Cronaca dell'architettura universale
di Maurizio De Caro
- 14/9/2004

La leggenda narra che Eschilo fu ucciso da una tartaruga.
Un'aquila dopo aver catturato l'animale lo lasciò cadere dal cielo sul
capo dell'ignaro poeta tragico, scambiando la sua testa, calva, per un masso.
Quanti danni può fare una sbagliata indagine sugli elementi generali e
noi non vorremmo comportarci come quell'aquila, nell'analizzare la Biennale architettura
giunta tra alti e bassi alla nona edizione, terza di un'era che ha trasformato
la mostra in un'anabasi tra luoghi della già complicata città di
Venezia.
Il viaggio, a differenza dell'aquila, non può essere compiuto a volo d'uccello
e quindi credo che ci sia una effettiva scarsa predisposizione da parte dei critici
a guardare con occhi benevoli una mostra dopo aver dovuto catturare pass,,biglietti,,documenti
e quant'altro in luoghi che la città mette a disposizione, (da centinaia
d'anni) ma che non rispondono alle elementari esigenze della logistica.
Questa premessa, unanimemente condivisa, non costituisce un deterrente per la
critica mondiale che puntualmente si ritrova tra scolaresche, sciure ingioiellate
e tacchi a spillo, architetti più o meno spaesati (giunti da tutto il mondo
per spiare le star, quest'anno merce rara), uomini e donne alla ricerca del glamour
architettonico perduto.
Tutti insieme, poco appassionatamente, a guardare la meraviglia ai giardini, all'arsenale
e in tanti luoghi pittoreschi, in laguna.
Il nuovo direttore ha un curriculum scintillante che lo mette al riparo dalle
iene delle testate di settore ed è straniero, origine che lo protegge dalla
rissa infinita della critica nostrana, si è distinto per la svizzera capacità
organizzativa e piglio manageriale.
Forster ha l'aspetto dell'intellettuale mitteleuropeo di buone letture e di buoni
corsi universitari, vestito in maniera giovanile, ma senza esagerare, capace di
coniugare e coordinare le bizze delle archi-star, ormai superiori a quelle dei
cugini (per arte) del cinema, contemporaneo e vicino vicino, al Lido.
Ha scelto con grande opportunità la formuletta di marketing METAMORPH,
come logo/tema/polo catalizzatore, dopo il rustico Less aestetics more etics e
lo scontato Next della sogliola inglese, meteora pallida e miracolata dell'architettura
globalizzata.
La trasformazione, il cambiamento e una serie di corollari quali meta-morfosi,
morphing, metafora, meta-linguaggio e tutti i meta che volete con 170 pagine di
catalogo critico(complessivamente i tre tomi raggiungono le ottocento) curato
da dodici critici, colmo di citazioni e di riferimenti e giustificazioni, bella
grafica, bei caratteri di stampa, insomma tutto preciso, nitido, senza sbavature.
Eppure, eppure se fossi un'aquila potrei scambiare quel cranio per un masso perché,
nella lucentezza dei progetti (troppi, molti già visti, molti da studiare
e qualcuno da dimenticare) nel bel allestimento degli Asymptote (top class newyorkese)
manca clamorosamente, si avverte l'assenza, quale convitato di pietra del Tema.
Nella meraviglia di plastica dei plastici, nelle performance un po' pornografiche
dei rendering, nel tripudio di rappresentazioni magistrali e nella giustapposizione
di colori e segni, vive questa mostra che non riesce ad essere altro che un meraviglioso
museo contemporaneo di opere conosciute, di azioni teatrali accademiche e celebrate:
una prova stilistica senza passione.
Manca il rischio ed è tutto imbottito di materassi e reti semantiche per
attutire i colpi per salvare le membra aristocratiche degli attori da qualsiasi
caduta.
L'avanguardia che si vorrebbe esporre è ingrassata da premi e parcelle,
da un successo che è contraddittorio alla ricerca.
