Si è tenuta a Roma, il 26 giugno 2003, l'assemblea generale
dell'In/Arch.
Propongo la lettura della relazione programmatica del Presidente nazionale Adolfo
Guzzini non prima, però, di un paio di appunti e notazioni.
Da un lato condivido totalmente la concretezza, la presa di distanza dalla retorica
salottiera e la puntuale e precisa analisi: "In questo contesto la gente
si è ormai rassegnata a pensare che la qualità sia un attributo
riservato esclusivamente alle opere del passato e che, quindi, promuovere la
qualità sia possibile esclusivamente tutelando o recuperando il patrimonio
esistente".
Dall'altro disapprovo in buona parte la concezione di qualità dell'architettura
che viene fuori dal testo.
In particolare, mi sembra generico e poco prudente dire che: "…le
Facoltà di Architettura sembrano aver rinunciato al compito di formare
tecnici con alti livelli di professionalità per far laureare cultori
della materia con un diffuso disprezzo per tutto ciò che è tecnologia".
Il che non è assolutamente vero. Anzi, vero è il contrario. Ricordo
che l'Italia è piena di stupidaggini formali tecnicamente ineccepibili
e che il livello medio della tecnica con cui da noi si costruiscono le abitazioni
non ha confronti nel mondo intero. Se ci manca qualcosa questo ha a che fare
con il linguaggio, certamente non con la tecnica costruttiva.
Così come mi sembra fuorviante e sospettoso distinguere le questioni
linguistico formali e le interpretazioni critiche da un sedicente e seducente,
quanto generico, "strumento di crescita civile" contrapposto
al modo "…di produrre oggetti perfetti che galleggiano nello spazio,
incapaci di formare la complessa stratificazione di fenomeni indispensabili
per vivere ed abitare." Secondo me, e credo che Bruno Zevi approverebbe,
l'ispirazione poetica - e quindi questioni soprattutto linguistiche - resta
il solo strumento di cui un bravo architetto dispone per dare risposte ad una
"complessità" che purtroppo non ama riduzioni in schemi fattuali
o categorie empiriche.
Se occorre perseguire e indicare una sorta di qualità architettonica,
questa non può prescindere dalla sua forma linguistica. Il Vittoriano
o il Palazzaccio a Roma, tanto per fare due brutti esempi, sono costruzioni
robuste e ben costruite ma "linguisticamente" lontane dall'idea di
qualità architettonica che personalmente auspico.
Quello della "qualità" è un tema che ultimamente sta
producendo iniziative oltre l'aspetto rigorosamente intellettuale (vedi il recente
D.d.L. del Ministro Urbani). La società tecnocratica - fondamentalmente
"quantitativa" - sta scoprendo che con un euro si può comprare
la cosa A o la cosa B ma, A e B, hanno qualità diverse pur avendo la
stessa misura. Questo crea un sacco di problemi all'essenza tautologica della
logica formale e alle sue applicazioni giuridiche e legislative.
Detto questo ammiro comunque finalità e impegno dell'In/Arch e del suo
Presidente nazionale.
ASSEMBLEA GENERALE IN/ARCH
Roma, 26 giugno 2003
RELAZIONE PROGRAMMATICA
DEL PRESIDENTE NAZIONALE
ADOLFO GUZZINI
sintesi
1. Le ragioni della nostra identità
Desidero innanzitutto darvi il mio benvenuto a questa Assemblea
Generale dell'Istituto Nazionale di Architettura.
Sono passati tre anni dal nostro ultimo appuntamento assembleare e poco più
di tre dal nostro congresso.
Se dovessi seguire alla lettera le indicazioni dello Statuto dovrei ora presentare
un dettagliato bilancio dell'attività svolta in questi tre anni e delineare
un programma per il prossimo biennio.
Invece voglio utilizzare il mio tempo principalmente per porre alcune domande
utili per il nostro dibattito, anche sulla base di quanto è accaduto
nel nostro recente passato.
Vi assicuro che non si tratta domande retoriche.
D'altra parte già 44 anni fa il nostro fondatore Bruno Zevi poneva questi
interrogativi ai partecipanti della prima Assemblea IN/ARCH.
