Giuseppe Samonà.
Testo tratto integralmente da L'architettura, cronache e storia,
n°224 del maggio 1974 |
I problemi discussi nel saggio "Il linguaggio moderno dell'architettura"
hanno destato in me un interesse crescente, anche per la sconcertante originalità
con cui sono presentati.
Non si tratta di virtuosismi, ma di riproposizioni dirette a rifondare concetti
e definire principi rigorosi che, malgrado la loro spregiudicatezza, si
collegano in modo da formare un disegno di teoria dell'architettura moderna.
Mi auguro che questa teoria venga stabilizzata attraverso altri apporti
che ne completino gli aspetti bisognevoli di ulteriore approfondimento.
Il tema linguistico così impostato ha la lucida e penetrante finalità
di una reificazione semplificatrice della gran massa di cose che si sono
venute dicendo e scrivendo sull'arte, l'architettura e l'urbanistica. Si
propone cioè di sgomberare il terreno dalle argomentazioni a valanga
che rendono complessa la trama strutturale, quella psicologica e, da ultimo,
quella politicizzante degli anni recenti, liberando la critica storico-artistica
da forme ormai abusate di speculazione filosofica. Tale realismo, sostenuto
da numerosi esempi quasi sempre calzanti, riesce a dare sufficiente credibilità
a molti problemi storico-critici fin qui resi difficili da abili quanto
astratte procedure di una metodologia scientifica con la quale la critica
di oggi si muove per vie tortuose, in punta di piedi. Qui c'è la
volontà di combattere la moda di complicare i ragionamenti sull'architettura,
spalancando finestre chiuse di stanze semibuie ed usando un approccio antiaccademico
a cui la critica attuale non è preparata.
Alcuni lettori superficiali si fermano alle prime 68 pagine del saggio,
cioè alla parte sintetica e provocatoria che si condensa nella proposta
di sette invarianti offerte come vademecum della progettazione architettonica.
Fra questi lettori ci sono i detrattori e gli entusiasti, ma tutti ritengono
che la conclusione consista nell'affermare sette eresie contro l'idolatria
classicista; eresie quasi per tutti intollerabili simultaneamente, e da
alcuni giudicate addirittura inapplicabili. Penso invece che la conclusione
più appropriata sia quella delle ultime pagine: "...Una teoria
dell'architettura capace di incidere, come Donald Smith vuole, non può
essere una vecchia teoria; deve scaturire dalle angosce della nostra società,
darsi carico delle contraddizioni, e poi spiccare il salto 'correttivo'.
Non meno ardentemente di Smith noi vogliamo una teoria dell'architettura
storicizzata e flessibile. Ma occorre scavarla nei fatti".
Si cerca dunque di scavare nei fatti le motivazioni di una teoria fondata
sull'ipotesi che la rivoluzione architettonica è possibile solo negando
ed annientando ogni modello istituzionalizzato, cioè spogliando la
cultura di tutti gli strascichi di un classicismo durato secoli, di cui
siamo ancora gli eredi. L'ipotesi coinvolge tutta l'architettura, non soltanto
quella moderna. Con questa differenza però: mentre, dal Rinascimento
in poi, l'architettura ha concentrato la sua rivoluzione anticlassica in
alcune grandi figure come Michelangiolo e Borromini, oggi la situazione
è mutata. E' possibile fondare una teoria dell'architettura su una
cultura storico-critica ben più penetrante ed illuminata di quella
del passato; una cultura che si può avvantaggiare dei mezzi polivalenti
delle attività scientifiche di altri settori di ricerca, affiancando
il lavoro operativo dei critici e dei compositori dell'architettura, fidando
su una volontà convergente in tutti per sceverare in senso realistico
i motivi che contano nella situazione drammatica di lotta e di squilibrio
della società contemporanea.
Si indica perciò come ipotesi dimostrabile la necessità di
reificare gli strumenti del design architettonico con quelli critici della
storia, per trionfare della crisi dell'architettura generalizzando le idee
anticlassiche e rivoluzionarie di alcuni geni del passato e dei creatori
del movimento moderno. La rivoluzione personalizzata da Michelangiolo e
Borromini diviene stimolo di una rivoluzione architettonica generale, capace
oggi di coinvolgere architetti e destinatari, radicalizzando i principi
anticlassici, anticonformisti dei grandi predecessori. Si insiste, in maniera
molto originale, sui principi anticlassici per dimostrare che essi sono
i soli capaci di corrispondere alle esigenze insediative del nostro tempo,
i soli che possono determinare una grande rivoluzione culturale ed operativa
per l'architettura di domani, facendola uscire finalmente dalla crisi.