Il bel viaggio nel ventre della balena tecnologica realizzato dal gruppo egizio-canadese
ci fa sentire degli anti-pinocchio abituati ad un evento che è esente da
stupore.
Siamo bambini cattivi o cattivi creativi ma buoni osservatori di una mostra-deriva
situazionista e globalista che non aggiunge e non toglie nulla a una nuova accademia
rovesciata che scambia la causa con l'effetto e riduce tutto ad un nome sul cartellone,
New- Hollywood interplanetaria, con tanto di leoni d'oro.
Metamorfosi della professione, che diventa sempre qualcosa di diverso, che conosciamo
sempre meno e che capiamo sempre di più. Eisenman, guru dell'intellettualismo
strutturato e destrutturato al di sopra di ogni sospetto, costringe nella sua
bellissima installazione a interrogarsi sulla banalità media dei professionisti
e sulla dialettica impossibile tra il "suo" mestiere e quello degli
altri architetti presenti ai Giardini, Padiglione Italia (da abbattere e piacevolmente
al più presto).
Il suo leone d'oro rappresenta la sintesi tra decine di discipline che si interescano,
confondendo le traiettorie teoriche e rifiutando l'amalgama concettuale che rende
la sua opera nell'unicità del gesto e nella passione del segno, profondamente
multimediale.
E' l'eroe allegro e sicuro, che conquista, che impone sacrifici agli intelletti
poco adusi al salto mortale, li invita a chiedersi perché facciamo questo
lavoro e soprattutto a cosa serve.
Eisenman è l'anti-biennale di Venezia capace con la sua presenza fisica
e stereometrica di bilanciare la sequenza spettrale del museo della vittoria dell'architettura.
E' il modello vivente della statua da collocare alla sommità di questo
mausoleo del "tutto e subito" del "lo famo strano", del citazionismo
da autori retoricamente italiani (Fellini, De Sica, la pizza e il mandolino),
unica garanzia nostrana che incarta il gigantesco dolce di questa Metamorfosi.
Duecento e rotti progetti di altrettante "signorine grandi firme" che
rappresentano il 90% del fatturato degli studi di architettura mondiali e che
per essere analizzati avrebbero bisogno di qualche settimana ma che per l'intercambiabilità
possono essere accorpati agli stessi flussi dell'allestimento.
Il risultato analitico è interessante perché la percezione diventa
dinamica, frammentaria, sincopata ma non toglie non aggiunge nulla all'approfondimento
perché quei progetti siamo abituati a vederli in quel particolarissimo
modo: con ansia, e di riflesso mettono ansia.
Se all'Arsenale l'atmosfera è museale, ai Giardini le partecipazioni nazionali
risentono dell'esiguità di mezzi e dello scarso interesse di molti paesi
che rende il paesaggio visibilmente minore, tranne alcuni episodi, più
vicini all'arte che all'architettura.
Questa premessa metodologica non può condurre ad un'analisi esaustiva perché
il pesantissimo catalogo di ottocento pagine ci induce comunque a un certo rispetto
per l'energie profuse in questa che è sicuramente una delle manifestazioni
più emblematiche del settore.
Rotterdam, Londra e Pechino hanno già fatto sapere (unitamente all'expo
internazionale ormai fallita alla Triennale) che si occuperanno d'altro, appunto
lavoreranno su temi più rischiosi coinvolgendo e andando a stanare l'avanguardia
più avanguardia che c'è.
Questa IX Biennale ha avuto il pregio di rappresentare una specie di gigantesco
Bignami (o bigino se preferite il vernacolo) della cronaca dell'architettura mondiale,
un regesto delle opere in costruzione, in cantiere o in fase di avanzata progettazione,
come se si volesse ricordare che siamo arrivati al picco della parabola e che
da questo momento non sappiamo, nella discesa, che cosa ci aspetti.
