Abitare?
di Ugo Rosa
- 18/8/2006

"La maggioranza può contemporaneamente agire nella legalità e produrre
illegalità” “L’igiene si trova così di fronte al compito di arginare quelle stesse masse cui ha permesso di esistere” “Viviamo in un’epoca in cui è difficile distinguere la pace dalla guerra. I confini tra obbedienza cieca e delitto sono sempre più incerti” “E’ già importantissimo che chiunque sia minacciato si abitui a pensare che la resistenza comunque è possibile” Ernst Junger, Trattato del ribelle
“Voi, così liberali, così umani, che spingete l’amore della cultura
fino al preziosismo, fate finta di dimenticare che avete colonie e che
là massacrano in vostro nome” |
Pioviggina.
Due ragazzini camminano per strada. Tredici o quattordici anni uno, cinque o
sei l’altro. Figli di emigranti, probabilmente nordafricani. Gli abiti che indossano
sono vistosi, desolanti nella loro allegria televisiva. Enormi scarpe da ginnastica
scovate chissà dove, pantaloni troppo grandi e troppo colorati. Il più piccolo
si tiene avvinghiato alla gamba del più grande che gli copre la testa con un
lembo della giacca. Da sotto quel riparo, lo vedo, guarda il mondo.
Lo guarda con l’interesse distaccato di chi sa benissimo che invece al mondo,
di lui, non interessa niente.
Dall’altra parte passano altri due ragazzi, più o meno della stessa età del
più grande. Italiani, questi, e benestanti. I loro abiti, visti da un povero,
non sembrano diversi. Anche loro indossano pantaloni troppo larghi, maglioni
troppo corti, scarpe colorate… eppure tra i loro pantaloni, le scarpe, le camicie
e i vestiti dei due ragazzi che vanno insieme, abbracciati, c’è tutta la differenza
possibile. E’ una differenza che neppure i secoli passati, con le loro ingiustizie
e le oramai sepolte “differenze di classe” hanno mai conosciuto. Una
differenza che nega se stessa e si finge uguaglianza, si rappresenta come tale.
Quei ragazzi sembrano uguali. Di un’uguaglianza vistosa ed evidente. Tuttavia
quest’imbiancatura che li rende uguali presenta delle crepe. Sono crepe che
rivelano un abisso di differenza così atroce che solo il ricco ha l’occhio educato
a vederlo e a comprenderlo.
Perfino il prendere atto della sua povertà, infatti, perfino il riconoscersi
povero senza remissione è diventato un lusso che oramai al povero è negato.
Egli non ne sa nulla e crede di essere davvero uguale al ricco, di potersi confondere
con lui. Televisione, rotocalchi, manifesti pubblicitari, lo inebetiscono fino
a persuaderlo che non solo ciò è possibile ma che basta nulla a mimetizzarsi.
Così la miseria, oggi, ha questo a renderla peggiore: che solo chi può e deve
notarla la nota, gli altri la subiscono soltanto.
La conferma ce la dà, come sempre, la televisione: un giornalista va ad intervistare
il migrante albanese che vive con la moglie ed una bambina sul greto del fiume,
tra gli scarichi della fognatura e il mondezzaio, in un rifugio fatto d’assi
di legno e teli di plastica. Lo osservo sbalordito: è acconciato come Beckham,
quando fa la pubblicità al rasoio perfetto; molto più in tiro lui del giornalista.
Un figurino. Tra un paio di giorni leggeremo che la figlia di tre anni è stata
rosicchiata dai topi o è annegata nel corso dell’ultima piena, o magari non
ne leggeremo nulla solo perché è semplicemente crepata di tifo o di polmonite
all’ospedale.
Ma lui s’è acconciato da ricco per la tv, così pensa.
Uno dei segnali dell’orrore compiuto, probabilmente, consiste proprio in questo:
nell’annullamento unilaterale della percezione della differenza.
Perchè non si tratta di un accecamento reciproco.
