Liquidando Gehry
di Paolo G.L. Ferrara
- 12/2/2001

Inevitabile che, da chi ci ha abituato a meravigliarci, ci si aspetti
sempre di più. Inevitabile che si possano avere delle delusioni
allorché qualcosa non ci soddisfa in rapporto all'attesa.
Massimiliano Fuksas individua la mancanza della "sorpresa" -
peculiare in Gehry- nell'ultima opera realizzata dall'architetto canadese.
La costruzione del Der Neue Zollhof a Dusseldorf (D), denota - secondo
Fuksas- "una stanca ripetizione della scrittura di Gehry, un po'
manierista e mancante della sorpresa alla quale l'architetto…ci aveva
abituato".
La critica di Fuksas non mi soddisfa, forse per la brevità del
testo pubblicato su "L'Espresso" dell'8.02.2001.
Il progetto per Dusseldorf è datato 1994, concepito nello stesso
arco temporale in cui si costruivano il Guggenheim ed il Nazionale-Nederlande
di Praga. Due progetti senza compromessi di sorta, in cui Gehry esprime
la capacità enorme di non essere vincolato a "schemi di scrittura"
prestabiliti, mostrando - a dirla con A.Saggio- "la duttilità
del suo progettare".
Gli anni '90 sono stati quelli in cui Gehry ha dato vita alla massima
espressione della nuova strada progettuale battuta a partire da Santa
Monica, pur sottolineando che Santa Monica è altro rispetto la
Walt Disney Concert Hall, l'American Center, il Guggenheim, il Museo Weisman.
Nei tre edifici di Dusseldorf, rispetto a quelli sopra citati, si hanno
peculiarità assolutamente diverse, ma che tendono comunque a sovvertire
gli schemi e l'ovvietà.
Siamo in un sito in cui predomina l'orizzontalità degli edifici
esistenti, per lo più vecchi magazzini di supporto alle funzioni
portuali. Primo passo, eliminare il concetto di "vuoto urbano",
scartando a priori l'idea di occupare l'area in senso classico o, all'opposto,
con una massa contorta -tipicamente gehryana- che avrebbe incentrato su
di sé l'attenzione plastica di tutto il sito.
Gehry "frigge i dogmi" dello sky line esistente e di quello
che si sarebbe realizzato se il fronte dal mare verso il porto, fosse
stato considerato l'unico punto di vista possibile, con il risultato di
dare vita ad edifici di "facciata", prospicienti il mare.
Abituati alle "collisioni" tipiche delle opere più alte
di Gehry, a prima vista, sembra che qui ci sia un semplice assemblaggio
di volumi che cercano di spingersi l'uno contro l'altro, ma in direzione
del centro del sistema edificato, ove spiccano i volumi più alti,
che fungono da blocco - quasi da perno- dell'insieme.
Le masse in movimento -tipiche di Gehry- trovano qui espressione solo
nei volumi dimensionalmente minori rispetto a quelli centrali, questi
ultimi caratterizzati dalla loro prevalente verticalità.
Scorrendo alcune opere di Gehry in cui lo sviluppo in verticale è
la matrice progettuale, si nota quanta difficoltà ci possa essere
nel "sorprendere" quando si decide di avere a che fare con il
preciso vincolo che lo sviluppo in altezza comporta.
Dal concorso per il Madison Square Garden (1987), a quello per la sede
del los Angeles Rapid Transit - Gateway Center- (1991), e passando per
il progetto St.James a Boston (1990), non scaturiscono sorprese che tali
possano dirsi, lasciando che la sovrapposizione dei piani resti evidente,
soprattutto nel ritmo delle finestre e negli angoli a 90°, questi
ultimi in veste di linee verticali che scandiscono il netto passaggio
da una facciata all'altra. A poco serve il lavoro plastico che tende a
rompere gli schemi, appunto, della sovrapposizione.
Anche in Gehry, l'angolo è fondamentale, imponendo la sua presenza
ed i suoi vincoli; lavorarlo significa intraprendere e completare la strada
della "plasticità della collisione". L'American Center
ne è la dimostrazione e le parole di Antonino Saggio sono chiarificatrici
<< la componente che prevale è la collisione fra i volumi.
Sull'angolo verso la città l'architetto ha qualche problema nel
risolvere plasticamente le grandi quantità richieste dal programma,
ma sull'angolo dell'isolato tagliato diagonalmente verso il parco si è
di fronte a una delle sue più incandescenti creazioni>>.
