Italian(s) Architects: che succede fuori d'Italia?
di Sandro Lazier
- 16/6/2010

Ho avuto recentemente modo di sentire Lorenzo Marasso, 36 anni, architetto
dal 2004, che subito dopo la laurea ha deciso di mettere il naso fuori dai confini
nazionali per completare la sua formazione e preparazione professionale. Ne
è scaturito un dialogo che ho trovato interessante per capire cosa succede
all’estero e, soprattutto, per informare i tanti giovani architetti italiani
che vorrebbero fare la stessa esperienza di Lorenzo. Sandro Lazier - Quali studi hai frequentato e in quali anni? S.L. - Malgrado la recessione economica, che solitamente suggerisce al
sentimento delle persone maggiore cautela se non addirittura sfiducia, che clima
si respira attualmente negli Stati Uniti? Credi che questa crisi pregiudicherà
anche l’espressività e la creatività di architetture che
negli ultimi dieci anni hanno goduto di un’approvazione pressoché
universale? S.L. - Ti aspettiamo in Italia. A quando?
Di seguito ho riportato le parti di dialogo che ho ritenuto più interessanti.
Lorenzo Marasso - Innanzitutto volevo ringraziare la redazione di Antithesi
ed in particolare Sandro Lazier per avermi dato la possibilità di raccontare
le mie esperienze di architetto negli Stati Uniti. Sono molto legato ad Antithesi
che leggo frequentemente e supporto come una della poche, libere e indipendenti
voci nel paesaggio architettonico Italiano.
Mi sono laureato presso il Politecnico di Torino nel Dicembre del 2004 e, poche
settimane dopo la laurea, ero già a lavorare nello studio di Peter Eisenman
a New York. Ho fatto poca esperienza in Italia, limitata ad un paio di studi
durante il periodo universitario, ma la maggior parte della mia esperienza è
americana. Da una parte il mio carattere che ha sempre cercato di evadere i
confini regionali e, dall’altro, un interesse per Peter Eisenman e per
la sua architettura fin dai primi anni di università hanno fatto sì
che, appena ne ho avuto l’occasione, sono andato a lavorare per lui.
Inizialmente ero partito per stare a New York solamente tre mesi, poi la cosa
si è trasformata in un impiego a tutti gli effetti e quindi mi sono fermato
per più tempo. Ho lavorato per Eisenman per circa un anno e mezzo, dall’inizio
del 2005 fino a metà del 2006, a vari progetti, in maggioranza a concorsi
ma anche al progetto della Ciudad de la Cultura de Galicia, che è
attualmente in costruzione.
Dopo Eisenman Architects sono passato da Asymptote Architecture, lo studio di
Hani Rashid e Lise Anne Couture, dove ho lavorato al progetto della boutique
di Carlos Miele a Parigi. L’anno dopo, durante l’estate, sono andato
a Rotterdam da OMA/Rem Koolhaas e poi nel Settembre del 2008 mi sono trasferito
a Los Angeles, dove ho lavorato da Johnston Marklee, Greg Lynn FORM e ora da
Amphibian Arc. Nel frattempo ho anche conseguito un Master of Architecture
all’università di Yale dove mi sono laureato nel Maggio del 2008.
S.L. -Che mansioni hai avuto nei tuoi vari itinerari lavorativi e che impressioni
hai tratto dai vari studi?
L.M. - Il mio obiettivo era quello di diventare un “designer”, nel
senso di come lo si interpreta qui negli Stati Uniti, cioè un progettista
che è impiegato più nelle fasi iniziali di progettazione e meno
in quelle di esecuzione, ed è più interessato agli aspetti formali,
espressivi e visivi dell’architettura. Quello che cercavo dopo la laurea
italiana era un clima in cui creatività ed espressività personali
venissero coltivate piuttosto che viste come eccentricità. Negli Stati
Uniti, l’educazione non segue solamente il modello politecnico ma molte
scuole lasciano ampio spazio alla creatività dell’individuo come
ruolo generatore del progetto. Se da una parte questo si traduce in una spigliata
ricerca formale, dall’altra ciò di cui gli studenti americani risentono
è l’incapacità di tradurre tutto ciò in forma costruita,
un’esperienza che fanno solo dopo, attraverso la pratica. Nel mio caso
posso dire di sentirmi abbastanza “ben coperto”, data la mia preparazione
“politecnica” assieme a quella “americana”, da cui risulta
un buon compromesso tra realtà e finzione.
