Architetti, crisi e architettura

Storia e Critica

Architetti, crisi e architettura


di Sandro Lazier
12/11/2009

Sabato 31 ottobre 2009, nel Forte di Bard in Valle dAosta, antico complesso militare ora restaurato e trasformato in importante polo culturale, si tenuta una tavola rotonda organizzata dal G.A.C. (Giovani Architetti del Canavese) sul tema Architetti, Idee Giovani per la Professione. Presenti in qualit di relatori Corrado Binel, architetto di Aosta, Enrico Giacopelli, architetto Torinese; moderatore Graziano Pelagatti, Presidente dellassociazione G.A.C. Presente in sala Riccardo Bedrone, Presidente dellOrdine degli architetti di Torino; assente ingiustificata Daria Cini, Presidente dellOrdine degli architetti di Aosta.
Su invito di Corrado Binel ho partecipato allincontro perch stimolato dalla possibilit di un dibattito su temi che spesso il nostro giornale ha affrontato con trasparenza e decisione: linguaggio e tradizione, universit, concorsi e ordini professionali. Tanti temi, corposi, impossibili da risolvere in una mattinata, ma sentire laria che tira sul fronte fa sempre bene.
Inizia larchitetto Bedrone il quale, convinto che allassemblea interessino pi le sorti degli architetti che quelle dellarchitettura, ci illustra pregi e difetti, speranze e delusioni di un Ordine sempre pi nudo e oggettivamente inadeguato di fronte alla richiesta dellunica prerogativa che sola potrebbe giustificarne la sopravvivenza: perseguire la qualit dellarchitettura con gli strumenti, finora insolventi, necessari a realizzarla.
Per Bedrone, e per tutto il sistema nazionale degli Ordini, la risposta dovrebbe darsi nellaggiornamento professionale degli iscritti. Una specie di patente a punti per cui pi ci si forma, pi si bravi e degni dimprimatur. Il talento? Non incluso; ma non lo mai stato: tutti uguali davanti alla legge. E la formazione, chi la dovrebbe fare? Gli architetti, ovviamente. E chi forma, dovrebbe a sua volta essere formato? Renzo Piano, per esempio, da chi dovrebbe essere formato? E una volta in forma, chi dovrebbe egli stesso formare? Siamo in un paradosso non dissimile da quello molto pi famoso del barbiere di Russell. Lincongruenza evidente e inevitabile: se lattributo tecnico richiesto da questa professione pu effettivamente ricorrere a regole e protocolli provenienti da pi soggetti, come avviene in campo medico o scientifico in genere, al contrario il suo corredo artistico, parimenti necessario affinch larchitettura si realizzi con qualit, nega ogni tipo di convenzione, pena uninevitabile deriva, prima ideologica e poi autoritaria. Arte e disciplina concordano in regimi dispotici, ma litigano volentieri in contesti liberali e democratici.
Dagli Ordini, quindi, nessuna idea giovane e nuova; anzi, solo un tentativo di restaurazione nellultimo anno di governo conservatore, tentativo finora decisamente contrastato dal tenace Presidente dell'Autorit garante della concorrenza e del mercato Antonio Catrical, al quale va il nostro sincero applauso. Corrado Binel, pi attento ai temi di concetto, riporta la riflessione intorno a tre punti, sicuramente pi interessanti perch centrali e necessari. Parlando di giovani architetti, termine retorico che, concordo con lui, andrebbe sostituito con emergenti - let anagrafica non conta - introduce il tema del linguaggio: Appartenere quindi alla schiera emergente inoltre un condizione trasversale, che unisce le generazioni in un obiettivo comune: quello della qualit dellarchitettura; ma la qualit dellarchitettura che cos se non la ricerca di un linguaggio capace di interpretare il senso del tempo e del luogo in cui viviamo?
Concordo totalmente. Il linguaggio lunica risorsa e il solo strumento in grado di esprimere qualitativamente larchitettura. Interpreti del luogo e del tempo presente, i suoi segni devono essere il riferimento principe di ogni architetto, prima ancora della tecnica costruttiva, della storicit, della psicologia, dellurbanistica, del clima, del bilancio energetico e quantaltro le mode dei tempi propinano, precipitando le personalit pi fragili nella confusione totale. Letica dellarchitetto tutta e solo nella sensibilit espressiva della sua matita e, senza etica, non c qualit che tenga. Se no facciamo un altro mestiere.
Secondo punto: Essere rivali nella ricerca della qualit, essere rivali nel confronto culturale e delle idee, confrontarsi sui risultati e sui successi significa essere attori di un mondo di valori positivi. In quel mondo a cui a volte guardiamo persino con dolore non sono pi bravi di noi. Lo sono diventati, perch hanno scelto di sfidarsi sul terreno delle idee e non sul terreno dei fatturati o addirittura su quello delle vanit che rappresentano il gradino pi basso della dignit umana perduta.