Potrete accompagnare quel Beckham da discarica in un salottino tenuto da Lapo
Elkann e in un attimo gli si creerà il vuoto attorno. Perfino il cieco di buona
famiglia ne percepirà la presenza, non foss’altro che dall’odore del dopobarba.
Piazzate, viceversa, Lapo Elkann in un accampamento di nomadi e, a meno che
non si metta a sparare cazzate, non se n’accorgerà nessuno.
Tra poco, insomma, tutte le nobili indignazioni su collari di riconoscimento
e braccialetti elettronici faranno ridere solo i polli sopravvissuti all’aviaria,
al ricco basterà la coda dell’occhio per individuare il povero, il quale sarà
felice, da parte sua, di avere finalmente acciuffato (insieme alla giacca firmata
“Armani” da un calligrafo di Nanchino) la liberté, l’egalité
e perfino, pensate un poco, la fraternité.
Come si vede le strade della provvidenza sono state e restano, effettivamente,
infinite.
Talvolta però in una qualche periferia derelitta di una qualche metropoli del
mondo occidentale (dove si concentrano questi Beckham d’accatto e questi Del
Piero senza l’uccellino che gli cinguetta il buongiorno e gli fa da sensale)
accadono fatti spiacevoli: i poveri, i miserabili, stranamente s’incazzano e
cominciano a spaccare quello che gli capita. Non è che abbiano particolari rivendicazioni
da fare. Ne avrebbero tante, per la verità. Ma è sicuro che se glielo chiedete
non sappiano affatto spiegarvi bene perché hanno rovesciato un’auto e l’hanno
poi bruciata. Qualcuno l’ha fatto per menare un po’ le mani, qualche altro perché
si trovava a passare, un altro ancora perché era incazzato con la moglie e non
poteva più prenderla a legnate avendola già tramortita a dovere la sera precedente.
I bei tempi della “rivolta organizzata e consapevole”, insomma, sono ormai preistoria
pura.
Quello che non cambia mai è invece la prontezza della gazzetteria nello scattare
sull’attenti. S’invita perciò il politico nel porcaio televisivo: onorevole
com’è accaduto? L’onorevole risponde con la finezza richiesta dal contesto:
in un mondo globalizzato sono cose che succedono, dovere della politica è comprendere,
affrontare, provvedere, risolvere, tuttavia, si capisce, la violenza dei facinorosi
è sempre da condannare.
Complimenti onorevole. Grazie.
L’onorevole, di professione, fa l’avvocato e, tra un processo e l’altro, si
occupa di approvare in parlamento quelle leggi che, per puro caso, servono a
non fare condannare i suoi clienti (e tra questi c’è, buon per lui, perfino
il presidente, ora ex ma perennemente cavaliere, del Consiglio). Un esempio
di professionalità senza limiti (al di fuori d’ogni metafora). Nei ritagli di
tempo, inoltre, risponde, come si vede, alle domande sui problemi dei poveri
e lo fa con sicurezza inossidabile. E’ bellissimo sapere che siamo in mano agli
esperti.
Dall’altra parte c’è un famoso architetto.
Allora architetto, che mi dice? Le periferie sono importantissime.
Davvero? Certamente, anzi mi ricordo che una volta mi trovai a passare da quelle
parti e ho avuto perfino modo di parlare con qualcuno degli indigeni, capii
subito che c’era un malessere diffuso.
Ah sì? Sì.
Vede, a questi giovanotti non va proprio di andare a lavorare e guadagnarsi
con fatica il pane quotidiano, loro preferiscono spacciare droga per comprarsi
la moto.
Può essere? Certo.
Ma tu guarda!
Anche lui è un esperto, infatti di recente ha progettato: un polo fieristico,
una nuvola di vetro, una fabbrica di grappa a forma di nave spaziale e l’ipermercato
più grande d’Europa. Tra una cosa e l’altra, per arrotondare, ha prestato firma
ed immagine per la campagna pubblicitaria di una nota ditta automobilistica.