Nel Guggenheim l'angolo è parte integrante della "fusione";
non vi è sosta nello sguardo se non proprio negli angoli che marcano
i singoli volumi: angoli di linea netta, ove solo la tessitura continua
del rivestimento ci indirizza a captarne la continuità.
Torniamo a Dusseldorf ed esaminiamo la sovrapposizione dei piani abitativi;
indubbiamente, ogni singolo blocco trova nella sovrapposizione l'elemento
comune con gli altri. In teoria, tutti e tre gli edifici avrebbero potuto
avere lo stesso tipo di finitura materica, o lo stesso colore. Perché
differenziarli?
La risposta è insita nella volontà -a cui si accennava precedentemente-
di fare saltare gli schemi classici dello sky line e della progettazione
in verticale, da sempre connotata dalla ripetizione del piano tipo.
L'edificio intonacato risulta essere quello più sinuoso, grazie
alla continuità angolare, anche in quelli non a sezione circolare
- rintracciabili soprattutto nei due corpi più alti- Continuità
angolare che non necessita di essere marcata da alcun rivestimento, dunque
uniformità dell'intonaco.
Si contorce quello centrale e l'acciaio torna ad essere il materiale migliore
per dare vita ai piegamenti; l'angolo è scatto energico, fuori
piombo e fuori asse. E' come se l'angolo non ci fosse più, e trascinasse
con se anche l'uniformità della sovrapposizione dei piani, marcata
dal ritmo delle finestre, quasi annullandola.
L'angolo quale elemento centrale anche nell'edificio in mattoni: qui l'angolo
è la verticale del sezionamento effettuato sui diversi blocchi.
E' una verticale non a piombo, quasi che fosse la risultante di una lavorazione
a mano per sottrazione di materia, a cui, solo successivamente, sono stati
applicati i serramenti delle finestre.
Succede anche a Praga: i serramenti non sono ricavati dallo spessore murario,
ma vi s'incastrano quali oggetti geometrici che, nonostante il cambio
di dimensione che subiscono per richiamare la partitura tipica dei palazzi
storici di Praga - ma anche qui c'è il sovvertimento dell'ovvio,
in quanto le finestre non sono in linea, evitando di marcare orizzontalmente
la sovrapposizione dei piani- mantengono la loro peculiarità funzionale.
Perché tre diverse soluzioni che,
per il solo uso delle finestrature sovrapposte e ritmate, sembrano essere
un po', così come le definisce Fuksas, "manieriste" ?
forse per la mancanza di qualcosa di travolgente, che niente avesse a
che fare con elementi che potessero richiamare definite tipologie?
Personalmente, credo che quest'opera abbia sicuramente anche delle note
positive, individuabili nella scelta di sorprendere "capovolgendo
l'ovvio".
Dicevamo all'inizio che tale progetto è stato concepito in contemporanea
con il Guggenheim e l' edificio di Praga, ma non sembra assomigliare a
nessuno dei due: meno male. Sarebbe, come dice Fuksas, "stanca ripetizione
della scrittura (di Gehry)". Probabilmente le torri di Dusseldorf
non hanno la stessa forza dirompente e, sicuramente, non saranno ricordate
quali " manifesto" dell' architettura di Gehry.
Il problema è se Gehry voglia avere un manifesto della propria
architettura. Credo di no, dunque, aspettiamoci di tutto.
Concludendo, credo possa essere appropriato citare il pensiero di Antonino
Saggio -espresso nel suo libro su Gehry "Architetture residuali"-
Testo & Immagine- che, dopo averci illustrato i cambiamenti di percorso
effettuati dall'architetto canadese - sino alla casa Lewis- conclude:
<< Questa architettura segnerà una nuova fase o è
solo un esperimento? (…) Gehry si avvia forse a quella liquefazione
della materia che ha contraddistinto l'ultima fase dei grandi vecchi Michelangelo,
Renoir, Cezanne, Monet, in un analogo sciogliersi della forma? (…)
Quante frontiere ci riserva la sperimentazione di Gehry? Osserviamo con
interesse e con distacco: il suo lavoro ci ha già dato moltissimo,
ma ora è questo tavolo che aspetta. L'unico futuro che c'interessa
costruire è il nostro: con Gehry, liquidandolo>>.
Ci ha già dato moltissimo, anche negli esempi meno riusciti se
visti nella loro veste di sperimentazione : sta a noi non aspettarci che
sia sempre stupefacente, ed a noi spetta -per chi lo voglia- esserne contemporanei,
non eredi. "Liquidarlo" significa questo.
(Paolo G.L. Ferrara
- 12/2/2001)
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