In/Arch: una brutta strada
di Sandro Lazier
- 31/5/2011

Martedì 24 maggio, a Roma, si è tenuta l’Assemblea Generale
In/Arch. Nel paese che ha inventato il fascismo, che non è chiudere la bocca
ma è soprattutto obbligare a dire - come diceva R. Barthes - le libertà
individuali e i diritti che le presiedono sono visti come minacce, come potenziali
furberie di cui le persone potrebbero profittare per ottenere qualche indeterminato
beneficio privato. Libertà che in tutto il mondo civile si traducono
in prosperità collettiva, da noi, in assenza di una dimensione autenticamente
liberale e laica della politica, occorre scontare affidandone l’esito
ad un populismo bigotto e volgare da un lato o consociativo e giustizialista
dall’altro. “…sistemi che tendono alla creazione di nuovi
privilegi attraverso coalizioni o interessi organizzati, (con) un numero sempre
crescente di persone (che) si allontana dal sistema prevalente.”
Il riferimento al primato, in un qualsiasi giudizio, della procedura sulla
regola - che è argomento di massima riflessione da parte mia perché
questa, secondo me, è la prima rivelazione della tirannia di fatto -
mi ha particolarmente colpito per chiarezza e determinazione: “Sulla
barriera delle procedure si infrange qualsiasi altro ragionamento: sull’architettura,
sulla qualità, sull’urbanistica, sulla felicità dei popoli
e quant’altro. L’eccesso di burocrazia e di procedure sadicamente
complesse e poco chiare, distoglie l’attenzione da tutto il resto: non
si progetta più per produrre spazi di vita che consentano di dare risposte
alle esigenze dei cittadini per farli vivere meglio: si progetta per rispondere
solo alle esigenze delle procedure.” Trovo poi il riferimento al tempo puntuale e preciso. Il tempo, nella logica
classica, è variabile indipendente, ma solo li è rimasta tale.
Ricordo che l’articolo Elettrodinamica dei corpi in movimento,
in cui A. Einstein battezzava la relatività, è del 1905, ma nei
tribunali e nei parlamenti, presumibilmente orgogliosi di una formazione culturale
disdegnosa delle faccende di scienza, ancora non è arrivato: Non posso che applaudire. Analisi precisa, spietata, sicuramente provata da
fatti e situazioni di cui tutti i lettori avranno sicuramente fatto esperienza
o perlomeno sentito il racconto. Aggiunge Guzzini: “Voglio qui citare la sequenza logica che in tante
occasioni il nostro “saggio”, l’ingegner Odorisio ha espresso.
Un sequenza capace di offrire un quadro straordinariamente sintetico della nostra
realtà: l’architettura è stata uccisa dall’urbanistica.
L’urbanistica è stata uccisa da una presunta tutela del paesaggio.
Architettura, urbanistica e paesaggio sono stati uccisi da inutili procedure
ed autocompiacenti regole burocratiche. La domanda che sorge immediata è
questa: chi è l’assassino?“ Allegato: Relazione
programmatica del presidente nazionale Adolfo Guzzini (pdf)
Ho ricevuto la sintesi della relazione programmatica del presidente nazionale
Adolfo Guzzini, che allego in calce a questo articolo.
Queste che seguono sono le mie considerazioni e riflessioni.
Devo dire di aver apprezzato e condiviso quasi tutto il documento, in specie nelle
premesse e nell’analisi della situazione devastante e devastata di una nazione
caoticamente dispotica, ostaggio di una burocrazia in totale paranoia legislativa:
“…in Italia la Pubblica Amministrazione, a tutti i livelli, non
chiede qualità ai progetti di trasformazione del territorio. Non la chiede
perché non gli interessa. Chiede altro e si interessa d’altro. Chiede
carte, burocrazia, asseverazioni, giuramenti, metri cubi, rispetto di parametri
inutili, verifiche di vincoli astratti e contradditori. Si compiace nel costruire
corse ad ostacoli sempre più difficili e fantasiose, nel moltiplicare i
centri decisionali, i diritti di veto, l’attribuzione di competenze a soggetti
incompetenti. Amplifica all’inverosimile norme e contro-norme, livelli di
pianificazione, inutili regolamenti.“
(F.A. von Hayek - Legge, legislazione e libertà - il
Saggiatore 1986)
“La nostra cultura respinge gli individui, le loro potenzialità
enormi. Il nostro è un paese associativo e consociativo, non si basa
sui diritti e sui doveri degli individui.[…] So di non essere popolare,
ma lo ripeto: un raccomandato che guadagna duecentomila euro a spese del contribuente
è eticamente a un livello ancora più basso di un delinquente comune,
e gli effetti economici che produce sono di gran lunga più devastanti”.