Una specie di saldatura tra il momento più alto, positivo del fare (meno
del pensare) architettura e l'ignoto di un dopo che queste iniziative non ci possono
aiutare a decifrare.
E' l'architettura senza il mondo che la contiene: Mosca o Pechino, Barcellona
o Madrid, Oslo o Manduria, come entità geografiche senza interesse antropologico
per gli studi che soprattutto da Londra e New York, da Barcellona e Parigi guardano
al mondo come se fosse un gigantesco programma autocad.
Questa contentezza che si percepisce nella mostra (escludiamo le belle iniziative
del padiglione belga su Kingshasa e poco altro), questa ricchezza fuori dalla
realtà porta la cultura dell'architettura nell'alveo dell'evento: meno
riflessione, più riflettori.
Questa allegria fuori luogo, questa pervicace certezza che quella è la
strada e che "evrithing but the angle", qualsiasi cosa, basta che sia
un angolo, questo mondo così lontano dalle lacrime di quello vero ci irrita
molto e questa assenza di carattere sociale nell'infinita serie di proposte ci
costringe a credere che la trasformazione di "quella"architettura in
un ramo della Moda (nel senso di fashion) è definitivamente compiuta.
Da sempre, è vero, l'architettura si è sposata con denari, potere
e affermazione del culto -antico- della personalità.
Politici e architetti mano nella mano si sono dati il cambio tra i sorrisi per
affermare il loro verbo speculare, il grande nome tira, crea consenso e produce
il valore aggiunto dello "spuntare le armi della critica, manifestazione
del pensiero cui la politica, soprattutto contemporanea, è refrattaria.
Kurt Foster si è prestato con grande abilità a costruire questo
chilometrico cartellone pubblicitario, questo giardino delle meraviglie dove i
politici potranno scegliersi i giocattoli per il loro futuro elettorale, e la
nostra piccola provincia lombarda è già in coda al self-service.
Credo che partendo da queste brevi considerazioni si possa capire la scelta delle
figure italiane, alcune incomprensibili, e di alcuni progetti strategici da un
punto di vista degli investimenti immobiliari pubblici e privati.
Notizie che hanno scarso valore per il pubblico sempre più glamour di queste
anteprime per la stampa (mi chiedo quanti giornalisti ci siano in Italia se poi
si stampano e si leggono così pochi giornali!!), che ci costringono ad
un tentativo analitico più approfondito.
Parliamo di facce e lasciamo perdere i nomi.
Mi chiedo cosa pensano realmente gli attori-espositori vedendoci camminare all'arsenale
e ai giardini; forse credono che l'Italia che ha costruito le meraviglie dove
si ritrovano ogni due anni è comunque stata talmente grande che anche se
da cinquant'anni attraversa una fase di anoressia architettonica e di progettazione
naif, vernacolare (tutto sommato poco chic e difficile da pubblicare su el croquis),
ha avuto il privilegio di poter assistere a questa parata di stelle straniere,
e noi abbiamo sempre avuto uno spiccato senso di ospitalità.
Guardano questi "colleghi" che vestono come loro, parlano il loro stesso
inglese, leggono forse le stesse cose eppure sono solo alle prese con concorsi
truccati, parcelle inadeguate, affitti improbabili e committenze risibili.
Si percepisce il loro genetico "essere altro".
Crescono nel lusso delle forme improbabili che si realizzano, nella ricchezza
dell'affermazione delle idee (discutibili) che faranno scuola e diventeranno motivo
di triste imitazione, forzosa, da parte di quanti non li hanno riconosciuti come
maestri.
E gia si prenotano per i prossimi leoni (che, come per il cinema, dovranno essere
rigorosamente non italiani), per le prossime scorribande nel virtuale, nella dialettica
concettuale spericolata, nella citazione altatamente colta.
Questo è il catalogo, questo è un campionario che il nuovo piazzista-direttore
della decima Biennale, nel 2006 si troverà nel baule della sua luccicante
station-wagon.