Una pagina ribadisce l'idea : "...Ebbene, se la moderna critica storica
sa definire non solo le culture artistiche, ma lo stesso processo del fare
artistico nelle sue pieghe formative più sottili e individuate, l'alienazione
è sconfitta: siamo alle soglie di una reintegrazione architettonica,
la storia può diventare realmente la metodologia operativa dell'architettura.
Ma quale storia?...Occorre che la disciplina esca dal suo guscio nobile
e paludato, s'imerga nella realtà del presente, sia estesa, approfondita,
articolata in modo diverso". In queste poche righe c'è un discorso
molto chiaro di vera e propria fondazione, che trova puntuale riscontro
negli studi di linguistica strutturale. Eliminando paludamenti accademici,
bravure speculative, compiacimento ricercatorio astratto, fornendo indirizzi
reificanti in contrapposizione alle tendenze critiche di moda, si evidenzia
come la finalità anticlassica dello schizzo teorico sia dimostrabile
in ogni area.
Disegno teorico che si giustifica anche sul piano morale : "...L'obiettivo
di fare la storia s’identifica, negli strumenti e nei metodi, con quello
di fare l'architettura. Ma quale ne è lo scopo di fondo, il movente
segreto? Cosa c'è dietro questa esplosiva tensione, questa volontà
di conferire una dignità nuova alla figura dell'architetto, e di
fare dell'architettura e dell'urbanistica un'attività non demiurgica,
ma certo contestatrice e profetica?".
La risposta è abbastanza singolare ma, più delle altre, s'impegna
a rendere sempre più dimostrabile e credibile l'ipotesi sostenuta
: "... L'umana vicenda dell'architettura brulica di valenze non utilizzate,
di ipotesi lasciate in sospeso, di moti liberatori esplosi e subito dopo
soffocati...La critica, se non vuole ridursi alla passiva registrazione
di ogni esperienza, se non vuole essere una critica conformista, che non
sa mai dire di no e quindi dice di no solo di fronte alla cose serie, qui
deve resistere e rilanciare...Anche oggi un grave pericolo soverchia l'architettura,
ed è l'inclinazione a disspiare il patrimonio conquistato da un secolo
di movimento moderno".Questa idea degli sperperi, che la
teoria mette a punto, fa pensare. Si legge, ad esempio : "...E' ormai
possibile un'integrazione tra storia e design perché la storia dell'architettura
si è rinnovata, liberandosi dagli "stili" e dai criteri
statici di valutazione...il Partenone diviene un monumento diverso se lo
si esamina dal punto di vista moderno anziché nella prospettiva accademica".
Quindi è possibile non sprecare più le valenze non utilizzate.
Va poi rilevato l'intento di situarsi in una giusta posizione entro la problematica
strutturale linguistica. A proposito dei concetti salienti di Umberto Eco
sul codice linguistico, si dice : "...La tipologia offre codici di
rispecchiamento, non di contestazione, che 'non stabiliscono possibilità
governative, ma schemi fatti, non forme aperte onde parlare, ma forme sclerotizzate'
atte a soddisfare le attese tradizionali...Che significa codice
in architettura? Se riguarda elementi sintattici e semantici, generi tipologici,
il ragionamento suona addirittura reazionario perché l'architetto,
condannato a comerciare con il codice di base, con le
forme e gli schemi tradizionali, non potrebbe mai determinare uno scatto
negli eventi della storia". Più avanti, discutendo delle tre
scelte indicate da Eco come possibili per l'architetto in termini antropologici
(1.assoluta integrità al sistema sociale vigente; 2. decisione impetuosa
di obbligare la gente a vivere in modo diverso; 3. esecuzioni inusitate
del codice di base), si controdeduce : "...Dei tre atteggiamenti elencati,
il primo è passivo e di rispecchiamento, adatto alla prosa edilizia;
il terzo è attribuibile alla letteratura architettonica nella sua
accezione più prudente, non all'arte, alla poesia. Quanto al secondo,
esso non è assurdo e impossibile: più volte, nel cammino dei
secoli, l'architetto lo ha adottato reificando ciò che appariva un'astratta,
eversiva, incomprensibile utopia. Le tappe fondamentali della vicenda architettonica
sono segnate proprio da questi interventi, dai momenti in cui l'architetto
si è fatto artefice di storia. Attraverso quale codice? Tema insoluto,