Siamo dunque en famille e se i due si scambiano qualche insulto non lasciatevi
ingannare, la verità è che sono della stessa razza.
Perciò non c’è da preoccuparsi più di tanto. Pure per Saddam Hussein e per Osama
Bin Laden chissà che sembrava e poi s’è risolto tutto. Alla fine ci ha pensato
l’esercito.
Ai marginali incazzati, vedrete, ci penserà la polizia. Dopo la polizia manderemo
i gazzettieri per il colpo di grazia. Per gli ostinati si tenga a disposizione
l’assistente sociale e, nei casi estremi, lo psicologo.
Non c’è niente da fare, la nostra vera forza consiste nella specializzazione.
Ognuno fa il suo lavoro e tutti insieme si perviene alla meta. Sinergia, come
dice chi di queste cose ne capisce.
Quelli che incendiano le auto e le rovesciano nelle banlieues parigine
non sono, invece, della stessa razza di quell’avvocato e di quell’architetto.
Essi fanno parte di un altro popolo, che non ha e non può avere voce. Sono nati
lì, hanno vissuto lì, pateticamente persuasi di potere andare in centro camuffandosi
da ricchi senza dare nell’occhio. Follemente convinti che bastino una moto e
un pantalone firmato Dolce e Gabbana per sembrare Lapo Elkann. Nati e cresciuti
in un modo che l’avvocato di Berlusconi può immaginare solo quando ha gli incubi
per aver grattugiato troppo tartufo sul risotto. Sono muti. Finché un bel giorno
non cominciano ad incendiare quelle auto che non si possono permettere. Allora
fanno notizia. Se ne parla. Ma chi ne parla (che ne parli con livore o compassione
è lo stesso) è sempre, guarda un po’, uno di un'altra categoria e di un’altra
razza. La razza dei vincitori: un avvocato di presidenti del consiglio, un architetto
iperattuale, un imbrattacarte di successo. Gente che non avrà mai il pudore
necessario a tacere: a loro il pudore non serve, anzi, se ne fossero stati dotati,
non sarebbero mai diventati quelli che sono.
Ma, dalla loro, hanno la calma. Una calma olimpica.
Il vincitore ha sempre dalla sua la calma di chi non può perdere e la esercita
con una violenza ferina, provocando ferite che difficilmente si rimarginano.
Una delle superstizioni peggiori dell’epoca consiste infatti nel ritenere che
la violenza peggiore sia quella fisica e urlata. Ai figli, si sa, niente sberle
o arrivano le guardie: per il resto se ne può fare marmellata (e lo si fa senza
meno). Ma questa calma su quelle facce è in realtà la peggiore di tutte le violenze:
è la violenza esercitata da chi sa che non c’è più alcuna violenza da esercitare
perchè lui ha sbancato il banco.
E’ una calma che vediamo dispiegata su facce ottuse e ben rasate (“…con
grande tranquillità e serenità ma anche con la massima chiarezza desidero dire…”
è uno dei passaggi chiave dello sproloquio politico). Li vedi soddisfatti, sereni.
Ed è giusto che stiano sereni. A loro va tutto per il meglio: affrontano problemi
che sono di altri, che li risolvano non è affatto prioritario (per recuperare
nei sondaggi c’è sempre tempo) nessuno toglierà loro la villa, lo yacht, la
tata e la scuola privata svizzera o anglossassone per i loro figlioletti. La
parola “ribellione”, del resto, non esiste più neppure nel vocabolario,
o se c’è la si associa automaticamente ad un aggettivo che non ha neppure bisogno
di venire pronunciato: è oramai “velleitaria” per definizione.
L’orrore di cui parlavo prima non è soltanto l’espressione della protervia dei
vincitori. Questa, in effetti, c’è sempre stata.
C’è una cosa che, quando ci penso, mi lascia ogni volta sbalordito. L’olocausto
degli Indiani d’America si è consumato del tutto negli ultimi anni del XIX secolo.