Mi interessano sopratutto il digitale e le procedure definite “non-standard”,
quindi, da una parte, non trovando tutto ciò in Italia, la logica è
stata quella di cercare all’estero. Molte delle esperienze che ho fatto,
in termini di lavoro e lo stesso Master che ho frequentato a Yale, non le ho
né cercate né pianificate dall’inizio, ma sono occasioni
che sono affiorate durante gli anni. Mai avrei immaginato che nel 2010 avrei
abitato Los Angeles, se mi aveste fatto questa domanda quando, nel 2000, ho
iniziato a studiare architettura in Italia.
Per rispondere completamente alla tua domanda, ti posso dire che, come mansione,
ho sempre ricoperto il ruolo di “designer”, sia come parte
di un team che come “project architect”, con responsabilità
variabile o indiretta o diretta sul progetto e verso i partners dello
studio. La divisione del lavoro, negli studi in cui ho lavorato, è sempre
stata molto fluida e aperta. Negli Stati Uniti, ed in particolare nelle grosse
corporazioni, tipo SOM o KPF, le mansioni individuali sono abbastanza nette
e chiare ed è necessario che lo siano, quando lo staff supera il centinaio
di persone, ed è necessaria inoltre la massima coordinazione per evitare il caos.
In un certo senso questi studi lavorano secondo una schema industriale, massimizzando
i tempi di progetto che si traducono in costi e quindi in guadagni o perdite
per lo studio stesso. I progetti che ne risultano sono ovviamente meno interessanti
architettonicamente ma rappresentano esattamente ciò che il cliente ha
richiesto, nei tempi stabiliti e soprattutto nei limiti del budget.
Quando le dimensioni dello studio sono invece più ridotte, c’è
meno divisione e più integrazione dei ruoli e quindi più visione
globale per tutti quanti. Io ho sempre cercato di rimanere in questa seconda
categoria, che, secondo me, è più stimolante e meno restrittiva
della prima. Lo studio in cui lavoro attualmente, in cui siamo sei in totale,
è molto orientato verso la sperimentazione formale ma comunque cerca
di non tralasciare l’aspetto esecutivo, che è importante per avere
il controllo della riuscita del progetto. Lo studio Eisenman, al contrario,
non si spingeva quasi mai oltre lo schematico e molti altri studi qui negli
Stati Uniti non hanno né le risorse né la preparazione tecnica
per affrontare progetti complessi, quindi si appoggiano quasi sempre ad altri
per realizzare le proprie opere.
Ma questo non è del tutto vero e unidirezionale, anche studi di grosse
dimensioni si appoggiano ad altri studi esecutivi. E’ la natura dei progetti
e le complesse richieste del cliente e la necessaria risposta che uno studio
deve formulare a richiedere sempre la concertazione di consulenti e di figure
che si occupano di settori specifici del progetto architettonico.
Forse lo studio di Frank Gehry, qui a Los Angeles, è l’unico che
ha saputo mantenere intatto il progetto creativo ed ha trovato il modo di adattare
o addirittura inventare nuove procedure esecutive in linea con la propria volontà
progettuale e il proprio stile e non il contrario.
S.L. -Quando ci siamo sentiti mi hai parlato dell’attuale stato di
crisi che ha colpito l’economia mondiale e che ha avuto serie conseguenze
sugli studi di progettazione. Puoi illustrarci la situazione attuale degli studi
californiani?
L.M. - Lo stato della California è pesantemente indebitato, ma rimane
pur sempre la prima economia degli Stati Uniti e la quinta o la sesta al mondo.
La situazione non è delle più radiose e i posti di lavoro continuano
ad essere ridotti. Il mondo delle costruzioni è stato forse il settore
più penalizzato, e questo forse per la mancanza di fondi pubblici destinati
ad opere pubbliche. Avevo letto qualche tempo fa sul New York Times
che la politica della Cina, in tempo di recessione, al contrario di quella degli
Stati Uniti, era stata quella di finanziare opere infrastrutturali con fondi
pubblici, dando quindi lavoro all’industria ed evitando così pesanti
licenziamenti. Negli Stati Uniti, dove invece è il privato ad investire
e lo stato ad applicare il laissez-faire nella maniera più liberale,
le leggi del mercato e soprattutto la paura generale degli investitori hanno
creato la situazione in cui siamo attualmente.
