ma negato, perché non può aver pretesa di contaminare e condizionare il linguaggio artistico o architettonico. L’autonomia “formale” di questo lo rende immune dal giudizio sulle cose che raccontiamo. Si può dire la più grande menzogna o la più grande verità con linguaggio raro o banale indifferentemente. La differenza la fa la “forma” del linguaggio, non la sua sostanza.
Il riferimento a McLuhan non credo sia del tutto adatto. Il linguaggio non è un messaggio o un medium, rimane uno strumento per comunicare che però ha una sua vita propria. Vive e prospera anche quando il messaggio è esaurito.
La poltrona rossa di Baudrillard. In occasione della mostra, su Repubblica del 30 aprile 2009, viene pubblicato lo stralcio di uno scritto del 2004, Ombre et photo, che dice a un certo punto: “La fotografia (…) conserva la traccia di una scrittura d'ombra, quale essa è altrettanto che "scrittura di luce", e dunque il segreto di una fonte luminosa venuta dalla notte dei tempi.”
All’autore interessa, in questa fotografia, la relazione tra luce e ombra e il loro dialogo. Il racconto c’è, ma è interno al dialogo luce ombra esclusivamente fotografico. Non ci sono riferimenti altri che al linguaggio. Infatti, dice ancora più avanti: “Ora, bisogna che un'immagine sia libera da se stessa, che sia sola e sovrana, che abbia il proprio spazio simbolico.”
Si racconta che Stendhal passasse alcuni giorni di tempo su poche righe dei suoi romanzi. Non era in discussione il racconto, ma la forma con cui veniva comunicato. La letteratura, per rinnovarsi, deve fare i conti con la lingua. L’architettura, per rinnovarsi, deve fare i conti con la scrittura dello spazio, non con i suoi significati.
L’arte contemporanea deve innanzitutto ritrovare il suo ambito formale, il luogo dell’espressione e della sua scrittura.
Recentemente ho visto due immagini piene di significato. La prima riguarda un americano che, per la festa di Halloween, ha indossato un costume da prete cattolico con cucito sull’abito all’altezza dei genitali un bimbo visto da tergo. La seconda è sulla copertina di un settimanale tedesco, dove una classica statua greca tende il pugno rovesciato in avanti con l’indice medio alzato.
La pubblicistica è la vera arte dei significati e queste due immagini valgono molto più di un asino appeso al soffitto di un museo.
Commento 8032 di giannino cusano del 14/05/2010
«Il cinema si ispira alla vita, solo che la vita si ispira alla tv»: folgorante Woody Allen.
Tutti i media a gran voce; tutti: «contro la crisi e le speculazioni l'UE stanzia 750 miliardi di euro!!!» Un vero trionfo. E le borse a far coro: tanto dura pochi giorni, Che sbornia. Che euforia. E con tanto di applausi a scroscio. Che c'è da applaudire? Stiamo finanziando il debito con altro debito. C'è da piangere: stiamo celebrando allegramente la craxizzazione dell'UE. Debito pubblico per avere consenso: e l'ultimo chiuda la porta e paghi. Applaudiamo a scroscio come va di moda ai funerali. Un orrore al uale manca solo chi chiede il bis al caro (e)stinto.
Vado alla posta: «signora, che fa? Stia in fila. Non ha visto la televisione? C'è stata la Rivoluzione. Abbiamo partecipato quasi tutti: i più dai sofà nei salotti, qualcuno in cucina. Ne abbiamo uccisi almeno tre a testa. Lei dov'era, nel frattempo?»
750 miliardi: Bush? Obama? Roba da dilettanti, quello che hanno dato a banche e assicurazioni in crisi. Noi siamo la grande Europa! Applausi al funerale. In cui, però, il cadavere è quello che ci portiamo addosso ancora vivo. Sottoscriviamo felici altri 20 anni di ulteriore schiavitù. Debito su debito: e chi paga? Ora l'UE, di fatto, può imporre tasse. E' un fatto: un arbitrio deciso in 2 giorni contro gli accordi di Lisbona. E invece, giù applausi! Abbiamo rinviato la Morte. Ci toccherà lavorare quasi gratis nei prossimi decenni e applaudiamo felici. Aveva ragione la Merkel, ma l'hanno piegata, alla fine. Ora ha ceduto: brindiamo all'inflazione che verrà e alla disoccupazione che si porterà inevitabilmente dietro!.
E' così che “s'informano i fatti” (Derrida, Bene).
La parola è stanca. Stanca di portare acqua al mulino di questo o di quello, di una tesi o di un'altra. Stanca di essere funzionale a qualcosa. Di dimostrare alcunché. Stanca del senso. La parola, la forma, il colore. Portatori d'acqua del senso preconfezionato. Di prendere parte al banchetto del discorso, perché ogni discorso postula un resto. E resto su resto (ri)produce accumulazione: il rinvio della Morte a data da destinarsi.
La poesia no. La poesia è la festa della parola o della forma che non dà resto: è un gioco a somma zero. La parola viola, così., le fondamentali leggi costitutive della parola e del linguaggio. E se questo insorge contro le sue stesse leggi (di accumulazione), mette in scacco il senso. Già: ma allora, non è proprio questo il suo senso? Nient'affatto, perché nel sottrarsi alla proliferazione del senso non si annichila. L'annichilimento è proprio il suo contrario: la proliferazione del senso. Il logocentrismo di Derrida. Il resto è economico: il suo utile è il senso. La poesia si sottrae all'economico, alla proliferazione vitalistica e fascistica del senso, alla sua accumulazione come (mitologia dell') immortalità: tema baudillardiano. Centrale ne “Lo scambio simbolico e la morte”: quello che meglio mi risuona, personalmente.
I significanti tornano ad essere liberi perché duplicabili e scambiabili solo tra loro: costituiscono "mondo" senza rinviare a un mondo, come gli Anagrammi di Saussure prima che si desse alla linguistica. Il linguaggio poetico, insisterò sempre, non è quello della linguistica, che quello mette regolarmente in scacco nonostante i tentativi di Restaurazione del senso degli Umberto Eco e Jacobson di turno. Linguaggio senza funzioni dettate dal modello del potere. E ognuno s'inventi le proprie.
