PRADA, KOOLHAAS e la via dello ZEN
di Paolo G.L. Ferrara
- 4/4/2001

"Il tempo è moneta: a che vale spogliarsi la sera, se bisogna
rivestirsi la mattina?"
Francesca Pagnoncelli scrive su Arch'it delle lamentele di Gregotti fatte
a commento della mostra milanese su OMA ed Herzog & De Meuron, tema
i progetti per Prada (Corriere della sera del 16 marzo 2001).
Apparentemente, tra la frase di Totò -che introduce questo articolo-
e la Pagnoncelli non c'è alcun riferimento diretto.
Dalle parole della Pagnoncelli - a cui si rimanda www.architettura.it/files
- si comprendono chiaramente quelle che sono le posizioni su cui basa
la sua personale ricerca.
L'articolo su Arch'it è diretto a demolire qualsiasi enfatizzazione
della mostra OMA/ Erzog & De Meuron, tentativo fatto da Gregotti sul
Corriere della Sera. Bene, la critica on line si allarga a macchia d'olio,
e ci dà la possibilità di interagire, alimentando i contraddittori.
Andiamo oltre, cercando di centrare un problema più vasto: il ruolo
della cultura nella società ed il ruolo della società nella
cultura.
Prada come Olivetti? Ben venga, ma credo che - allo stato attuale- non
si possa fare un paragone di tale portata.
La figura di Olivetti è stata - nonostante alcuni errori di valutazione-
assolutamente fondamentale per lo sviluppo sociale dell'architettura e
dell'urbanistica. Inutile elencare qui le molteplici iniziative di Olivetti:
valgano per tutte il villaggio La Martella (Matera) ed il Piano regionale
della Valle d'Aosta.
Un uomo sopra le parti che, pur non condividendo sempre le idee di urbanisti
ed architetti, ne appoggiava incondizionatamente l'azione, intuendo quanto
contassero più "le idee" che non le prese di posizioni
personali.
Prada investe nella cultura e molte altre aziende cercano di darsi un'immagine
di prestigio che ne legittimi la presenza sul mercato, oltre ogni finalità
puramente commerciale.
La "società nella cultura" è fatto positivo ma
non deve limitarsi - come dice la Pagnoncelli - alla sinergia con l'architettura
per " sollecitare il gusto della maggioranza", quel compito
che l'autrice dell'articolo delega, appunto, all'architettura. Il rischio
c'è: che tali sollecitazioni diventino etichette. In tal modo,
si finirebbe per dare ragione a Gregotti, nel senso che come lui ci si
comporterebbe, imponendo un "tipo" linguistico che si identifica
quale quello rispondente alla società. Più che sollecitare
il gusto, l'architettura dovrebbe educare ai suoi significati.
Ma chi di noi può decidere quale è il modus con cui l'architettura
possa " rispondere a necessità di autorappresentazione della
società contemporanea" ? Lo possono fare forse Herzog &
De Meuron? Gregotti? Koolhaas? Fuksas? Botta? Perché la società
deve autorappresentarsi nell'architettura? E quale società?
A differenza di Olivetti, quella di Prada è,
per adesso, solo " un'operazione imprenditoriale e pubblicitaria"
che potrà dirsi "lungimirante e sorprendentemente intelligente"
solo nel momento in cui coinvolgerà il sociale.
Ammetto che ne avrei fatto a meno, ma credo che nelle parole di Gregotti
ci sia un fondo di verità. Mi riferisco espressamente a quanto
scritto da Gregotti sulla "...cultura delle arti in quanto pensiero
critico" , individuando nella mostra di Prada , il dubbio che - pur
trattandosi di architetti- "non è detto che sia una mostra
al cui centro ci sia l'architettura".
Sia chiaro: il problema non sta nel dare ragione a Gregotti o alla Pagnoncelli,
nè il mettere in discussione l'importanza di Koolhaas ed Herzog
& De Meuron nella svolta decisiva che l'architettura sta vivendo.
Vittorio Gregotti prende posizione critica, e per tale motivo non può
essere biasimato. Può essere criticato a sua volta, con argomentazioni
valide sul campo, e gli studi di Koolhaas ne sono indiretta incarnazione.