Se vogliamo dare una data alla chiusura di questo capitolo atroce possiamo riferirci
al massacro di Wounded Knee: è il 29 dicembre del 1890.
Un
soffio di tempo, separa questo dall’altro spaventoso olocausto che insanguinerà
il mondo, lo sterminio degli ebrei.
Tra Wounded Knee e gli anni trenta del novecento non si esaurisce neppure la
vita di un uomo. Poco più di quarant’anni. Ma provate a collocare nell’immaginario
delle persone l’olocausto degli indiani d’America e quello degli ebrei. Mentre
il ricordo del secondo è ancora vivo e vitale quello del primo è, nel migliore
dei casi, proiettato in un limbo semileggendario dal quale emergono come relitti
alla deriva giubbe rosse, Davy Crockett, giacche blu, calumet della pace, Cavallo
Pazzo, Wild Bill Hickock, bisonti, il generale Custer, praterie sconfinate,
John Ford, carovane di mormoni e John Wayne col fazzoletto rosso.
Ciascuno, com’è ovvio, inorridisce pensando al genocidio degli ebrei. Se si
pensa agli Indiani, viceversa, si sorride e ci si abbandona alla nostalgia dell’infanzia.
Indiani e genocidio sono parole che, nel cervello medio, non si accoppiano mai.
Anzi, scommetto che ci sarà perfino chi troverà disdicevole e un tantino sospetto
(…mmmhh…questo qui non mi convince…di sicuro è un antiamericano) che io osi
accostare due genocidi perpetrati a non più di qualche decennio di distanza.
Il fatto è che la differenza tra i due c’è: in un caso non s’è arrivati alla
soluzione finale, nell’altro invece sì. Questo perché, in un caso, il genocidio
è stato attuato da quelli che alla fine hanno vinto, nell’altro, invece, da
quelli che alla fine, per fortuna, hanno perso.
Per immaginarli simili dovremmo fare uno sforzo di fantasia e figurarci con
orrore l’erede di un Hitler vincitore che appare in televisione e, per suggellare
una nuova epoca di libertà e di democrazia (attuata con la dovuta moderazione)
porge le sue sentite scuse agli eventuali eredi delle vittime della shoah. In
tal modo i superstiti (qualora ce ne fossero) potrebbero dire “prego” e procedere
lungo il tratturo loro assegnato con serena commozione ma guardando senz’altro
al futuro. E’ già capitato altre volte. Le scuse sono belle per questo: non
costano nulla e rendono tantissimo. Chi “non può non dirsi cristiano” ne sa
parecchio.
A quel punto avremmo un carnefice benevolo che, guardando la sua vittima negli
occhi, le porge la mano: non pensiamoci più, quel che è stato è stato, sono
le fatalità della storia. Soprattutto avremmo una vittima così assolutamente
nullificata da non potersi più neppure riconoscere come vittima.
E’ questo che, più o meno, è successo agli indiani d’America. Ed è questo che
accade puntualmente a tutte le vittime dell’occidente democratico, illuminato,
liberale e progressista. Scuse, una pacca sulla spalla e i media che suonano
i pifferi della contrizione e della commozione pensando positivo. Perciò ormai
non ci sono più, propriamente parlando, né vittime né carnefici se non un paio
di fantocci mediatici con le barbe e il naso camuso (come la caricatura del
bombarolo ottocentesco ma, in più, il turbante) che di ammazzare, certamente,
ammazzano e quanto a farsi ammazzare neppure ci scherzano, ma che da puntare
non hanno altro che disperazione e fanatismo. L’occidente li guarda, più incuriosito
che preoccupato (nessuna esplosione impensierisce Hollywood, e tutte insieme,
in verità, la ingrassano) chiama l’esperto (sociologo, architetto, strizzacervelli
o magari vate) il quale osserva “sine lugere nec ridere” serenamente comprende
ma non giustifica e poi si fa da parte per far posto all’esercito. Perché si
sa, noi siamo brave persone e se è vero che se n’ammazzano tanti è però altrettanto
vero che a farlo è sempre qualcun altro e chi di dovere: esercito o polizia.