Sentiamo ancora il bisogno di un Istituto Nazionale di Architettura?
A chi e a cosa può servire la nostro attività?
Esiste un reale interesse da parte dei soggetti che sono coinvolti nel nostro
Istituto a proseguire, dopo quasi mezzo secolo, questa esperienza?
"Cosa farà l'Istituto nazionale di architettura? - diceva Zevi al
Piccolo Eliseo nel 1959 - Quale il suo programma?….Potrei tracciarvi un
calendario dettagliatissimo per cinque anni, ma i programmi, anche i più
seducenti, non servono se non corrispondono ad una struttura di interessi; e
viceversa, quando la struttura esiste, i programmi discendono da soli".
Credo che queste parole di Bruno Zevi debbano essere anche oggi alla base del
nostro dibattito: qual è stata e quale dovrà essere la nostra
struttura di interessi? Se diamo una risposta a questa domanda il programma
verrà da solo.
Credo altresì che debba farci molto riflettere l'ammonimento di Zevi:
"Oggi è assurdo pensare a un Istituto di Architettura…….che
organizzi un circoletto di conferenze, un congressetto ogni anno, qualche piccola
pubblicazione".
Vi invito tutti a considerare se, nella nostra attività di questi anni,
nell'attività delle nostre sezioni sul territorio, non abbiamo spesso
avuto la sensazione e la tentazione di essere un circoletto di conferenze.
E' questa la nostra prospettiva?
Non c'è dubbio che su questo terreno, oggi molto più che quarant'anni
fa, troviamo una concorrenza fortissima.
Si moltiplicano in modo esponenziale iniziative, più o meno culturali,
del mondo dell'architettura, organizzate da associazioni, ordini professionali,
dipartimenti universitari, riviste di settore, associazioni di categoria.
Oltretutto, se crediamo che il nostro futuro debba essere essenzialmente incentrato
su questo tipo di attività, è bene sapere che i concorrenti sono
quasi sempre più efficienti di noi: hanno più risorse, dispongono
di una macchina organizzativa più forte, hanno più capacità
di autopromuoversi anche con i mass media.
Ma la nostra origine e la nostra identità sono molto diverse.
Il nostro patto fondativo, è bene non dimenticarlo, è basato sulla
volontà di far incontrare tutte le forze che contribuiscono a produrre
le trasformazioni del territorio: costruttori, industriali, architetti, ingegneri,
consumatori.
L'IN/ARCH è nato per far incontrare produttori e consumatori di architettura,
per integrare cultura ed economia.
Abbiamo rispettato questo patto?
2. Esiste una domanda di architettura di qualità?
Esistono molti modi per promuovere la cultura architettonica e
per sostenere la qualità delle trasformazioni del territorio.
Ma prima ancora di interrogarci sul come avremmo dovuto o dovremo farlo, chiediamoci
se al nostro mondo politico, al mondo degli amministratori pubblici, al mondo
economico e, più in generale, alla nostra società interessa veramente
la cultura architettonica e la qualità delle trasformazioni.
Se non partiamo da questo punto temo che continueremo a sbagliare premesse e
obiettivi.
Ho avuto modo di leggere la relazione fatta dal Presidente dell'ANCE - nonché
dirigente dell'IN/ARCH - Claudio De Albertis all'ultima Assemblea dei Costruttori
di una settimana fa.
Condivido l'interrogativo di De Albertis: perché politici e governo non
si sono ancora chiesti se accanto al Patto di Stabilità non debba coesistere
anche un Patto che garantisca ai più una residenza civile ed una città
più vivibile?
Un quesito valido soprattutto per l'Italia, un Paese che ha un mezzogiorno privo
di infrastrutture primarie e una Nord asfissiato dalla congestione delle reti.
"La cultura e la civiltà di un popolo - proseguiva De Albertis -
hanno sempre trovato riscontro nel numero e nello splendore delle opere edili
e delle città".
In questi ultimi due anni abbiamo assistito in Italia ad un intenso dibattito
sulla necessità di dotare il Paese di nuove infrastrutture.