Titoli a tutta pagina: «E' morto l'Immortale!» Smarrimento e crisi generale.
L'arte è la morte del mito dell'immortalità. Prima di dimostrare tesi, credo, Baudrillard è un linguaggio poetico: reclama poesia. Ha scritto il poeta, amico e concittadino Vito Riviello, recentemente scomparso:
“Tutto il tempo che ho perso
me lo ritrovo in versi”
Tutti i particolari in Youtube.
E grazie ancora a Lazier.
G.C.
14/5/2010 - sandro lazier risponde a giannino cusano
Grazie Giannino: puntale, preciso, profondo
Commento 8033 di bobo pernettaz del 14/05/2010
Sandrone, i tuoi interventi m'ingolosiscono. Li stampo e li leggo con calma ma il postulato di Baudrillard non può che trovarmi totalmente consenziente e mi spinge a relazionare senza aver letto compiutamente l'articolo. Conosci il mio laboratorio e i miei lavori e a nome di tutti gli artigiani che impastano materia e ricerca, forse stucchevole ma sempre meditata, gli artigiani del lavoro quotidiano senza folgorazioni creative: sì e così.
A presto: bobo
Commento 8196 di Renzo marrucci del 19/05/2010
Altro che senso nella felicità di F. O. G. e beato lui che ottiene incarichi di quel tipo... l'unica vera cosa da invidiargli... ma se poi così li sfrutta me ne astengo con facilità ma anche questo è interessante perchè fa crescere in qualche modo ... Osservare chi nuota nell'abbondanza e nella leggerezza... giocare con l'uomo e con i suoi mezzi tilascia li per lì stupefatto... poi dopo capisci...
L'arte ha senso sempre se non per il fatto che è arte quando è Arte... Quindi ha senso F.O.G. e altri, molti altri come lui ... e per fortuna in questo mondo che noi passiamo nella sua grande fessura aperta ...
Devo dire che sono ammirato e stimolato dallo scritto della Signora Torselli che ringrazio della sua umiltà davvero efficace e semplice.
Renzo Marrucci
Devo aggiungere che l'articolo di Lazier mi ha procurato dei dolorini acuti ma non semplice mal di pancia...
Grazie ...
Commento 8201 di giannino cusano del 24/05/2010
PS: PRECISAZIONI CHE RITENGO UTILI
e spero alimentino altri commenti e approfondimenti.
Spesso l'idea di "assenza del senso", in arte e in architettura, si accompagna a sospetti di "autoreferenzialità". Non mi pare che sia così: è stato lo strutturalismo (S) a portare a una logica autoreferenziale. Per lo S conta anzitutto e solo il modo in cui si organizzano (fanno struttura) i significanti in questo soggetto o in quest'opera d'arte, perché solo così si riuscirebbe a far luce parziale sul significato profondo ed occulto che li genera anche su più stratificazioni diverse. Questo portava a una metafisica del significato: solo e tutte le sequenze, relazioni e strutture di segni ripetitive hanno valore in quanto gettano luce su un significato occulto che genera quelle "strutture". Inutile dunque illudersi di poter guidare il discorso, perché è guidato da forze inconsce, strutturali, archetipe. Così Aldo Rossi, per es.: e non a caso la metafisica del significato univoco, centrale e occulto della città si riflette nella metafisica dei suoi edifici.
Ne "L'architettura della città" afferma che non si sfugge alle "permanenze" della città antica. Se ne conclude che la libertà e responsabilità creativa è un'illusione e che non serve, per es., affannarsi a decentrare i ministeri romani nell'Asse Attrezzato, perché essi per lo più sorgono in luoghi a fortissima valenza simbolica come monasteri dismessi, a loro volta sorti su luoghi pagani già a intensa carica simbolica, e quindi aderiscono a una struttura profonda, consolidata nel tempo e indecifrabile di “permanenze” urbane. Qui sta la metafisica di un senso già dato a priori dal quale, in quest'ottica, non si può sfuggire. Ogni intervento innovativo sulla città verrà rigettato come un organo trapiantato. E qui, anche, l'equivoco storicista, contro ogni concreta lettura storica della città e delle sue trasformazioni. Che, nell'ottica dello S, sono come date a priori e trascendono ogni nostro contributo e sforzo. Così, per es., Palazzo della Ragione a Padova, la "struttura" è più forte di qualsiasi trasformazione e il suo significato centrale è tanto più potente quanto più è oscuro (inconscio). Allora quello che conta sono le relazioni strutturali tra le “parti” di città, immutabili in quanto determinae da un Ur-codice sottostante: ogni sforzo creativo è velleitario. Anzi: il soggetto e il soggettivo sono solo sovrastrutture destinate al fallimento, in quanto ciascuno di noi è il prodotto di forze trascendenti e obbedisce a leggi oggettive e fatali. Se contano le relazioni tra le parti, il discorso architettonico è autoreferenziale ed autonomistico: non ammette posto per il nostro essere “umani”.
La rivolta post-strutturalista, pur non rifiutando acquisizioni importanti dello S, nel negare il “senso” in realtà nega la "metafisica" del senso. La superficie non è il prodotto di una massa profonda di significato (contenuto) che, nella sua relazione col significante, sarebbe già dato una volta per tutte e inscalfibile, inesprimibile come un Dio nascosto, perché la superficie non è solo un risultato, ma ha una propria vita non ulteriormente trascendibile.
All'autoreferenzialità dello S ora succede una via nuova: quella dell'Altro: il suo riconoscimento. (Derrida: ogni filosofia inizia con una domanda, ma ogni domanda presuppone l'affermazione dell'Altro cui essa, implicitamente, si rivolge). Se il “gioco” dei significanti non è predeterminato da relazioni strutturali date, perché è oggetto di invenzione, non conta più nulla l'illusione linguistica del logocentrismo (parlo e non dico nulla perché i giochi sono già fatti sopra la mia testa) e soprattutto non ci sono concetti universalmente dati e validi per tutti (Foucault), come pretenderebbe lo S; non c'è necesstià universale (e astratta) che si potrebbero conoscere attraverso analisi, per quanto accurata, della realtà: non c'è fondamento ultimo alla realtà, né del soggetto né del mondo “oggettivo” (Nietzsche).