In quelle facce che ci guardano c'è specchiata tutta l'invidia dei "guardati",
che continueranno, come noi, forse sbagliando, a buttare via oltre all'acqua sporca
la neonata modarchitettura.
Il rischio del qualunquismo critico pregno di livore potrebbe fare il gioco facile
delle dive veneziane, ma l'occasione è ghiotta per poter tentare una nuova
formula di critica che ci consenta di parlare d'altro analizzando il mostro-mostra.
Da una parte sarebbe divertente scambiare le didascalie per dimostrare che nell'uniformità
semiotica delle presenze si annida il rischio di una grave assenza di originalità
(Peter Eisenman escluso), quando la meraviglia del gesto grafico si spalma nel
mondo gerarchico dello star system, si decide e si coopta per assonanza, bandendo
qualsiasi voce dissonante, e nell'apparente spettacolarità iconoclasta
si annida l'accademia più tronfia.
Libeskind, UN! Studio e i fratelli olandesi, Fuksas, Zaha e tutta la compagnia
di giro risponde all'imput della committenza facendo l'imitazione dell'avanguardia;
hanno assunto il ruolo di architetti di stato, uno stato planetario che ha come
confine lo spazio splendente dei loro studi.
Mi sento ancora quell'aquila che continua a confondersi, e la bellezza di quanto
abbiamo visto alle corderie abbaglia sia perché è griffata (e quindi
very luxurious, very expensive) sia perché a guardare "dall'alto quel
mondo pieno di segni eleganti è il mondo che non conosciamo, non incide
nella realtà che viviamo tutti quotidianamente, come se Bilbao fosse fatta
da tanti piccoli e grandi Guggenheim, fino a trasformare lo straordinario, l'inusuale,
il capo-lavoro nella sequenza sfuocata, scombinata e confusa della vita.
Questo dovrebbe esser ovvio, ma abbiamo visto dietro i pannelli plastificati e
i plastici della mostra quasi una volontà pervicace di omologare di identificare
la totalità del territorio e dello spazio con quello che è occupato
dalle meraviglie: le duecento meraviglie del (loro personalissimo) mondo.
Il tentativo è quello di dire: "questa è l'architettura, noi
siamo gli eletti che possiamo praticarla e trasformare credenze, mode, forme e
contesti, vincere e gestirci i concorsi con i nostri fatturati (richiesti obbligatoriamente
dai bandi) e l'universo è tutto qui, il resto è solo uno sfondo
sbiadito per ciascuno dei nostri gioielli su cui si verseranno le lacrime di commozione
dei nostri asserviti critici (sempre meno adusi a fare il loro lavoro).
Il pericolo è evidente e supera il valore comunque estetico delle opere,
la forza con cui questi lavori si sono imposti ad una pratica un tempo frammentata
di stili e di vati piccoli piccoli, al confronto di queste personalità
egotiche e rigidamente auto-referenziali.
La Biennale è solo la liturgia di questi sacerdoti, scontata, ripetitiva
litania prevedibile che non conosce sorprese.
Un olandese in più, qualche danese o giapponese nuovo è solo un
gigantesco progetto di cooptazione alla setta estetica che comporta sacrifici
ma che garantisce un successo che neppure nel rinascimento alcuni architetti avrebbero
immaginato.
La formula della kermesse gigantesca mira ad obnubilare le menti analitiche perché
è impossibile che in quel caleidoscopio lagunare non ci possano essere
spunti positivi. Ed è vero: sono molti e significativi i segnali ma ciò
non modifica il nostro giudizio complessivo sul senso originario della manifestazione.
In effetti, il materiale che pubblicizza la rende vulnerabile; la Biennale è
come un vaccino che per analogia rende immuni dalla malattia, la globalizzazione
e la performance in tempo reale lontanissima dalla storia (mio Dio, che squallore
passatista), temi propri del progetto biennale sono il suo limite più evidente.