L'attuale maggioranza di governo ha posto la realizzazione di importanti opere
infrastrutturali tra i punti prioritari e qualificanti del proprio programma,
destinando ad essa importanti risorse finanziarie (che in realtà, sino
ad oggi, sono rimaste solo sulla carta).
Recentemente Confindustria e Sindacati hanno ritrovato una inaspettata unità
di intenti siglando un Patto per lo sviluppo in cui si chiede al Governo di
riprendere gli investimenti per le infrastrutture, straordinarie ed ordinarie.
La nostra storia ci ha insegnato che il territorio è un fattore centrale
e determinante per sostenere un sistema produttivo. Senza una intelligente gestione
del territorio, un'articolata rete di infrastrutture e servizi, la competitività
di un sistema Paese resta una illusione.
Abbiamo sotto i nostri occhi l'enorme costo economico e sociale derivato da
una mancanza di qualità del territorio.
Siamo dunque tutti convinti che questo problema rappresenta una vera e proprio
emergenza per l'Italia.
Ma, come spesso accade, il dibattito si è subito polarizzato su due fronti
contrapposti: da un lato il partito del fare ad ogni costo, anche con qualche
sconto sulle procedure, sui controlli e forse anche sulla qualità.
Dall'altro lato il partito del non fare comunque, dell'opposizione pregiudiziale
ad ogni opera di trasformazione degli assetti esistenti del territorio, anche
se tali assetti risultano fatiscenti e privi di qualsiasi valore.
Mi riferisco in particolare ad un certo massimalismo ideologico della cultura
ambientalista, che tutti voi ben conoscete, capace di dire solo no.
No al ponte sullo stretto di Messina, no al MOSE di Venezia, no alla variante
di valico per l'autostrada Bologna-Firenze e via dicendo.
In questo contrapporsi - nemmeno troppo avvincente - tra il fare e il non fare
appare del tutto assente un dibattito serio sul come fare.
Il problema sembra essere sempre e solo se un'autostrada, una linea ferroviaria,
una trasformazione urbana debba o non debba essere realizzata e mai sulla qualità
di quell'intervento.
Viene allora da chiedersi se la qualità di un opera, intesa in senso
ampio, interessi veramente a qualcuno.
E siamo così giunti alla seconda domanda cruciale del mio intervento,
anch'essa finalizzata a capire il senso del nostro ruolo e della nostra identità.
Esiste una domanda sociale di Architettura?
E se non esiste è possibile operare per suscitarla?
Una domanda sociale consapevole ed esigente è il presupposto, il vero
motore della qualità delle trasformazioni: se la domanda è forte
essa è in grado di determinare tutti gli ingredienti e le condizioni
per la forte competitività ad ampia scala del sistema Italia.
Se giudicassimo la situazione del nostro Paese a partire dall'osservazione del
territorio e dai contenuti del dibattito politico e culturale dovremmo probabilmente
constatare che il valore della qualità dell'architettura non rientra
tra le priorità della nostra collettività.
In molti altri settori la consapevolezza dello straordinario valore aggiunto
della qualità è un dato largamente acquisito e condiviso: pensiamo
al design o alla moda.
In questi ambiti nessuno ha più alcun dubbio che la qualità non
è un costo aggiuntivo ma fattore vincente di mercato.
Non così per l'architettura. Se occorre realizzare una nuova linea per
l'alta velocità ferroviaria il problema del valore aggiunto, anche in
termini economici, della qualità dell'opera sembra non interessare nessuno,
neanche ai Sindacati ed alla Confindustria.
Proviamo a percorrere l'autostrada Roma-Napoli, più volte attraversata
dalla linea dell'alta velocità ferroviaria; proviamo ad osservare il
nuovo aeroporto di Malpensa o a rivedere le opere realizzate per i mondiali
del '90. Potrei citare mille altri esempi: capireste il senso di questa mia
affermazione.
Il problema dell'architettura in Italia non è certo legato al fatto che
si costruisce poco.
Tutti i dati sul progresso dell'industria delle costruzioni, pur tra gli alti
e bassi legati alle congiunture economiche, ci dicono il contrario.