Infatti Baudrillard avverte che il discorso poetico non ha nulla da spartire non solo con l'economico, ma anche con la “critica dell'economia politica”. Il potere carcerario che l'anima detiene sul corpo è lo stesso che il linguaggio detiene sulla parola (Foucault) e proprio da questo giogo nasce l'illusorio concetto dell'Io. Rompere il giogo non è, come credeva l'Espressionismo, liberare sentimenti repressi del soggetto, ma affermare l'Altro: riuscire alla messa in contatto da interno a interno, da soggetto a soggetto. direttamente (Carmelo Bene e la macchina attoriale) attraverso l'emozione dell'inenarrabile e irripetibile (al contrario della perpetua ripetitività autoreferenziale dello S) e prima ancora di “essere detti” dal linguaggio, che bara sempre al gioco. Nemmeno il senso vuoto freudiano (Thanatos), per molti aspetti rivoluzionario, che sta al fondo della psicanalisi, basta: è il vuoto di senso (Deleuze) che mi consente di il contatto con l'Altro attraverso l'emozione, il non concettualizzabile, il non strutturato.
Dunque, post-strutturalismo come, di nuovo, riconoscimento dell'Altro, morte di qualsiasi autoreferenzialità in quanto si è liberi dalle catene del "dover dire", del “senso” come lo S lo intendeva. E quindi “espressione” come irruzione mondana del barbarico, del primitivo (G.B. Vico) che rompe i tabù del tempo, dell'azione, del linguaggio e la schiavitù della significazione, luoghi delle ombre e dei “doppi”, per conquistare nuova e cruda verità espressiva: nuova vita. Niente autoeferenzialità ma “spezzare il linguaggio per raggiungere la vita” (Antonin Artaud – Il teatro e il suo doppio, PB Einaudi, TO - 2000).
G.C.
Commento 8552 di giannino cusano del 29/05/2010
e non sono discorsi astratti o campati per aria. Guardiamoci intorno, è notizia di oggi: «ragazzo di 22 anni pestato a sangue a Roma al grido di "frocio frocio" rischia di perdere un occhio». Questo è l'Altro. E non c'è da imbastire discorsi, sull'Altro.
Poi, però, se guardiamo l'arte contemporanea, inorridiamo e ci ritraiamo nell'illusoria immaginazione di un passato, una perduta età del'oro mitica quanto inestistente: preferiamo non vedere che l'arte è anzitutto il nostro specchio più vero e profondo. E che non è obbligata ad avere un "senso", al pari della gratuità della violenza. Con la differenza, non da poco, che la prima ci stacca dalla seconda.
G.C.
Commento 8553 di vilma torselli del 30/05/2010
L'arte ha sempre un 'senso', anche se non si tratta di 'senso comune', quest'ultimo sì che non è obbligatorio.
La decodificazione del linguaggio artistico avviene secondo un 'senso' intrinseco all'opera che non ha niente a che fare con i normali meccanismi cognitivi di cui ci serviamo nella vita quotidiana.
Commento 8554 di gianni marcarino del 30/05/2010
Nella prefazione del suo libro "Gratis a bordo dell'arte" Achille Bonito Oliva "Ai Pokemon della società di massa l'arte contemporanea contrappone la sgraziatura di una felice mostruosità tutta affidata all'imprevedibilità di forme che posseggono all'interno l'intenzionalità della durata e la speranza di costruire una densità del senso non vaporizzabile a breve termine. L'arte invita ad un banchetto duraturo..."
Se lo scopo dell'arte contemporanea è quello di mettere in discussione i codici correnti, dare senso ad una visione alternativa del mondo, ma oggi utilizza strumenti di scandalo validi un secolo fa, di quale significato parliamo se non di un banchetto commerciale tutto coerente al sistema. Se lo scandalo dada "mordeva" una società che disponeva di mezzi di comunicazione quali il teatro e la carta stampata, peraltro fruibili da una elite borghese, oggi internet offre in presa diretta un teatro dell'assurdo planetario molto più immediato, incisivo e devastante di alcuni (finti) bimbi appesi ad un albero cittadino. Se l'arte si attribuisce il compito di non essere "velina" del potere, e quindi vanta ancora una ricerca di senso e di giudizio critico, allora occorre rifettere se non ci troviamo di fronte ad un crepuscolo del senso.
Commento 8555 di vilma torselli del 30/05/2010
Per J.P. Sartre le opere d'arte "sono soltanto 'analoga' materiali delle immagini ideali che costituiscono la vera e propria opera d’arte valutabile”, la quale è una struttura irreale, cioè priva di senso corrente, in grado di rivelare un mondo dell'immaginazione diversamente non accessibile dalla coscienza: gli aspetti materiali e fisici dell'opera sono, insomma, dei catalizzatori per arrivare al 'senso dell'opera'.
Secondo questa interpretazione, il gesto dell'artista si fa senso nell'urgenza della domanda, nella ricerca della risposta, nel segno che lascia, nella ridefinizione di una sorta di 'statuto mimetico' dell'arte.
Arthur Danto parla di "destituzione filosofica dell’arte" e sceglie il pop di Andy Warhol per interrogarsi sul perché qualcosa sia arte e qualcosa di esattamente uguale sul piano percettivo non lo sia: davanti ad una scatola di Brillo dipinta da Warhol non possiamo cogliere la differenza rispetto ad una scatola del supermercato se non concentrandoci non sul suo aspetto fisico, ma sul pensiero, sull'idea che trasforma il mezzo in senso e l'oggetto in opera artistica mediante la traslitterazione dal reale.