Due modi di studiare e concepire la città in modo diametralmente
opposto. Gregotti ancorato a studi vecchi di trent'anni, Koolhaas proiettato
nei problemi del futuro prossimo, ma con l'occhio vigile ai problemi del
passato, con cui si deve per forza confrontare.
Gregotti è l'opposto della "polisemia, della multi funzionalità,
dell'ideterminatezza caotica e dinamica" , come ci suggerisce Antonino
Saggio a proposito di Koolhaas. Ed il modo d'intendere la pelle dell'edificio
trova in Herzog & De Meuron assoluta dissonanza rispetto ai concetti
di Gregotti sullo stesso tema.
Resta il fatto che unire società e cultura architettonica impone
uno sforzo superiore a quello di una mostra. Olivetti chiamava i designer
italiani a collaborare per dare vita ai prodotti industriali. Prada chiama
architetti di chiara fama a progettare i propri negozi.
Olivetti intuisce i contenuti sociali che stanno alla base dei cambiamenti
che l'architettura vive tra il 1938 - stabilimento d'Ivrea, in cui evidente
è la volontà di attuare il razionale di Le Corbusier e Gropius
- ed il 1955 - impianto articolato della fabbrica di Pozzuoli. Attento
alla nuova architettura, Olivetti tenta di coniugarla con i problemi reali
delle città e del territorio.
Prada dovrà guadagnarsi tale blasone e nulla ci vieta di pensare
che lo possa fare. In Italia è meritorio organizzare un evento
che parli di architettura. Tutto dipende però dal modo in cui lo
si fa.
A differenza della Pagnoncelli, non credo che la cultura debba essere
"imprenditoriale" , ma che debba essere l'imprenditoria ad incentivare
la cultura. E non solo per gli eventuali scopi pubblicitari personali.
Che dire: mi sono presentato all'inaugurazione della mostra ma - povero
me!- senza invito, dunque bruscamente fermato da sei big jim con tanto
di auricolare all'orecchio, preposti alla tutela dei vip che mi sfilavano
davanti agli occhi. Come dare torto a Gregotti ( ahimè, di nuovo!)
quando - a proposito della mostra- dice "... anche se forse si richiede
non di capire ma solo di partecipare" ?
Le forze imprenditoriali italiane hanno quasi sempre "usato"
la cultura, quale vessillo da sbandierare per dare una parvenza d'impegno
oltre i loro precisi obiettivi di profitto.
Gli scempi delle periferie ne sono esempio inconfutabile. I capannoni
industriali disseminati nei dintorni delle città deturpano il paesaggio
tanto quanto una brutta architettura inserita in un centro antico. Ogni
tanto, qualche edificio di qualità, in cui si riflette la volontà
dell'imprenditore di turno di darsi un volto consono ai tempi, ma oltre
il quale c'è comunque un prodotto che qualifica anche il sito,
e ciò non è da poco.
Il succo dell'articolo di Francesca Pagnoncelli su Arch'it è condivisibile,
anche se credo che Gregotti non tema assolutamente che il committente
privato si possa sostituire a quello pubblico. Lui lavorerebbe comunque.
Né dobbiamo illuderci più di tanto che il privato sia terreno
fertile per la meritocrazia architettonica.
Olivetti amava ripetere che i suoi progetti venivano pensati a scadenza
ventennale. Oggi ciò sarebbe improponibile per la mentalità
di qualsiasi imprenditore, per i quali vale la frase di Totò di
cui sopra : "il tempo è moneta: a che vale spogliarsi la sera,
se bisogna rivestirsi la mattina?"
La sfida è aperta, forse impossibile, ma mi piace pensare che possa
essere realizzata: Koolhaas a Palermo, a riprogettare la città
e le sue sacche di disagio sociale, di cui lo Zen di Gregotti è
emblema.
Koolhaas a Palermo, sponsorizzato da Prada. Sarebbe la migliore risposta
che si potrebbe dare a Gregotti.
(Paolo G.L. Ferrara
- 4/4/2001)
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