In Italia si costruisce molto.
I dati sull'occupazione nell'edilizia rivelano una crescita del settore in controtendenza
rispetto a molti altri settori industriali.
Il problema, allora, è diverso: si costruisce male.
In questo contesto la gente si è oramai rassegnata a pensare che la qualità
sia un attributo riservato esclusivamente alle opere del passato e che, quindi,
promuovere la qualità sia possibile esclusivamente tutelando o recuperando
il patrimonio esistente.
Trasformato tale assunto in luogo comune, si pretende di conservare tutto, anche
le cose più indegne del passato, anche gli interventi che non hanno alcuna
qualità sotto tutti i punti di vista: paesaggistico, architettonico,
storico, funzionale.
Siamo così diventati il Paese in cui una norma dello Stato tutela automaticamente
tutto ciò che ha più di cinquant'anni e in cui le parole demolizione
e sostituzione sono un indiscusso tabù.
L'intervento contemporaneo è sempre e comunque, per gran parte della
pubblica opinione, una insidia, tanto più se ha la pretesa di incidere
in contesti storici. Non sono insidie altrettanto pericolose il traffico, l'abusivismo,
il turismo di massa, le trasformazioni funzionali. L'architettura contemporanea
si.
Per tutte queste ragioni occorre ripartire dalla costruzione della domanda.
Ecco il compito prioritario dell'IN/ARCH per i prossimi anni, sul quale cercare
nuove alleanze e sancire nuovi patti.
Sarei quasi tentato di dire: facciamoci usare dalle forze economiche, politiche,
sociali realmente interessate alle trasformazioni del territorio, pur di raggiungere
tale obiettivo. Offriamo anche una azione lobbistico-culturale per la promozione
degli interventi di trasformazione del territorio. D'altra parte non è
quello che, su un diverso fronte, hanno fatto in questi anni, con ottimi e in
parte nefasti risultati, le varie associazione ambientaliste? Non sono diventate
anch'esse delle lobby con le relative alleanze strategiche?
Esistono molte forze in Italia che spingono affinché siano realizzati
interventi sul territorio che aiutino il nostro sistema industriale?
Bene, siamo a loro disposizione per organizzare campagne di promozione culturale
di tali politiche presso l'opinione pubblica.
Purchè si accetti di parlare anche della qualità di tali opere.
Ci proponiamo come animatori culturali della trasformazione, anche in contrapposizione
con la cultura ambientalista dell'immobilismo e della finta tutela. Mettiamo
a disposizione il prestigio della nostra storia.
Forse perderemo un po' di presunto rigore scientifico nelle nostre iniziative
ma avremo rispettato quel patto fondativo di cui parlavo all'inizio.
D'altra parte non esistono altri soggetti che si siano assunti questo compito.
Ma se vogliamo lavorare per questo progetto dobbiamo avere la capacità
e la voglia di parlare all'opinione pubblica. Se continuiamo a rivolgerci a
un selezionato gruppetto di architetti e qualche costruttore illuminato non
serviamo a niente e a nessuno.
Nel discorso fondativo dell'IN/ARCH che citavo in apertura, Bruno Zevi individuava
un obiettivo minimo: l'educazione del cliente.
"L'Italia - diceva Zevi - è l'unico paese del mondo civile in cui
i fruitori di architettura non siano oggetto di attenzione, di pressione didattica…è
nell'interesse di tutti ampliare e qualificare i consumatori di architettura,
la massa di gente che usa i nostri prodotti".
Questo era il senso della nostra campagna pubblicitaria promossa lo scorso anno
nel Lazio con l'affissione di manifesti pubblicitari: immagini di integrazione
tra architettura contemporanea e paesaggio erano accompagnate dallo slogan PAESAGGIO.IL
NUOVO CREATO. Abbiamo provato a dialogare con i cittadini stimolando una nuova
domanda di architettura.
Ecco perché stiamo cercando da mesi di trovare un modo per realizzare
uno spot televisivo di pubblicità sociale.
Ecco, ancora, il senso del nostro lavoro per creare in ogni città una
casa della città o Urban center.