Anche qui concordo totalmente. Il confronto, aperto e senza preclusioni formali, lunica possibilit di mettere alla prova teorie e concetti. Nessuna verit vera sempre, diceva K. Popper, senza preoccuparsi dellantinomia presente nella sua stessa affermazione. Antinomia che oggi ci costringe a riflettere sullinconsistenza delle verit che hanno governato la scienza, larte e la politica di ieri; che ci suggerisce un diverso motore di civilt: un produttivo sentimento di precariet e dinsicurezza; civilt che, quindi, si nutre di errori e si alimenta nel dubbio, nellansia, nella crisi di sistemi e di valori. Oggi sappiamo che lerrore genetico la causa prima dellevoluzione e della diversit: crisi che diventa valore. Questo, secondo Bruno Zevi, che riprendeva unacutissima riflessione di Jean Baudrillard, il senso ultimo dellidea di modernit, anche in architettura. Allora, anzich lagnarsi dessere in troppi, incompresi e canzonati da una committenza imprigionata dal timore della diversit nelle false certezze della tradizione, violentati da uninformazione mercantile rivolta alla pura immagine, giunta al dettaglio pornografico, dedita esclusivamente alla promozione delle mode e incurante della critica, beffati da una politica legislativa che scoraggia le novit e premia le abitudini e le clientele, proviamo a trasformare questa profonda crisi che ci tocca sul piano personale e professionale in ricchezza, in impegno profondamente moderno, rischioso nella ricerca di soluzioni inedite ma autorevole perch scaturito nel profondo, posto ben sotto lo strato mentale del pregiudizio, della paura e della vanagloria. So che questa condizione comporta rinunce a incarichi facili e parcelle sicure. Ma rinunce soprattutto al conformismo consolatorio, al conforto del balbettio famigliare e della caricatura benevola della storia, in tutte le sue varianti. Rinunce certo, ma se non si soffre un po, che crisi ?
Ci detto, occorre riconoscere che il luogo migliore di confronto delle idee darchitettura continua a essere il concorso. Due domande, tuttavia, si rendono necessarie: con quali criteri e chi sceglie chi giudica? Una qualsiasi persona affiderebbe a chi non ha mai incontrato lincarico di progettare la propria casa?
Sono domande sensate e semplici la cui risposta implica la partecipazione palese ai concorsi pubblici, come palese e pubblica dovrebbe essere la valutazione dei progetti da parte dei commissari, unico modo per dar giudizio anche dei giurati. In caso contrario il concorso rischia dessere solo un alibi per celare intrecci e traffici ben radicati nel vasto continente della rendita culturale, che va dalleditoria alluniversit, passando per gli Ordini professionali.
Terzo punto: Fare gli architetti significa fare politica e cultura. Questaffermazione vera quanto confusa e rischiosa. Fa supporre, infatti, che ci sia unarchitettura di destra e una di sinistra, unarchitettura conservatrice e una progressista. Il che evidentemente molto vero. Ma si d il caso che molti intellettuali di sinistra ragionino come architetti di destra e che architetti di destra, a dire il vero pochi, propongano progetti molto di sinistra. Larchitettura una bestia strana che tiene insieme conservatori di destra e di sinistra, per cui molti progetti di destra vengono promossi da eminenti personalit della sinistra.
Sullindole democratica dellarchitettura moderna si detto e scritto molto, non sempre adeguatamente. Tuttavia non cos arduo comprendere che unarchitettura composta dallesterno, posata e monumentale, oppure pittoresca ma con tutte le sue finestrelle in armonia col prospetto, costringa chi ci abita a subirne lordine e la disciplina; mentre unarchitettura apparentemente disordinata e casuale sicuramente concede a chi labita di vedere secondo desiderio e necessit, senza destinare nulla allarbitrio del prospetto. La prima evidentemente unarchitettura imposta, quindi di destra; la seconda, pi libera, di sinistra. Larchitettura popolare spontanea, tipica delle Alpi soprattutto occidentali, sintesi tra necessit interne e risultato esterno, una sublime architettura di sinistra, oggi paradossalmente difesa da accaniti conservatori di destra che in maggioranza votano a sinistra. I palazzotti neoclassici dellottocento, sorta di esperanto architettonico presente in ogni luogo della terra, come le multinazionali, tanto cari a molti intellettuali di sinistra, sono architetture di destra. Il dialetto, in architettura, sicuramente di sinistra, lesperanto di destra. Ma il dialetto tale perch strumentale alla cultura e alle necessit di un luogo. Se cambia la sua finalit, se da strumento diviene riferimento formale, inevitabilmente si scivola nel balbettio del tradizionalismo, perch senza adeguare il linguaggio, senza lintroduzione di neologismi si finisce nellimpossibilit di dare risposte ad una cultura che inevitabilmente cambia. E il balbettio profondamente di destra, nella sua pretesa di conservare ad ogni costo lidentit dentro un barattolo impermeabile, come se fosse marmellata.

Ma torniamo allincontro.
Seguono gli interventi di Enrico Giacopelli che richiama lattenzione degli architetti sulla necessit di allargare il proprio campo dazione, in un mondo che diviene sempre pi accessibile grazie alle tecnologie della comunicazione.
Graziano Pelagatti apre il dibattito tra i presenti. Sconforto, preoccupazione, per una situazione difficile anche per la crisi economica in atto. Disillusione, comunque; e voglia di novit per uscire da una situazione ormai insostenibile professionalmente.

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