che esige un ulteriore approfondimento semiologico". Si pone dunque,
ma solo come problema, la possibilità di strumentalizzare queste
idee per l'architettura antiaccademica. Mi piace sottolineare un'altra pagina
dell'analisi linguistica, perché di convincente originalità
: "...Eco sfiora il problema dello spazio ma, riducendolo all'aspetto
geometrico, finisce per giudicarlo scarsamente caratterizzante...Barthes,
assai più cauto, avverte che 'chi volesse abbozzare una semiotica
della cità dovrebbe essere insieme semiologo, specialista dei segni,
geografo, storico, urbanista, architetto e, probabilmente, anche psicanalista'...Una
semiologia dell'architettura può risultare soltanto da una ricerca
interdisciplinare tra i vari specialisti dei segni...La riduzione dello
spazio architettonico alla geometria piana o tridimensionale, euclidea o
non euclidea, va nettamente rifiutata...Qualsiasi articolazione dello spazio
architettonico: angolo, linea retta, curve, punto, quadrato, triangolo,
ellissi, figure irregolari ambigue, rettangoli iscritti uno nell'altro,
non ha alcuna validità, poiché la geometria può offrire
un metodo di verifica, ma non spiegare il processo genetico di un'immagine...Pensare
all'architettura in termini geometrici implica vederla staticamente, spazio
dipinto e non vissuto; in pratica, ucciderla".
Anche l'Istituto di Critica Operativa dell'Architettura dell'università
di Roma propone obiettivi il cui fulcro dovrebbe essere di colmare il divario
tra saper vedere e saper fare l'architettura.
Circa le sue finalità, si pecisa : "... Ci stiamo trastullando
in virtuosismi filosofici o pseudo-tali, per vari aspetti utili ma paralizzanti.
Non possiamo discettare all'infinito su codici, morfemi, funzioni prime
e seconde, figure, piano dell'espressione e piano del contenuto, choremi,
segni, denotazioni, connotazioni storiche ed estetiche, sememi. Il nostro
compito non si esaurisce a questo stadio, anzi consiste nell'indagine concreta,
sperimentale, del linguaggio architettonico. Dimentichiamo per un momento
De Saussure, Hjelmslev, Barthes, Chomshy, Eco, Jakobson, Lévi-Strauss,
Morris, Richards e Ogden...e identifichiamo gli elementi lessicali, i nodi
grammaticali e le strutture sintattiche dell'architettura moderna. Metodo:
quello storico, l'unico scientifico, l'unico che eviti ogni pericolo di
cristallizzare il processo linguistico".
Per concludere: l'ipotesi del disegno teorico di quello che dovrebbe essere
il linguaggio antiaccademico e anticlassico dell'architettura moderna è
rivoluzionaria nei mezzi, non nelle finalità umane, in quanto sono
sempre esistite posizioni anticlassiche, fin dai tempi della Grecia antica:
dai Propilei di Atene alle architetture di Borromini, la lotta al classicismo
è stata la pressante necessità di rivivificare l'uomo come
concreta presenza.
Disegno aperto di teoria antiautoritaria, come dovrebbe essere oggi ogni
teoria. Ricordiamo che, per Popper, la teoria è un tentativo di risolvere
un certo problema, mentre suscita altri problemi; molti di noi condividono
questa tesi. L'ipotesi sull'anticlassico e l'antiaccademico solleva un problema
di grandissima portata, visto come possibile soluzione della crisi architettonica
attuale: L'interesse di questa ipotesi è dimostrato dal grande numero
di argomenti analizzati in senso storico-critico, ed ancor più dall'importanza
dei molti problemi che questa ipotesi teorica suscita. Un'ipotesi da discutere
e magari da confutare, come deve avvenire per ogni teoria aperta, empirica
ed anti-autoritaria.
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Bruno Zevi sulle considerazioni
di Samonà |
Con la generosità che gli è propria, e l'eccezionale intelligenza
per i fenomeni nuovi della cultura, Samonà insiste sui moventi che
hanno portato alla codificazione del linguaggio architettonico moderno,
cioè alle sette invarianti: elenco o inventario delle funzioni, dissonanze,
tridimensionalità antiprospettica, scomposizione quadridimensionale,
massimo coinvolgimento nel gioco strutturale, spazio temporalizzato e reintegrazione
edificio-città-territorio. Nessun consenso può essere più
ambito di quello dell'uomo cui si deve il rinnovamento delle scuole di architettura
italiane.