Attenzione: se pensiamo che le case della città debbano diventare un
ennesimo luogo per raffinate conferenze accademiche in cui far partecipare qualche
professore universitario e un po' di studenti delle Facoltà Architettura
o per allestire mostre destinate ad un pubblico scelto di intenditori allora
è meglio che rinunciamo in partenza.
La casa della città, per come la intendo io, deve essere lo strumento
per sensibilizzare i cittadini alle trasformazioni, informare, promuovere la
partecipazione, creare dibattito intorno alla struttura fisica della città;
devono essere un'occasione per far incontrare e litigare amministratori pubblici,
forze sociali, costruttori, imprenditori, immobiliaristi e progettisti.
3. Cos'è la qualità dell'Architettura
A questo punto dobbiamo chiederci: cosa intendiamo per qualità
dell'architettura?
Anche qui occorre una verifica seria. Il tema della qualità è
carico di equivoci.
L'IN/ARCH intende promuovere la qualità parlando solo del momento della
concezione, limitando il dibattito all'opera dei progettisti, al loro estro
creativo? Vogliamo concentrarci su questioni linguistico-formali, su interpretazioni
critiche dell'opera di questo o quell'architetto? Vogliamo continuare ad ignorare
che il fine dell'architettura è di essere strumento di crescita civile
e non di produrre oggetti perfetti che galleggiano nello spazio, incapaci di
formare la complessa stratificazione di fenomeni indispensabile per vivere ed
abitare?
Quando parlo di architettura di qualità, personalmente, penso a tutti
i passaggi della filiera che compone il processo edilizio: domanda, esigenze,
programma, norme, risorse, progetto, realizzazione, controllo, gestione.
Pensiamo all'importanza che riveste il cosiddetto documento preliminare di progetto
introdotto dalla Legge Merloni.
Ad esso dovrebbe essere affidato il compito di stabilire gli obiettivi generali
e gli obiettivi specifici dell' intervento che si intende realizzare in rapporto
alla domanda che lo ha motivato, di individuare gli strumenti urbanistici, normativi
e finanziari, di elaborare un corretto programma funzionale, di definire gli
standard qualitativi e quantitativi, le relazioni e le integrazioni contestuali.
Tutti voi conoscete bene cosa sono nella realtà tali documenti preliminari
elaborati dagli Uffici Tecnici delle nostre Amministrazioni Pubbliche: scarni
elenchi e liste inanimate, quasi sempre contradditorie.
Eppure il programma di progetto dovrebbe essere considerato dagli amministratori
pubblici uno strumento decisivo per il compimento delle proprie politiche di
trasformazione urbana.
Ma probabilmente i tecnici che lavorano nelle Pubbliche Amministrazioni sono
troppo impegnati a svolgere direttamente l'attività di progettazione
anziché quella di programmazione, visto che una assurda norma della Legge
Merloni ha pensato bene di far fare i progetti prioritariamente agli Uffici
Tecnici.
La qualità della domanda e la qualità del programma sono l'humus
della qualità di concezione di qualsiasi proposta di trasformazione.
Senza di esse il progetto fonda nel vago e l'Architettura non può che
perdere concretezza, credibilità e autorevolezza.
Immediatamente successiva la questione di come elevare i confronti tra alternative,
cioè di come migliorare i concorsi di progettazione, rendendoli strumenti
credibili ed efficaci.
Sulla qualità della realizzazione delle opere abbiamo molte alleanze
da fare con il mondo dei costruttori.
La prima riguarda i parametri utilizzati nel nostro Paese per valutare i costi
di costruzione, molto inferiori a quelli di tutti gli altri Paesi europei, Grecia
e Portogallo compresi.
E che dire del fatto che in Italia il costo a metrocubo, ad esempio, di una
Biblioteca Pubblica è sempre riferito al costo a metrocubo dell'edilizia
residenziale?
In tal modo oltretutto diviene quasi impossibile anche per l'industria di componenti
per l'edilizia riuscire a proporre sul mercato prodotti e materiali di qualità.