Intervista
a Claudio Piersanti di Enzo Mansueto, tratta da “Corriere della Mezzogiorno”,
11 giugno 2006
“In tutto ciò irrompe prepotente la componente tempo,
prima vittima delle leggi e delle procedure inutili.
Il tempo non è una variabile indipendente, come pensano i tanti burocrati
delle pubbliche amministrazioni. Pesa come un macigno sulla qualità dell’architettura,
sulla pianificazione, sullo sviluppo economico, sulla società. Posso
avere in mano il miglior progetto di trasformazione urbana del mondo, il più
attento alla sostenibilità, al contesto fisico e sociale, alla fattibilità
economica, all’innovazione tecnologica ecc. ecc. Ma se lo realizzo dopo
20 anni dalla sua concezione diventerà comunque un progetto sbagliato!
Operatori immobiliari, investitori, costruttori, progettisti quando e se riescono
a raggiungere la fine del labirinto burocratico per realizzare un intervento
non hanno più né la forza né la voglia né le risorse
per occuparsi della qualità dell’Architettura. Ma come è
possibile che nessuno si renda conto di come questa macchina infernale che è
stata costruita tra vincoli e procedure è la strada sbagliata che ha
prodotto degrado e devastazione del territorio?”
Una domanda però mi preme. Tutti questi personaggi che hanno contribuito
e contribuiscono al massacro normativo, sono architetti o cosa? E se lo sono,
a quale specie appartengono visto che vengono formati – o deformati -
nelle stesse scuole?
Formati, o deformati, in quelle scuole dove per anni ha pontificato proprio
quel Vittorio Gregotti che, con mia massima sorpresa, non avrei mai pensato
di veder citato con ammirazione in una relazione dell’In/Arch.
Ma così è.
Per il presidente Guzzini, l’ossessione patologica di Vittorio Gregotti
per le libertà formali pare essere l’antidoto ai mali d’Italia
che, paradossalmente, non sono più l’eccesso normativo partorito
proprio dalla stupidità teorica di regole compositive, di tipologie e
contestualizzazioni astratte, frutto di assurde pretese ontologiche che proprio
il nostro maestro per quasi un secolo ci ha calato sull’apparato genitale
dalle più gloriose testate italiane, ma: “Dobbiamo essere sinceri
fino in fondo: molti dei nostri architetti, estasiati dalle mirabolanti performance
delle archistar, hanno continuato a credere che la soluzione fosse tutta racchiusa
in riflessioni di tipo morfologico-compositivo, in un gioco formale che
li liberasse da altre responsabilità.
In fondo in questi anni l’architettura così intesa, quella del
brand, della firma, della genialità del singolo è anche diventata
di moda nelle riviste, nei programmi televisivi, sui quotidiani. Ma l’estetica
del mercato e del consenso è altra cosa dall’impegno per una trasformazione
sostenibile delle nostre città e dei nostri territori. Vittorio Gregotti,
nel suo recente libro intitolato “contro la fine dell’architettura”,
sviluppa una articolata riflessione sull’architettura contemporanea denunciando
la dilagante deriva della rincorsa all’ultima moda dell’architettura
intesa come oggetto singolo ingrandito. “Ci troviamo di fronte –
scrive Gregotti – ad una nuova espansione abusiva del termine creatività
ed alla necessità di un’originalità estetica astratta come
valore assoluto, indipendente da ogni altra condizione di contesto…”
Mi domando: a quali altre responsabilità facevano riferimento,
ad esempio, F.L. Wright progettando Fallingwater, Le Corbusier progettando Ronchamp,
Mendelsohn la torre Einstein, Terragni la casa del fascio, Michelucci la chiesa
sull’autostrada, e potrei continuare per ore? Di quali grosse responsabilità
si sono fatti carico questi personaggi se non quella di costruire una grande
architettura?