"Per usare il mio esempio favorito, nulla indica una differenza esteriore fra la Brillo Box di Andy Warhol e le scatole di Brillo al supermercato. E l’arte concettuale ha dimostrato che non serve nemmeno un oggetto visivo tangibile affinché qualcosa sia un’opera d’arte. Ciò significa che non puoi spiegare il significato dell’arte per esempi. Ciò significa che, in quanto si tratta di apparenze, qualunque cosa può essere un’opera d’arte, e significa che se si cerca di scoprire che cosa sia l’arte, ci si deve spostare dall’esperienza dei sensi al pensiero. Si deve, in breve, voltarsi verso la filosofia." (Arthur Danto, "L'abuso della bellezza" 1997)
Con ciò, l'arte scivola nella filosofia, ma ciò decreta la morte dell'arte?
La s-definizione dell'arte paventata da Harold Rosemberg, la sparizione dell'arte lamentata da Baudrillard, l’arte allo stato gassoso di Yves Michaud, trasformata in 'etere artistico' sono il limite estremo della de-sostanzializzazione dell'arte che, con Duchamp, diventa procedurale e concettuale, acquisendo in ciò autoconsapevolezza e senso.
Non è poco.
Commento 8556 di giannino cusano del 30/05/2010
«prima di riflettere, gli specchi farebbero bene ... a riflettere»
Jean Cocteau
... e ci stiamo pure a riflettere ?
Commento 8557 di giannino cusano del 01/06/2010
Interessante e stimolante, come sempre, il commento della Torselli. Credo di dovere, a questo punto, fare attenzione alle parole, che sono trappole terribili soprattutto quando si parla "di" arte.
Non credo che l'arte sia più reale che irreale o viceversa: il problema di distinguere realtà da irrealtà mi pare compito della logica, non dell'arte o dell'estetica. Poi, certo, tutte le attività umane interagiscono e sono tra loro complementari, dato che noi esseri umani non siamo fatti a cassettini e compartimenti separati ognuno dei quali contiene un mondo a sé..
Quando si dice "arte senza senso" occorrerebbe, forse, anzitutto chiarirsi reciprocamente cosa intendiamo per senso e se, per es., identifichiamo o meno "significato" con "senso" ecc. E già questo porterebbe assai lontano.
"Senza senso" personalmente lo intendo, semplificando molto, in modo anti-idealistico (o non idealistico): l'arte, dal mio punto di vista o di osservazione, NON è manifestazione sensibile dell'Idea, come voleva l'hegelismo sulla scia del platonismo. Solo concependo l'arte come "manifestazione sensibile dell'Idea" si può arrivare alla conclusione del tutto paradossale della "morte dell'arte". Sulla quale, peraltro, va doverosamente detto che in Hegel non si torova né la sottoscrisse mai di suo pugno. Quello che sappiamo della "morte dell'arte", invece, lo sappiamo da appunti presi alle lezioni del grande filosofo da parte di un suo allievo, raccolti poi in una "Estetica" che Hegel non sottoscrisse. Cosa abbia realmente detto nelle sue lezioni e come l'abbia interpretato l'allievo, non lo sappiamo. Il dubbio resta, anche perché questa faccenda della "morte dell'arte", per quanto paradossale, è assolutamente compatibile e coerente col pensiero del filosofo tedesco. E tanto di cappello se, ammesso che la teroria sia sua, non ha avuto paura di andare fino in fondo e di tirare tutte le conseguenze del suo pensiero con tanto coraggio.
.
Certo, se l'arte è definita come "manifestazione sensibile dell'Idea", conterà più l'idea dell'opera d'arte. E con questa premessa (a mio parere erronea), essendo la filosofia fatta di concetti privi di materia, colore, argilla ecc. , è chiaro che può innalzarsi a vette superiori a quelle dell'arte. Ma se concepiamo arte e filosofia come due momenti diversi e non disposti gerarchicamente una più in basso, l'altra più in alto nella scala che porta allì'Idea Assoluta, la prospettiva cambia totalmente. E muore anche il mito (o il timore) della morte dell'arte.
Il punto a me pare sia che l'artista, a differenza del logico e del filosofo, non è uno che crede o non crede in un'immagine: semplicemente, la produce. E in quel modo assai particolare per cui "contenuto" e "forma" sono talmente fusi e inscindibili nell'opera d'arte, che costituiscono un unico atto. Se fosse altrimenti, la poesia non sarebbe verità (sono convintissimo proprio che la poesia sia opera di verità) ma in veste allegorica, o metaforica piuttosto che metonimica, di verità: cioé, per questa via, tutto meno che poesia, nella quale invece la parola, la forma, il colore, lo spazio è inseparabile dal contenuto.
La parola è la poesia stessa. Tanto che quando ci si affanna a spiegarla, la sua magia è già sparita e per ricostruirla si può solo tornare a rileggerla (ripeterla) nell'unica sua forma posibile: .quella in cui è stata espressa. Quando facciamo opera critica noi non spieghiamo mai la poesia. Facciamo, credo, un'altra operazione: gettiamo luce sulle materie grezze elaborate dal poeta e da lui trasformate in questa "forma-contenuto", in questo "significante-significato". Qualsiasi commento e discorso sarà sempre estraneo alla poesia e quell'estraneità ci distoglie dal suo incanto estetico. E a volte ci infastidisce, perché quell'incanto è senza parole: ha già le sue parole, che sono quelle della poesia che ci ha guidato.
Qual è il "senso" di quella poesia? Non è permutabile con discorsi: è tutto intero e già dato lì, in quei versi. così come sono dati in quella particolare "visione".
Poi, certo, i discorsi "su" questa o quell'opera d'arte sono utilissimi: ma servono, appunto, a un fine pratico, non a fare luce sulla sua poeticità, sulla sua poesia e sulla sua arte, ma sui suoi motivi conduttori: le materie (passioni ecc.) di cui l'artista si è servito.