Nessuno prende l’ascia e mozza le gambe di persona allo stupratore di sua figlia:
scherziamo? Perciò a noi che siamo notoriamente moderati, centristi, padri e
mariti esemplari non è neppure richiesto il rimorso di coscienza. Per eventuali
rendiconti alla divinità sono, permettete, cazzi strettamente personali, ragion
per cui intanto ce la spassiamo perché la vita è breve…a proposito…speriamo
che questi stronzi la smettano presto ché qui ci sono persone che hanno urgenza
di andare in vacanza a Parigi…al Beaubourg c’è una deliziosa mostra dedicata
alle nuove forme espressive emerse dal seno ribollente della violenza metropolitana
che non ci possiamo mica perdere per colpa della canaille, n’est
pas?
Ora, sia i pellirosse che gli ebrei abitavano (in modi differenti, ovviamente)
l’erranza.
Non
è facile liquidare un “popolo” errante, perché non è facile individuarlo, visto
che si sposta continuamente (in tutti i sensi). Vi sono solo due maniere per
farlo. La prima, la più semplice e diretta, è la sua eliminazione fisica. La
si tentò effettivamente, come si sa, in ambedue i casi. La seconda è togliergli
l’erranza. Quando, nel secondo caso, l’olocausto non pervenne alla conclusione
prevista e fortemente voluta la Storia (che è la comoda astrazione verso cui,
evaporando, sempre s’incanala la cattiva coscienza dell’occidente) operò altrimenti.
Di fatto, oggi, l’ebreo è confinato in un fazzoletto di terra (ghetto “nazionale”,
democratico e di lusso, ma sempre e ancora ghetto: e per giunta murato) oppure
ha assunto la maschera del “Graditissimo Ospite” (travestimento verificabile
perfino nelle pagine delle rubriche ebdomadarie dove ricette, ricorrenze, usi
e costumi ebraici sono intelligentemente illustrati e simpaticamente spiegati
al lettore curioso con tanto d’incursioni cabalistiche ad uso dei più tenaci
ed intellettualmente agguerriti). Di tanto in tanto ancora scoppia una sinagoga
o si profana la tomba di un rabbino, ma sono cose che capitano.
Per gli stanziali miserabili l’operazione è, forse, più semplice e più diretta:
li si mutila della semplice possibilità di riconoscersi abitatori. Li si priva
di un luogo e di una dimora. Uno stanziale che non è più in grado di abitare
è una topica, un lapsus della Storia, e come tale lo si può tranquillamente
considerare insussistente a scapito della sua (eventuale e puramente fortuita)
consistenza fisica. Così l’Occidente considera quegli uomini, quelle donne e
quei bambini che vivono sul greto dei torrenti, presso le fognature, nelle periferie
più degradate: inesistenti. Se alzano la voce e si ribellano come sanno e come
possono sono farabutti: canaglia da rinchiudere e buttar via la chiave. Perché
non rispettano le regole della famosa democrazia liberale. Quelle stupefacenti
e comodissime regole democratiche e liberali che democraticamente e liberalmente
vogliono loro nei paraggi della discarica e l’architetto, l’avvocato, l’imbrattacarte,
presso il tenutario televisivo a parlare umanamente, serenamente, pacatamente,
tranquillamente, di loro e della loro miseria: oggi e sempre.
Privando lo stanziale della sua dimora lo si priva di ciò che ad Indiani ed
Ebrei poteva venire tolto solo con il toglier loro la vita o l’erranza: lo si
priva di sé perché lo si priva della possibilità di riflettersi in una comunità.
La parola Comunità deriva dal greco Koinòs (opposto ad idios, privato). Indica,
originariamente “appartenenza ad una comunità stabile, ad una istituzione
duratura” la sua base corrisponde (G. Semerano “Le origini della cultura
europea” ) all’accadico Kanu, Kunnu, che vuol dire “stabilire una fondazione,
una città, una comunità.
