Paolo G.L. Ferrara ed io abbiamo realizzato antiThesi mossi
dalla constatazione di un generale rilassamento delle ragioni
critiche verso i temi dell’architettura del nostro paese. In
particolare, il ruolo critico in passato svolto dalle riviste
storiche, ci è parso rassegnato rispetto alle valutazioni di
giudizio che la confusione degli ultimi venti anni ha prodotto
nella teoria e nella pratica costruttiva. Solo la voce di Bruno
Zevi, pressoché isolata e solitaria, in questo periodo ha scosso
qualche coscienza fuori dell’ambito accademico e della
corporazione affannosamente impegnate a cavalcare l’onda
precaria dello storicismo postmoderno e della falsificazione. Una
cavalcata nel territorio senza speranza della suggestione priva
di contenuti, nell’incerto terreno della storia e dei suoi
fatti che hanno senso ed interpretazione solo nel racconto che li
comunica. La storia, per essere espressa, va raccontata. La
storia dell’architettura, per essere espressa, va
raccontata; o va resa presente o, meglio, va resa moderna. La
modernità, dunque, esprime la storia e, di questa, ne è
espressione. Il racconto della modernità diventa il tema dell’architettura
contemporanea, che non può essere negata o superata con balzi
all’indietro. Detto questo, quale racconto meglio soddisfa
la nostra convinzione e la nostra necessità di verità di
giudizio? Noi crediamo che nessuna storia o storiella teorica
possa soddisfare questa legittima necessità. Ne abbiamo sentite
tante, spesso uscite dagli ambiti più prestigiosi dell’accademia,
ma nessuna ha retto la verifica della realtà oltre la
convenienza del contingente. Nessun racconto può dirsi vero (o
vero sempre, come direbbe Popper) per cui la sola possibilità
che ci rimane sta nel confronto con cui questi racconti devono
misurarsi e con la possibilità di esprimere criticamente e
liberamente il giudizio. Il ruolo della libera critica è quindi
principale per la qualità dell’architettura che, in sua
assenza, non saprebbe avere misura. L’oggettività del
giudizio riguarda pertanto la nostra coscienza e deve rispondere
alla nostra formazione culturale e alla nostra specifica
posizione che il ruolo ci obbliga a dichiarare apertamente.
Occorre pertanto schierarsi, dichiarare il proprio punto di
vista, essere “faziosi” per uscire dal tranello
ipocrita dell’astratta imparzialità di giudizio.
AntiThesi è questo e ha scelto la complessa e travagliata realtà
siciliana per confrontare tesi e teorie, esperienze e fallimenti,
storia e modernità.
Questa è la prima ragione del convegno di Sciacca.
La seconda ragione è molto più personale e privata, non è
certamente stata determinante ed è un omaggio che devo al mio
amico fraterno Paolo G.L. Ferrara.
Ho quasi cinquant’anni e confesso che la mia vita è stata
segnata principalmente da tre fatti luttuosi: la morte prematura
di mio padre, quella di Franco, amico quarantenne e quella di
Bruno Zevi. Sono nato ad Aosta, nelle Alpi ai confini d’Italia
e, dalle mie parti, si è poco sensibili alla rappresentazione
del tragico. Probabilmente, senza questi lutti, la mia vita
sarebbe trascorsa nel modo più banale e conformista che la
nostra società del bengodi ci propina quotidianamente. L’uomo
è pigro per natura e al benessere ci si rassegna facilmente. Ma
quando si è colpiti da fatti drammatici si è costretti a porsi
domande che non hanno risposte certe (io, almeno, non le ho
trovate) e si ha improvvisamente la sensazione di non stare in un
grande soggiorno con vista sul mare, o in una camera ben arredata
o in un qualsiasi locale pensato per la nostra meravigliosa
esistenza, bensì in un inutile e banale corridoio, in una pausa
senza significato che dovrebbe transitare la nostra vita dalla
nascita alla scomparsa. Purtroppo nessun architetto pensa alle
pause, ai corridoi che sono sempre pratici e dritti, alle scale
sempre raggruppate in blocchi scontati, eppure stiamo “esistenzialmente”
in corridoio o nella scala. Viviamo una condizione laterale,
isolata, mai centrale rispetto alla Vita che sembra appartenere
ad una umanità astratta che ci esclude a scadenza. Viviamo la
condizione sconsiderata di un affollato corridoio nel quale tutti
vanno non si sa dove e nessuno può fermarsi a colorare pareti o
lasciare segni perché intralcia il prossimo e la sua assurda
necessità di arrivare chissà dove.
Bene, la conoscenza di Paolo mi ha convinto dell’urgenza di
colorare il corridoio, di segnarlo con violenza, perché la
drammaticità espressa è l’unica possibilità di dichiarare
l’esistenza, senza false vergogne, magari esagerando.
Non c’è arte senza tragedia e rido dell’architettura
silenziosa di cubetti traforati, dell’architettura
rispettosa di storielle e panorami, dell’architettura
conciliante del naturalismo o del perbenismo tecnologico, perché
non esiste compromesso che possa privarci di un segno di
disperazione.
La Sicilia per storia e cultura è terra tragica, ambito ideale
per le ragioni dello sfregio, del segno espressivo emancipato
dalla millenaria storia, del linguaggio gridato di una periferia
che chiede riscatto. La Sicilia è terra arsa dal sole che
infiamma e consuma i colori, destinati al messaggio di una breve
stagione.
La mia speranza è quella di diffondere passione e sensibilità
per questa precaria e incerta tavolozza.
Il ruolo del convegno, quello di comunicarla al prossimo,
possibilmente da una posizione ideale e privilegiata. |
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