In una poesia ci si immerge e ci si lascia attraversare o non si entra in quel mondo poetico. E l'incanto è sempre quello di una sospensione della parola: cioé del "senso". Che è, del pari, "non-senso": senso e nonsenso sono inscindibili come reale e irreale. E' questo che il linguaggio corrente non vuole riconoscere: nella sua ansia di dare un senso a tutto, dimentica di essere al contempo nonsenso. Come la ragione cartesiana, nell'illusione di definire e tenere la follia fuori dal proprio recinto, dimentica che in questo modo la genera perché la Ragione è fondata esattamente sulla "follia" (=irrazionalità, non classificabilità ecc.) dalla quale è inseparabile.
"Dio è nel particolare" diceva Aby Warburg;:intendendo fuori dalle astrazioni "universalistiche": in "questo" quadro, in "questi" versi che non sono permutabili con altri colori o parole. E mentre tutti diamo per scontato di sapere cos'è la realtà, imputando all'arte l'irrealtà, troppo spesso dimentichiamo che è proprio la realtà a non esistere in quanto, pur nominandola e chiamandola in causa in continuazione, non sappiamo minimamente cosa sia. A meno di "inventarla", cioé di "crearla": di ammettere che questo quadro e questi versi sono e costituiscono realtà Senza di essi, la presupposta realtà del mondo sarebbe solo un vuoto fantasma. L'arte non ha, come si possiede un oggetto o un che di estraneo, "senso" perché l'arte è essa stessa (il) senso
Cordialmente,
G.C.
. .
Commento 8558 di giannino cusano del 01/06/2010
PS: x Torselli.
Nel commento precedente (8557) ho scritto "muore il mito della morte dell'arte" sottintendendo che muore, soprattutto, quello dell'Idea Assoluta, che ci ha regalato i lager. Mi pareva scontato, ma mi accorgo che va esplicitato :)))
Commento 8559 di vilma torselli del 02/06/2010
Mi trovo d'accordo con l'analisi di Cusano, se ho capito correttamente tutti i passaggi.
In particolare mi pare assolutamente condivisibile la chiusa finale: "L'arte non ha, come si possiede un oggetto o un che di estraneo, "senso" perché l'arte è essa stessa (il) senso".
Ciò che intendo per senso dell'arte è il suo significato peculiare, diverso da opera ad opera e da artista ad artista, il quale artista produce un intreccio indissolubile tra contenuto e forma che si materializza in un quadro, una statua, una installazione ecc., contenuto e forma che sono propri di quell'opera e irripetibili da altri e anche dal medesimo artefice (non permutabili con altri colori o parole), il che mi riporta alla discussione con Sandro sul linguaggio, che manterrebbe invece nel tempo la sua autonomia anche in presenza di un messaggio obsoleto.
In realtà, il linguaggio, specie per l'arte moderna, è esso stesso, come contenuto e forma, un elemento irrinunciabile del messaggio, con il quale nasce e muore, senza pretese 'universalistiche'.
Che l'artista sia semplice 'produttore' dell'opera mi sembra riduttivo, fare arte implica progettività e intenzionalità, oltre a capacità tecniche oggettive e razionali come la scelta dei materiali, l'uso del pennello, dei colori, dello scalpello ecc.
Van Gogh, indubbiamente artista e indubbiamente malato mentale, ha tanta consapevolezza di ciò che fa che descrive minutamente, nell'epistolario con il fratello Teo, come rappresenterà la sua camera di Arles e persino a quale mercante porterà il quadro, su quale parete della galleria lo posizionarà, sullo sfondo di quale tappezzeria. Con lucida autoanalisi, così spiega al fratello il suo "Caffè di notte": "Ho cercato di esprimere con il rosso e il verde le terribili passioni umane. La sala è rosso sangue e giallo opaco, un biliardo verde in mezzo, quattro lampade giallo limone a irradiazione arancione e verde. C'è dappertutto una lotta e un'antitesi dei più diversi verdi e rossi, nei piccoli personaggi di furfanti dormienti, nella sala triste e vuota, e del violetto contro il blu".
Parallelamente, la fruizione dell'opera d'arte non dipende solo da una sorta di rapimento empatico che per vie irrazionali ce ne fa capire il senso, ma anche dalla possibilità di collocarla entro una sorta di spazio culturale percepito come condivisibile da fruitori opportunamente informati sulle intenzionalità dell'artista che ha eseguito un'opera. E' quanto sostiene Joseph Margolis, filosofo pragmatista poco noto in Italia, interessato alla sociologia e all'estetica, (Art and Philosophy, 1980) che con posizione anti-idealistica (o non idealistica) collega a questo aspetto la comprensione del senso di un'opera d'arte.
Ed infatti se sappiamo che Daniel Spoerri, instancabile nomade intellettuale (poeta, ballerino, coreografo, regista, attore, costumista, organizzatore museale, regista, insegnante all'Accademia di belle Arti di Colonia) è anche appassionato di culinaria (si definisce ‘uomo di teatro e di cucina’), autore di un libro di ricette "Diario Gastronomico"(Grecia, 1966), nonché proprietario fondatore del ‘Ristorante Spoerri’, (Dusseldorf nel '68), probabilmente riusciamo a meglio capire da dove scaturiscano i suoi tableaux-pieges, se sappiamo che Cy Twombly, americano conquistato dal classicismo, già da bambino piccolissimo ripeteva sempre: “Da grande andrò a Roma!” riusciamo a capire il "simbolismo romantico” delle sue potenti sinfonie barocche, né ci stupiremo davanti alla tela tutta bianca di Robert Rauschenberg se la vedremo come contrappunto ai 4’33″ di silenzio di John Cage, amico ed ispiratore.