Si stabilisce e si fonda dunque, insieme, una città ed una comunità.
Ma il gesto della fondazione, con cui si circoscrive e si delimita una porzione
di terreno (differenziando un “dentro” da un “fuori”) è lo stesso gesto con
cui si dà origine all’architettura.
La città è “il comune”: ciò che abbiamo in comune.
Architettura, città, comunità non sono che tre modi di sostantivare un verbo,
e questo verbo è “abitare”.
Ma i miserabili, oggi, non abitano che i loro abiti. E quegli abiti sono diventati
l’ultima risorsa dell’ipocrisia, giacché non li rendono riconoscibili più neppure
a se stessi. Sono ignoti senza essere né essere stati militi di nulla. Non militano
più da un pezzo: solo ignoti sono.
Ciò di cui si dovrebbe provare vergogna non è la ribellione delle banlieues,
ma il modo in cui quei ribelli sono stati depredati della semplice possibilità
di abitare: di farsi, cioè, comunità. Il ribelle passa al bosco, si dà alla
macchia, abbandonando l’abitato (in tedesco ribelle, Waldganger, significa esattamente
questo) e fa, in tal modo, l’unica cosa che può fare: ricongiungendo ciò che
mai avrebbe dovuto essere separato, necessità e libertà.
Ciò di cui ci si dovrebbe vergognare non è l’automobile bruciata, ma la serenità
pasciuta con cui il gazzettiere imbrattacarte si presenta in tv e, sorridendo
al tenutario della trasmissione, interpreta “l’inammissibile azione”.
Ciò di cui ci si dovrebbe vergognare non è “lo squallore delle periferie
urbane” ma la stupidità vuota, ipocrita, chiassosa e ridanciana cui sono
ridotti quei “centri urbani” che una volta erano le nostre città, perché
quello squallore trattiene ancora una briciola di verità, anche se sgradevole,
mentre questa bardatura idiota mette in ghingheri il nulla e ne fa un‘offesa
alla dignità e al senso di giustizia.
Adesso, quando i derelitti, i poveri, i miserabili privati anche della possibilità
stessa d’essere tali, e dunque privati della semplice possibilità di “essere”,
si ribellano noi invitiamo un coglione a dire la sua, e lui la dice, e prende
le distanze, e stigmatizza ma (e certamente è questo il peggio) “comprende”.
Perché non interessa quello che c’è davvero dentro il buco del culo del mondo
e finché i miserabili s’ammazzano tra loro niente importa a nessuno: purché
non osino disturbare la festa.
Si ammazzino dunque senza schiamazzi: come osano proclamare al mondo d’essere
vittime? Lo siano in silenzio. Crepino, ma muti: è già tantissimo che se ne
tolleri l’esistenza, ma la loro “presenza”, insomma, è del tutto insopportabile.
E poi, in fin dei conti, non possono forse andare a votare? Siamo nella bella
democrazia, se ne sono accorti o no? Facciano delle petizioni, firmino delle
lettere di protesta, si rechino in delegazione ai ministeri!
Abitare (da “habeo”) è “avere” una comunità, una città, un’architettura e, nello
stesso tempo, appartenervi. Privati della possibilità di “avere” tutto questo,
i miserabili sono privati, nello stesso tempo, della possibilità di essere.
Perché si ha un bel dire “essere” e non “avere”: se non puoi “avere” il tuo
“essere” quel bel pensare diventa un rinfrescante per le calde serate trascorse
pigramente sul bordo della piscina, tra le amene stupidaggini di un gazzettiere,
di un avvocato e di un architetto.
“Chi racconta stronzate può benissimo non ingannarci,
e nemmeno volerlo fare… l’unica sua indispensabile caratteristica distintiva
è che in un certo modo offre una falsa rappresentazione di ciò che sta facendo…”
Harry G. Frankfurt, Stronzate: un saggio filosofico |
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(Ugo Rosa - 18/8/2006)
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