Oggi invece di una mostra posso trovare sulla rete ciò che è accaduto
la scorsa settimana nella parte di mondo che mi interessa, dunque, a che serve
la Biennale? Al dibattito? e quale? Agli studenti (forse), agli architetti e geometri
testoni che continuano a produrre l'infinita periferia di Venezia, la meravigliosa
villettopoli veneta? e perché dovrebbero cambiare se hanno 5 auto , 10
case e 4 amanti oltre a moglie e figli che già studiano a Venezia (o a
Milano)?
Eppure, nell'inutilità biennale, questo rito collettivo, come a dimostrare
il perduto senso di appartenenza, si ripete, ci siamo anche noi ma non saremo
mai come quelli che, non essendoci (e c'è una gara a disertare l'inaugurazione
da parte di chi conta veramente) ci dicono come fare architettura e come essere
architetti di prima classe!
La nona biennale, quella di Forster, è sicuramente più ricca di
tutte le altre, non scontenta nessuno ma ha ricevuto il rifiuto a partecipare
(pensate se succedesse al festival del cinema!) da parte del Re(m) Koolhaas, troppo
impegnato a farsi la sua di biennale personale in giro per il mondo.
Potremmo analizzare uno per uno i progetti e le sezioni ma non cambierebbe il
giudizio perché ogni biennale appartiene a Tizio e Caio; si potrebbe lanciare
un concorso tra i nostri lettori per avere una sequenza di biennali "a la
maniere de" e ci accorgeremmo che il risultato non può cambiare se
non si stabilisce un tema forte, un percorso critico rischioso, una " nuova
strada" .
Proviamo a continuare a parlare di noi (architetti e critici).
Il prodotto del critico svizzero è solo l'assemblaggio di gioielli.
Forster ha scelto dai grossisti quali perle e brillanti mettere in vetrina e ha
capito che comunque è facile fare quel tipo di commercio in regime di monopolio
perché la sua attività non prevede alternative, perché gli
altri, gli esclusi, fanno un altro mestiere, vendono altra merce.
La Biennale di alcuni curatori quali Portoghesi e Gregotti, da cui mi divide tutto
lo scibile teorico e che comunque, con Rossi, rappresentano la fase pionieristica
di una istituzione su cui nessuno avrebbe mai scommesso un centesimo, devono essere
ricordate per il coraggio e la forza programmatica; la Strada Novissima è
stata una delle condizioni progettuali di riferimento più alte che un evento
temporaneo abbia mai raggiunto, a prescindere dalla personale (neppur tanto) scelta
del curatore.
Quella biennale ha prodotto architettura, ci ha fatto vedere nuovi mondi e possibilità,
i film erano inediti e il rischio di fischi molto elevato, ma erano tempi lontani
(1980) e il Re(m) vendeva disegni nella sua villetta a pochi passi dalla casa
natale di George Orwell, e organizzava inconsciamente la stessa soluzione di futuro
del suo lontanissimo (per epoca) vicino di casa, senza passione, freddo e distaccato
come il vero grande architetto che aveva deciso di diventare.
Ora dobbiamo decidere se l'architettura è ancora più importante
di alcuni architetti e se la Biennale serve a qualcuno oppure se è solo
la presenza della setta estetica a garantire la sopravvivenza dell'istituzione.
Questo potrebbe essere argomento di svolta nella prossima perché, anche
ammettendo (con Chateaubriand) che "solo grandi ingegni sono capaci di apprezzare
grandi successi" e che non esiste una storia dell'architettura lontana dall'assemblaggio
di 10 o 15 curriculuum vitae, esiste un limite all'auto-celebrazione, alla moda,
alla presunzione, all'onanismo concettuale che spopola in laguna, ed è
la perdita di significato delle istanze che avevano portato alla nascita della
manifestazione.