Edoardo Boncinelli, biologo genetico e molecolare, sostiene il "carattere fortemente sociale della creatività. Per essa occorre anche il riscontro della valutazione collettiva. Essere creativi implica produrre qualcosa di innovativo che appaia utile o comunque rispondente a un bisogno condiviso e che ottenga pubblico consenso per entrambi i termini. Il prodotto creativo, cioè, deve poter essere giudicato dalla comunità in cui l'atto creativo è espresso come innovativo realmente utile. Il successo creativo, pertanto, richiede qualità sociali tali da permettere l'affermazione propria. e dei propri prodotti, e tali capacità sociali possono facilitare un giudizio positivo sull'insieme delle caratteristiche possedute dal soggetto creativo…… “(‘Come nascono le idee’, 2008)
Dal canto suo Gregory Bateson, antropologo, psichiatra, studioso di logica e cibernetica, dice: “Ritengo che sia d’importanza fondamentale possedere un sistema concettuale che ci costringa a vedere il ‘messaggio’ (p. es. l’oggetto artistico) sia come in sé internamente strutturato, sia come parte esso stesso di un più vasto universo strutturato: la cultura o qualche sua parte…… " (Verso un'ecologia della mente 1977)
L’approccio quasi antropologico all'arte che si desume dalle ipotesi sia di Boncinelli che di Bateson immerge l’arte nella contemporaneità, la lega al suo tempo e al suo autore e la libera da ogni necessità di trascendenza verso il passato o il futuro: parafrasando Cusano, l’unico senso possibile dell’arte moderna è quello in cui è stata espressa, la sua avventura, con buona pace di Baudrillard, non è né finita né iniziata, è adesso.
Commento 8560 di giannino cusano del 03/06/2010
Vilma Torselli ha scritto:
«In particolare mi pare assolutamente condivisibile la chiusa finale: "L'arte non ha, come si possiede un oggetto o un che di estraneo, "senso" perché l'arte è essa stessa (il) senso".»
sicuramente ha compreso benissimo, per quel poco che sono riuscito a spiegarmi. La domanda fondamentale, nel mio modo di vedere odierno, che non ho esplicitato abbastanza e che vado mettendo a fuoco, è : la logica "concettuale" precede quella "poetica" o non è, piuttosto, il contrario? E' il "Cogito" (peraltro vuoto di contenuto, così come lo aveva formulato Cartesio) o non è per caso l'intuizione poetica che fonda la realtà? Se ammettiamo l'ipotesi cartesiana, dobbiamo concludere che il senso fonda anche il poetico. Dunque, il linguaggio nel suo uno corrente, informa anche la poesia e l'arte. E se, invece, fosse il contrario? Se la conoscenza pre-logica del mondo fosse il presupposto per quella logica, non avrebbe gran senso interrogarsi sul senso nell'arte. Se è così, non dovremmo considerare i capolavori come "intensificazione" di un linguaggio corrente e già dato, quanto il contrario. La "designazione" (di un contenuto, di un concetto, di un "senso") sarebbe allora successiva: abbiamo di fronte, cioè, una "visione" poetica e solo allora mi pare che ci poniamo il problema:- e ora che ne faccio?-
I creatori di linguaggio sono i poeti, per me, perché non si pongono il problema "utilitaristico" di "significare" qualcosa: e quindi (aveva ragione Zevi) il linguaggio va desunto dai capolavori: il contrario non porta da nessuna parte. Non portano da nessuna parte le elaborazioni, per quanto concettualmente sofisticate, della linguistica e non porta, perciò, da nessuna parte l'idea di estrarre il linguaggio dalle opere "paradigmatiche". Cioè da prodotti correnti e mediocri.
Se riapriamo l'Ulisse di Joyce, per esempio, ci accorgiamo subito di quant'è banale, inconsistente, inesistente Molly Bloom-Penelope: tanto più che (particolare fondamentale, a mio parere, che istituisce un "vuoto" enorme) non ha nulla della dimensione eroica del personaggio omerico. Non esiste, come tutti i personaggi dell'Ulisse joyciano. Sono dei non-Io che agiscono, interagiscono, pensano, parlano. Eppure Molly è una creatura intensamente (e altrimenti) poetica. E non si esce dalla rete delle continue intersezioni di significanti di Joyce: non si è rimandati ad "altro", come a un significato o un "senso". .Altro che la "polisemia" dell'Opera Aperta su cui tanto insiste Eco: non mi pare affatto che ci sia proprio la "-semìa", nè mono- né poli-. O meglio: ci sono gli atomi, i "semi" di un nuovo linguaggio ma non il suo "uso" linguistico come lo intenderebbero Saussure o Jakobson. La polisemìa di Eco, in questa prospettiva, appartiene già al momento logico-concettuale, al successivo, al linguaggio divenuto lingua, non alla creazione poetica di Joyce: la cui immediatezza, che non pare certo il suo "senso", solo Joyce ci può dare.
Poi, certo, se ne può riprendere l'ingegneria, come magistralmente fa Nadine Gordimer già dalle prime pagine di "Jump" (Il salto), quando una sera in Sud Africa, durante scontri sanguinosi, sale in taxi e per darci l'idea della gran confusione, stanchezza, follia che sento intorno e dentro di sé, spezzetta e intreccia parole con la stessa tecnica linguistica: lo scopo è letterario. E' significare qualcosa; il senso è la sua spossatezza e la spossatezza di un popolo piegato e umiliato dall'apartheid. Ecco, dunque, come l'invenzione poetica di Joyce diviene funzionale, nella Gordimer, a un "senso" (anzi: a un poli-senso aperto, alla Umberto Eco) cui rinvia, ma non lo "costituisce" poeticamente. Possiamo "dire" il senso letterario della scrittura della grande scrittrice come un quid che riunisce 2 serie separate, quella di significati e quella di significanti (la parola monca, i pensieri monchi che s'intrecciano confusamente e si smembrano assistendo allo smembramento del il popolo sudafricano, alla sua dominazione e persino a quello dei singoli corpi uccisi e smembrati ,per le strade ecc.): un rinvio è possibile solo previa scissione delle 2 serie. E posso tentare di riscrivere a quel modo avendo in mente altri "sensi", altre situazioni da additare ed evocare.
Non così, a me pare, in Joyce: il vuoto joyciano nella Gordimer è il pieno dei suoi pensieri frammentati, significativi del suo animo “fatto a pezzi” dalle vicende tragiche cui assiste. Che si potevano “significare” in mille altri modi.