A Giuseppe Samonà interessano però, più che i risultati
linguistici, le analisi, i sondaggi, le ricerche, gli "argomenti"
preparatori, l'itinerario e il processo attraverso cui si è giunti
ad ottenerli. Per noi invece vale soprattutto il codice, l'insieme delle
sette invarianti che finalmente consente di parlare architettura in modo
democratico, ciascuno al proprio livello creativo. Perciò crediamo
che il dibattito, dopo questa introduzione, vada riportato sul linguaggio
e sulle applicazione pratiche, progettuali e critiche.
L'esperienza vissuta da molti, a fianco di Giuseppe Samonà, nell'Istituto
Universitario di Architettura di Venezia lo conferma. Nessuna facoltà
fu meglio e più appassionatamente diretta, nessuna riuscì
a convogliare docenti più competenti e dediti alla ricerca, nessuna
creò un'atmosfera più tesa d'iniziative e di ipotesi; la scuola
di Samonà, specie nel quindicennio dal1948 al '63, fu il partito
d'azione dell'architettura. Eppure, la carenza di una codificazione
linguistica precluse di attuare a pieno le potenzialità di quella
fucina culturale. Samonà era un pò come Gropius: calamitava
i migliori e li poneva a confronto. Ma, senza una lingua, non si può
dialogare fruttuosamente, né a Weimar e Dessau, né a Venezia.
Le straordinarie capacità ricettive e trasmissive di Samonà,
assimilando e contaminando, cioè laicizzando, le poetiche dei maestri
del movimento moderno, da Wright a Le Corbusier, colmavano, per quanto possibile,
la lacuna linguistica, diffondendo una "maniera" vivace e positiva
tra un folto numero di allievi. Tuttavia, il manierismo, anche il più
qualificato, resta sempre "un discorso sul discorso", riservato
ad un'élite; si veda in proposito l'editoriale di questo fascicolo
[Riguarda i Five architects. "L'opzione: manierismo o linguaggio moderno].
Sicchè a Venezia, malgrado i notevoli sforzi, la storia non divenne
realmente metodologia operativa dell'architettura, e l'obiettivo di fare
la storia non s'identificò, negli strumenti e nei metodi, con quello
di fare l'architettura. Per quale motivo? Lo si è capito più
tardi: il passaggio storia-design non è concretabile senza la mediazione
linguistica. Dai testi dei maestri occorre tratte una lingua; questa si
riverbera direttamente sui tavoli da disegno.
Oggi possiamo compiere lo scatto: dalle poetiche al linguaggio, da una ricerca
limitata a pochi ad una comunicazione fra tutti. Certo, molti architetti
recalcitrano, non vogliono diventare adulti, preferiscono indugiare nell'infantilismo
del binomio avanguardia-crisi o nelle sentenze evasive sulla morte dell'architettura.
Ma le sette invarianto offrono lo strumento dirompente di un linguaggio
popolare, in cui fondano i valori eteronimi e quelli disciplinari; nessuno
potrà farne a meno. Dopo la confusione, gli ideologismi, le fumosità
apocalttiche degli anni sessanta, dopo l'azzeramento culturale ed esistenziale
del '68, siamo giunti ad un traguardo: l'architttura moderna diviene matura;
infatti, ciò che distingue la preistoria dalla storia, come è
noto, è la scrittura, un mezzo comuicativo sistematizzato.
Siamo ancora in tempo. I rigurgiti accademici, verificatisi dopo la scomparsa
di Wright e Le Corbusier, come dopo la morte di Michelangiolo e di Borromini,
sono mrginali e sfiatati; ora hanno perduto anche l'alibi di Louis Kahn,
falsamente interpretato. Possono quindi riprendere il cammino del movimento
moderno, codificando l'eresia, l'anticonformismo, un costume di libertà.
La presenza di Giuseppe Samonà nella battaglia per il linguaggio
moderno dell'architettura attesta la sua perenne giovinezza intellettuale,
ed è sommamente importante e significativa per i più giovani.
Adesso dobbiamo concentrarci sui fatti operativi, per riorientare i metodi
di progettazione e l'insegnamento dell'architettura. Diffondere, popolarizzare
un linguaggio anticlassico chiaro, democratico, che riazzera ogni formalismo
e perciò non può mai ricadere nell'accademia; un linguaggio
idoneo alla comunicazione quotidiana come massimo atto creativo, e quindi
capace di incidere sulle strutture . Questa è la sfida.
Bruno Zevi |
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