Bene, dichiaro schiettamente e con la massima chiarezza che, come architetto,
voglio essere libero da tutte quelle altre responsabilità che non hanno
niente a che vedere con l’architettura e che sono il veleno, non l’antidoto,
del degrado architettonico nazionale. Con l’alibi sociologico e antropologico
si giustificano e si continuano a difendere scelte urbanistiche e architettoniche sbagliate perché assurde e pretestuose,
come per esempio lo Zen di Palermo il cui autore, Gregotti appunto, difende
accusando dell’insuccesso l’incuria degli abitanti e delle amministrazioni.
Ma perdio, l’incuria c’era prima del progetto. Era parte proprio
di quel contesto tanto tirato in ballo dall’autore. C’è da
chiedersi di quale contesto parli Gregotti. Tradurre l’incuria in architettura,
direbbe Zevi, avrebbe onorato sicuramente meglio il contesto e gli abitanti
del quartiere. Come esattamente ha fatto l’archistar F. O. Gehry a Bilbao,
occupandosi esclusivamente di architettura e non di sociologia. Ma tutto questo,
se non lo si fa liberando poeticamente il linguaggio, con cos’altro lo
si può fare?
Spiace che proprio l’In/Arch prenda le distanze dal suo fondatore, contestandone
le fondamenta teoriche.
Bene, secondo voi che è? Chi vuole imprigionare lo spazio dentro teoremi
che vorrebbero tenere insieme le caricature dialettali con le squadrette ideologiche
o chi lo vorrebbe affrancare ad uso di un rinnovamento civile, sociale e culturale
continuamente in atto? Se proprio uno dei principali assassini, peraltro non
pentito, ci deve salvare dai prossimi delitti siamo messi veramente male.
La libertà, soprattutto quella spazio-formale dell’architettura,
si paga con grandi rischi di grandi delusioni, ma il suo concime è così
fecondo da produrre sicuramente i frutti più dolci. Con le paure e le
frequentazioni della peggiore retroguardia conservatrice non si andrà
da nessuna parte degna d’un paese civile, perché per costoro l’unico
futuro possibile sta nella mistificazione del loro passato.
Se veramente all’In/Arch sta a cuore la qualità dell’architettura
rivolga il suo pensiero a chi le paure le ha vinte spezzando le catene della
pedanteria dottrinale e della censura che ne deriva. La qualità, in tutti
i campi della conoscenza, dell’economia, della società e della
politica, si ottiene per libera concorrenza e non per censura. Non si capisce
perché l’architettura ne sia esclusa e perché ad escluderla
siano i successori di chi, al contrario, ne ha sempre sostenuto l'estrema libertà
spaziale.
Brutta strada quella indicata dal presidente In/Arch. Con Gregotti sullo sfondo
fa anche un po’ tristezza.
(Sandro Lazier
- 31/5/2011)
Per condividere l'articolo:
Commento 10453 di Antonino Saggio del 15/07/2011
Mio dio Sandro che pezzo! Forte e serio.
Questa per esempio è una arma logica fondante. Ti cito:
"Ma perdio, l’incuria c’era prima del progetto. Era parte proprio di quel contesto tanto tirato in ballo dall’autore. C’è da chiedersi di quale contesto parli Gregotti. Tradurre l’incuria in architettura, direbbe Zevi, avrebbe onorato sicuramente meglio il contesto e gli abitanti del quartiere. "
Sono entrato in merito alla questione facoltà di Architettura di Palermo. Velocemente. L'articolo partiva con questa frase che ho spostato nel commento per non personalizzare due piani e due concetti.
L'articolo originariamente cominciava cosi.
Finalmente anche Danilo Dolci viene fatto santo, dal suo esatto opposto: l'eccellenza Vittorio Gregotti, il più strapotente architetto e docente italiano degli anni Settanta e Ottanta. Ma lasciamo stare, lui e il "Corriere della sera" del 13 luglio, ringraziandolo del comunque utile contributo, ed entriamo nel merito...
Commento 10645 di Valeria scandellari del 03/08/2011
Caro Sandro,
un articolo straordinario, che denuncia tutti i mali della nostra burocrazia. Meriterebbe più attenzione da parte di tutti i cultori dell'Architettura e in sostanza rivela l'urgenza di trovare una via d'uscita.
Il quartiere Zen, come le Vele di Scampia e similari andrebbero decisamente abbattuti per il bene della comunità.
cari saluti
Valeria Scandellari
[Torna alla PrimaPagina]