Produrre cambiamenti significa fare per qualcos'altro che è superiore alla
stereometria del proprio ego gigantesco, significa rischiare di cambiare la percezione
del mondo anche senza mostrare continuamente muscoli e dimensioni.
Metamorfosi è capire che sta succedendo e per fare questo bisogna stare
in mezzo a quelle strade che i nostri maestrini frequentano sempre meno perchè
sempre più tronfi di privilegi si divertono a costruire un mondo elitario,
e già appartenere a qualcuna delle corti progettuali è motivo di
esaltazione definitiva
Metamorfosi è il futuro che incombe minaccioso e che non si misura con
l'assemblaggio dei metri cubi di meravigliose sale di concerto o di centri di
ricerca scientifica o di musei, opere d'arte imbarazzanti per le opere d'arte,
o meglio, non è solo quello e può bastare una foto della magrissima
Sejima, con una griffe più grande della sua bruttissima maglia per ridimensionare
un maestro istantaneo consumista e narciso.
Metamorfosi è la rabbia per le finzioni di chi non ha più nulla
da dire e che continua a ripetercelo, che non ama il dibattito; è la critica
al gesto irriverente e indifferente al contesto esistente, nella totale esaltazione
della propria presunzione.
Metamorfosi è superare il "guardate come siamo bravi" che i componenti
della setta internazionale continuano a ripetersi a vicenda tra pacche sulle spalle,
e bottiglie di champagne.
Metamorfosi non serve a nulla perché i film non sono in concorso e li abbiamo
gia visti troppe volte.
Metamorfosi è comunque "grazie lo stesso" perché, se non
ha prodotto nulla, ci ha spiegato da che parte stare nel nostro livoroso isolazionismo
in cui non trova sfogo una rabbia ormai incontenibile.
Metamorfosi è "noi non ci accontentiamo " di vedere le cosce
delle solite ballerine che sul solito palco ci sorridono, fingendo di saper fare
qualche cosa ma sapendo che aspettiamo solo le tariffe per il loro amore mercenario.
Che cosa potrà mai produrre tutta quella arroganza, quella presunzione,
quell'esibizione egoistica lontana da tutto, dal tempo, dalla storia, dalla memoria
e dalla logica se non frustrazione di quel piccolo esercito che vuole comunque
diventare Re per una notte e avere il proprio quarto d'ora o quindicennio di celebrità.
Architettura dovrebbe essere amore per la bellezza e quindi mostrare quella passione
di cui alle corderie e ai giardini non c'è ricordo, e Venezia tenta di
riesumare ogni due anni il festival del Viagra per ex gigolò dell'estetica
a pagamento.
Architettura dovrebbe essere confronto e non legge culturale, sigillata dalle
riviste pornografiche -e dai critici maitresse- scontro duro tra concezioni diverse
dell'universo delle forme e sulle possibilità infinite di poterle assemblare.
Architettura non può essere l'esibizione stanca di teatranti che fanno
della propria metamorfosi prezzolata un modello da mostrare alle nuove generazioni,
senza forme e senza funzioni apparenti: dopo l'estetica, niente etica.
Metamorfosi è anche dopo la forma, supera le previsioni, può essere
altro che una galleria di ritratti che la nonna cambia ogni due anni nel sua vecchia
casa al mare, ma questo Forster non poteva saperlo perché stanco dall'inseguire
le bodyguard delle dive che, col terrore di invecchiare, mostrano e si mostrano
con trucchi sempre più straordinari e hanno ingannato il curatore che li
osservava come l'ignaro osserva il tavolo del "giocatore delle tre carte",
pensando che le regole siano uguali per tutti.
Caro Kurt non è così, e ti accorgerai a novembre che quelli che
ti hanno chiesto giocare spariranno con loro lussuosissimo banchetto per montarlo
in qualche altra splendida location, davanti ad una folla di ingenui, come te.
Come noi.
(Maurizio De Caro
- 14/9/2004)
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