Questo non vuol dire, dal mio punto di vista, che il poeta sia avulso dal mondo, ma solo che non lo descrive, non lo "significa", non lo racconta e non rimanda ad esso ma fa un'altra operazione, più complessa e sintetica, differente rispetto a quella del "letterato": che ne ricostituisce e ne rifonda, ne rivoluziona i segni rendendoli disponibili per quanti poi intendono "dire", "significare", "designare" qualcosa. .
Oppure, se riguardiamo un quadro impressionista, dipinto, come facevano tutti gli impressionisti, prima ancora che le categorie mentali di "classico" e "romantico" invadessero la mente del pittore e ne condizionassero la mano, ci accorgiamo della stessa cosa: l'"impressione" è momento pre-logico, contro le opposte categorie codificate, concettuali e ormai fin troppo "significative" della classicità e del romanticismo. E proprio per questo, dopo l'Impressionismo solo un pervertito può continuare a vedere le foglie di alberi e cespugli ancora banalmente "verdi". Si è instaurato una altro mondo (un mondo-altro) ed è tornato a cambiare/ri-fare il mondo.
Allora, il dubbio viene: la "comprensione" di un'opera poetica non è già una sua riduzione a "senso" logico ? Cioè a un momento posteriore a quello della creazione poetica? I poeti sono rari e noi abbiamo bisogno di parlare, non solo di "poetare": ci mancherebbe. Di usare e produrre "senso". Se, però, non riconosciamo il poetico come fonte del linguaggio, le nostre parole si essiccano e muoiono anche nel loro semplice utilizzo "pratico".
La questione di "contenuto e forma che sono propri di quell'opera e irripetibili da altri e anche dal medesimo artefice (non permutabili con altri colori o parole), il che mi riporta alla discussione con Sandro sul linguaggio, che manterrebbe invece nel tempo la sua autonomia anche in presenza di un messaggio obsoleto" credo andrebbe chiarita (con) Sandro, anche perché, stringata così, non ci capisco molto: come accade con tutte le sintesi, peraltro.
Personalmente la non permutabilità la riferisco all'opera poetica, non a quella "letteraria": la poesia "crea" linguaggio, la letteratura e la lingua di tutti i giorni lo "usa": la differenza è sostanziale. Ma tendo sempre più a pensare che sia la seconda a trarre alimento dalla prima: mai il contrario.
Infine: non ho avuto l'impressione che Baudrillard paventi la sparizione (o la morte) dell'arte: ho sempre avuto l'impressione, invece, che lamenti la morte e l'essiccazione del linguaggio corrente proprio per una continua, eccessiva ricerca di senso. Insomma, che dica che abbiamo un gran bisogno di poesia autentica e genuina, se le parole della vita quotidiana vogliono ancora avere un "senso". Ma poi, ognuno tende a soffermarsi su ciò che cerca, in quello che legge e magari a sorvolare sul resto. Riconsidererò la questione.
Cordialmente,
G.C. .
Commento 8561 di giannino cusano del 03/06/2010
to Torselli:
PS: per passare dalla poesia al linguaggio “d'uso”, insomma, ho l'impressione che dobbiamo operare (e di fatto operiamo sempre) un clivaggio, un cesoiamento, un taglio nel corpo vivo del poetico, che invece include reale e irreale e tutti i “doppi” che il linguaggio rompe, scinde, separa e distingue. Incorrendo in mille paradossi logici affini a quelli dello "split" psicoanalitico originario (Es-Io-SuperIo).
Commento 8562 di vilma torselli del 03/06/2010
Cusano scrive: "..... la logica "concettuale" precede quella "poetica" o non è, piuttosto, il contrario? E' il "Cogito" (peraltro vuoto di contenuto, così come lo aveva formulato Cartesio) o non è per caso l'intuizione poetica che fonda la realtà? ....."
Bella domanda!
“…… io credo che buona parte delle prime teorie freudiane fossero capovolte. A quel tempo, molti pensatori consideravano normale e ovvia la ragione conscia, mentre l’inconscio era considerato misterioso, bisognoso di prova e spiegazione. La spiegazione era data dalla rimozione, e l’inconscio veniva riempito da pensieri che avrebbero potuto essere consci, ma che la rimozione e il meccanismo onirico aveva distorto. Oggi riteniamo misteriosa la coscienza, mentre i metodi di computazione impiegati dall’inconscio, ad esempio il processo primario, li riteniamo continuamente attivi, necessari e onnicomprensivi. Queste considerazioni sono particolarmente pertinenti nell’ambito di qualunque tentativo per ricavare una teoria dell’arte e della poesia. La poesia non è un tipo distorto e ornato di prosa; piuttosto la prosa è poesia spogliata e inchiodata al letto di Procuste della logica…..”:
così risponde Bateson, che sintetizza questa sua rivoluzione copernicana in una frase di Pascal: "Le coeur a ses raisons que la raison ne connait pas”.
E ancora: ".... una relazione astratta, ad esempio tra verità e giustizia, viene prima concepita in termini razionali; poi viene tradotta in metafora e agghindata per farla apparire il prodotto di un processo primario.”, invertendo il normale processo, creativo che in realtà, secondo lui, avviene al contrario.
Quindi non è l'arte ad interpretare il reale trasfigurando e veicolando in messaggi irrazionali concetti logici, ma è invece la ragione che si adopera per relazionare con significati consci i messaggi che l'arte ci invia dall'inconscio.
“La natura imita ciò che l'opera d'arte le propone. Avete notato come, da qualche tempo, la natura si è messa a somigliare ai paesaggi di Corot? ” (non è Bateson, è quel burlone di Oscar Wilde)
Commento 8563 di giannino cusano del 04/06/2010
E già: Bateson. Dai suoi seminari newyorkesi degli anni '50 del '900, ai quali parteciparono la moglie Margaret Mead e scienziati come Norbert Wiener, emerse una visione completamente nuova della psiche umana, destinata a rivoluzionare e rovesciare quella psicanalitica. La psiche è partecipe delle vicende sociali e, che lo voglia o no, vi è totalmente coinvolta. Senza il "double bind" di Bateson non avremmo avuto Ronald Laing, Gilles Deleuze e Felix Guattari col loro anti-Edipo, né Jacques Derrida.