Infine la qualità della gestione: non abbiamo una cultura della manutenzione
del territorio, delle città, degli edifici. Ma senza una corretta gestione
degli interventi non potrà mai esserci qualità e senza manutenzione
non ha senso nemmeno parlare di conservazione e di tutela.
Questo è il senso che vorrei fosse attribuito al termine "architettura
di qualità".
Se concordiamo su tale interpretazione capiremo anche meglio i contenuti del
programma futuro dell'IN/ARCH, sapremo tutti su quale terreno svolgere le nostre
azioni.
Se siete convinti che la qualità sia in tutte le fasi del processo edilizio,
nella loro integrazione, allora sarete anche in accordo con me nel sostenere
che il nostro sistema formativo universitario continua a sfornare professionalità
molto poco capaci di produrre qualità.
In particolare le Facoltà di Architettura sembrano aver rinunciato al
compito di formare tecnici con alti livelli di professionalità per far
laureare cultori della materia con un diffuso disprezzo per tutto ciò
che è tecnologia, procedura, normativa, pratica professionale e via dicendo.
Cultori della materia, oltrettutto, convinti che ogni loro opera dovrà
costituire sempre ed in ogni luogo un monumento unico.
Abbiamo così in Italia schiere di giovani architetti del tutto inconsapevoli
che il loro mestiere è finalizzato al costruire, ma straordinariamente
capaci di confezionare opere di grafica pubblicitaria per qualche concorso;
opere che troveranno una transitoria ma appagante visibilità in una delle
tante riviste di architettura sul mercato.
Chiedo ai costruttori ed agli imprenditori presente in questa Assemblea: la
nostra società, il mondo imprenditoriale legato all'edilizia, gli interlocutori
politici hanno bisogno di questo tipo di "professionisti"?
Suscitare nel Paese una nuova domanda di Architettura di qualità.
Spiegare alla collettività che la questione architettonica e territoriale
ha una straordinaria importanza per la propria qualità della vita.
Cercare alleanze con tutti i soggetti che condividono questo obiettivo e siglare
con loro un nuovo patto di azione.
Un patto che proponiamo innanzitutto ai nostri soci istituzionali: all'ANCE,
all'INU , al CNI, al CNA, all'OICE, alla Federlegno Arredo, alle Amministrazioni
locali e così via.
Sulla base di questo patto potremo tornare a convocare quel Tavolo di concertazione
che avevamo avviato dopo il nostro Congresso del 2000. Ma dobbiamo convocarlo
su ordini del giorno concreti, proponendo azioni incisive e prese di posizione
chiare, da inviare con continuità a Commissioni Parlamentari, organi
di governo, partiti, stampa, televisioni e così via. Altrimenti non susciteremo
mai l'interesse dei nostri interlocutori.
Sintetizzo così il senso del mio intervento ma soprattutto il senso del
lavoro fatto in questi anni come Presidente dell'IN/ARCH e il contenuto del
programma che propongo a tutti voi per il futuro dell'IN/ARCH.
Questo è anche il punto di partenza per il nostro prossimo Congresso
Nazionale che vorremmo organizzare (se ne avremo le risorse) per il prossimo
autunno.
Dico con chiarezza che non mi interessa organizzare un congresso di tipo accademico.
Se vogliamo parlare di infrastrutture dovremo farlo interloquendo prima di tutto
con chi ha la responsabilità di programmare e realizzare le infrastrutture
in Italia: le Ferrovie dello Stato, la Società Autostrade, l'ANAS, la
Società Infrastrutture s.p.a. ecc.
Vorrei che il Congresso IN/ARCH fosse un occasione per interrogare questi referenti,
provocarli, dimostrare che in altri paesi europei si fa già oggi architettura
delle infrastrutture e che è possibile farlo anche nel nostro Paese.
Qualcuno ha sollevato l'obiezione che in tal modo si rende il Congresso poco
appetibile per gli architetti.
Io rispondo con una provocazione: "peggio per loro".
Se gli architetti non capiscono che un patto per la qualità del territorio
va siglato anche con questi soggetti, l'in/arch ha il compito di spiegarglielo.
Avremo forse una star dell'architettura internazionale in meno e pochi studenti
universitari ma saremo stati coerenti con il nostro programma.
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