Per me, come per molti altri giovani laureati, è stato difficile trovare
lavoro e una volta trovato soprattutto mantenerlo, e credo che sarebbe stato
difficile trovarlo anche in Europa. Quando mi spostai a Los Angeles per lavorare
con Johnston Marklee l’idea era di stabilire con loro una collaborazione
duratura, cosa che non fu possibile perché un paio dei loro progetti
più importanti vennero bloccati dai clienti stessi.
Per fare un altro esempio, lo studio di Frank Gehry ha dovuto ridurre il proprio
staff di circa il 70%, dal 2008 ad oggi. Come lui, quelli più colpiti
sono comunque le grosse corporazioni o i grossi studi in generale. Quelli piccoli
forse hanno risentito di meno proprio per la natura dei progetti a cui lavorano.
La questione economica è sicuramente non soltanto un momento negativo
ma anche un momento di rivoluzione dal punto di vista della disciplina dell’architettura.
Mi domando dell’identità di molti studi che hanno subito pesanti
tagli di organico e del fatto che il loro successo e la qualità dei loro
edifici fossero determinati dal grado di preparazione dei propri impiegati,
il che si traduce in perdita del patrimonio intellettuale e di esperienza costruiti
negl’anni.
L.M. - Questo sicuramente sì, infatti penso che, se c’è
stato o è in atto un ritorno alle forme semplici e al minimalismo, questo
è dovuto al momento di recessione. E’ abbastanza chiaro che realizzare
forme curve e non-standard sia più costoso che non forme piane e semplici,
anche se il caso del Guggenheim di Bilbao e la stessa storia della Walt Disney
Concert Hall, entrambi di Gehry, dovrebbero averci insegnato il contrario. Anche
se forse nei prossimi anni si vedranno opere creativamente meno complesse, per
lo meno qui negli Stati Uniti, è anche vero che molti stili e caratteri
di avanguardia nascono più in ambienti accademici piuttosto che nella
pratica giornaliera, che rimane pur sempre salda sui propri canoni e regole.
Quindi non penso che l’architettura come disciplina ne soffra poi più
di tanto, forse si dovrà attendere qualche anno in più per vederla
realizzata concretamente.
Il clima in questo momento è di transizione, molti sono sfiduciati, come
dici tu, altri provano la via dell’insegnamento e altri ancora cambiano
addirittura lavoro, specie i neo-laureati. C’è da dire che comunque
gli americani spesse volte lavorano in campi estranei a quelli per cui hanno
studiato o si sono laureati. Siccome il sistema scolastico è diviso in
due lauree, una “undergraduate” e un’altra “graduate”,
dove possono passare diversi anni l’una dall’altra e dove non è
necessario che ci sia continuità di discipline e di studi, fa si che
molti ritornino sui propri passi o scoprano carriere e ambizioni diverse. Quindi
per vederla in positivo, oltre tutte le difficoltà, c’è
sempre qualcosa da guadagnare anche durante una recessione, se non altro in
ispirazione.
L.M. - Sinceramente non lo so. Per ora cerco di rimanere qui negli Stati Uniti
ancora per un po’. Il clima di Los Angeles, in tutti i sensi, anche quello
atmosferico, ma soprattutto quello architettonico, è molto vivo e prolifico.
Qui sono nate le avanguardie negli anni novanta, la “digital architecture”
e i “Natural Born CAD Designers”, come li descriveva un
libretto curato da Nino Saggio della Testo&Immagine che girava
tra gli studenti di architettura più indisciplinati. Sono legato a quelle
esperienze e penso ci sia ancora molto da imparare da loro.
(Sandro Lazier
- 16/6/2010)
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Commento 8568 di Antonino saggio del 17/06/2010
Questione rilevante. Segnalo questa lettera dalla Francia dell'architetto Giulietta Brunelli : http://antoninosaggio.blogspot.com/2010/04/dallarch-giulitetta-brunelli-un.html#links
Commento 9078 di Alba deangelis del 28/10/2010
Salve, non so se questo è il modo migliore, ma vorrei chiedere all'architetto in che modo si è attivato, dopo la laurea, per entrare negli studi dove ha lavorato. Anche io vorrei uscire dall'Italia, e gli studi americani sono un sogno nel cassetto. In che modo posso affrontare la mia preparazione (considerato che mi restano due anni da sfruttare al meglio), in che modo ci si propone, per noi studenti fare certi 'salti' è ancora come brancolare nel buio... Può contattarmi? può rispondermi? spero di ricevere i suoi preziosi consigli!
La ringrazio anticipatamente.
Alba Deangelis
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