"Ti ordino di disobbedirmi" è la forma tipica del "double bind". A quel punto il povero "Io" che deve fare, se non dividersi schizofrenicamente? Già Jung aveva intuito che la schizofrenia si può affrontare solo da un punto di vista ambientale e non isolando il soggetto dal suo contesto. E se tutta la cultura occidentale fosse affetta da questo dato di fondo del double bind? E' la domanda dell'anti-psichiatria e dei post-strutturalisti francesi.
Laing esemplifica così: una madre, per il compleanno del figlio, lo invita a cena e gli regala 2 cravatte, una rossa e una verde. Lo invita ad andare di sopra a cambiarsi e a indossare una delle cravatte che gli ha regalato. Il figlio si cambia e torna di sotto per cenare indossando la cravatta rossa. La madre gli dice :- Ecco: lo sapevo, io, che la cravatta verde non ti sarebbe piaciuta!- A quel punto il figlio cosa deve fare? Questo, dice Laing, è un tipico esempio di double bind, di comportamento schizogeno: che genera dissociazione.
E' proprio del nostro linguaggio e di tutta la nostra cultura occidentale, di essere così: linguaggio ipotecato dalla schizofrenia del potere, dall'illusione di sfuggire al paradosso (che essa stessa genera, in effetti) attraverso l'idealistica univocità del "senso", che sistematicamente mette e tiene in ombra i "doppi" illudendosi di controllarli e domarli. Ed è proprio del "logocentrismo" (Derrida). I "nodi" di Laing sono poesie scritte con la logica non concettuale degli schizofrenici: con i quali, peraltro, Laing riusciva perfettamente a comunicare. Tutto ciò che sfugge alla "classificabilità" del senso e della ragione va eliminato: non esiste.
E se l'inconscio, invece, non fosse nient'altro che un "effetto di superficie" (G.Deleuze)?
G.C.
. .
Commento 8564 di renzo marrucci del 04/06/2010
La poesia è poesia... ci sarà logica nella poesia ? C'è logica nell'arte?
Una e fondamentale è quella di aiutare a ristabilire dentro l'animo dell'uo
mo il suo filo interno con la società e il mondo... La logica è scaturente oppure è lavorata affinata costituita e pensata ed è un aiuto puro quando è un processo vero e sentito espresso per esternare come a spingere fuori il senso di una coscienza in lacrime o il sorriso, la gioia e la felicità oppure il dolore... è una instintiva volontà di compensare la vita, la città, di equilibrarla... di farcela sentire vicina e amica nonostante la cattiveria dell'uomo ... Meraviglioso risoluto tentativo di riconquistare la forza e la capacità di amare...
C'è logica nell'architettura oggi ?
Commento 8565 di Sandro Lazier del 04/06/2010
Noto con ammirazione che il tema dell’arte è sorprendente in sé. Apre riflessioni a tutto campo con la conseguenza che la sete di novità e conoscenza, invece di placarsi, tende inesorabilmente ad aumentare. E qualche lettore potrebbe accusarne il malessere.
Per cui cerco di chiarire solo alcuni punti che ritengo principali a sostegno di quanto ho scritto nell’articolo.
Credo evidente il fatto che l’arte produca da sé il proprio senso. La musica ne è l’esempio primo.
Credo ugualmente evidente che la produzione di qualsiasi senso abbia necessità di una struttura linguistica, segnica e formale adeguata. Se, infatti, per arte intendiamo il luogo cosciente dove “tutto ciò che chiamiamo arte” trova espressione (ivi compresa quella la cui provenienza è inconscia) tale luogo non può stare che all’interno di una lingua.
Lingua che, però, come ci ha detto R. Barthes: ” … come performance di ogni linguaggio, non è né reazionaria né progressista: è semplicemente fascista, perché il fascismo non è impedire di dire, è obbligare a dire.”
La condizione dell’arte si fa dunque “tragica”: (libera?) espressione che non ha condizione altra del proprio compimento che la sottomissione al proprio strumento espressivo.
All’arte, secondo Barthes, non rimane che il tradimento “… L’unico modo di trovare la libertà, non potendo uscire dai confini del linguaggio poiché “il linguaggio umano è senza lato esterno” sta nel “barare con la lingua, truffare la lingua”.(Romeo Galassi – La “lezione” di R. Barthes).
L’arte è quindi regola che viene infranta, lingua che tradisce se stessa per stare in vita e non soggiacere alla tirannia mortale della consuetudine e dell’ordinario.
Ora, tutto funziona se il tradimento avviene in seno alla lingua, alla sua struttura e al suo senso implicito. Non funziona, perché in tutto ininfluente, se la “truffa” avviene in relazione al senso (senso di cui parla Giannino : "manifestazione sensibile dell'Idea") che dovrebbe investire il movente, questo sì contingente e accidentale, che ha promosso l’opera artistica e dovrebbe consegnarla alla mondo.
Vi è, a mio parere, confusione di linguaggi in cui lingue diverse occupano ambiti impropri.
Ho letto recentemente una recensione critica di Renato Barilli relativa ad un’opera non raffigurata nel testo. Una recensione stupenda, molto meglio dell’opera raccontata. Tanto che il vero artista e il vero capolavoro sono la recensione e non l’opera. Una recensione che, privata del titolo dell’opera di riferimento, potrebbe adattarsi e rinvigorire altre decine di opere anche particolarmente dissimili e banali.
La verità è che le parole di un critico non parlano d’arte in senso stretto, ma parlano di parole sull’arte, privando l’opera di qualsiasi pertinenza oggettuale. La critica vera, come l’artista vero, devono entrare nella struttura della lingua che stanno adottando, all’interno della scrittura che altrimenti ci tiene schiavi, promettendo libertà illusorie procurate da significati improbabili e innocue provocazioni.
In fondo non si tradisce con le parole, ma con i fatti. Le intenzioni e i significati, le idee e i concetti, in arte sono solo parole che non muovono la lingua di un solo millimetro.
Non conta cosa l'arte esprime, ma cosa succede nel momento dell'espressione.
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