DOCUMENTO_10 giugno 2010
La tragedia ambientale del Golfo del Messico è un segno, un
evento che non può essere ignorato. Il disastro della piattaforma
petrolifera Deepwater Horizon avrà, nel breve e medio periodo, effetti
sulla popolazione locale in termini di esacerbazione di malattie respiratorie
e patologie della pelle e, nel lungo periodo, gravi effetti in termini di aumento
statistico dell'incidenza di tumori. Gli effetti nel lungo periodo comprendono
anche aumenti statistici degli aborti spontanei, neonati di basso peso alla
nascita o pretermine. Il petrolio e le sostanze chimiche disperdenti rilasciate
sul luogo del disastro contamineranno la popolazione locale, nel breve e medio
termine, per via inalatoria; nel lungo termine, per via orale, come conseguenza
dell'accumulo degli idrocarburi nella catena alimentare. Per quanto riguarda
le conseguenze ambientali su flora e fauna, le prime specie animali vittime
del disastro sono state quelle di dimensioni più piccole e alla base
della catena alimentare, come ad esempio il plancton. Quindi, le specie di dimensioni
via via maggiori, che sono state contaminate direttamente (dagli idrocarburi
e dalle sostanze chimiche dispersanti) oppure indirettamente (per essersi alimentate
involontariamente di animali contaminati). Fra le specie coinvolte, numerose
specie di pesci, tartarughe marine, squali, delfini e capodogli, tonni, granchi
e gamberi, ostriche, varie specie di uccelli delle rive, molte specie di uccelli
migratori, pellicani. Gli agenti dispersanti, cioè le sostanze chimiche
utilizzate per disperdere gli idrocarburi in parti più piccole e per
farli precipitare sul fondale del mare, hanno consentito di nascondere la marea
nera della superficie. Tuttavia, tali sostanze non hanno ridotto la quantità
di greggio ma l'hanno solo nascosta alla vista, ad oltre 1600 metri di profondità,
dove continua ad esercitare i suoi effetti nefasti sulla catena alimentare a
tutti i livelli. I danni economici del disastro ambientale sono impossibili
da calcolare, tuttavia è possibile farne una stima. I danni diretti,
cioè quelli immediatamente visibili ed evidenti sono: il valore economico,
non stimabile né riparabile, della perdita di 11 vite umane; il valore
economico, non stimabile né riparabile, del danno ambientale procurato;
il valore economico della piattaforma (equivalente a circa 560 milioni di dollari),
degli investimenti per la trivellazione del pozzo, la perdita azionaria della
British Petroleum, della Transocean e della Cameron International. Inoltre:
il costo dei primi soccorsi, per lo spegnimento dell'incendio ed il salvataggio
del personale della piattaforma e la ricerca dei dispersi, il costo dell'operazione
per la calata della cupola più il costo della cupola da 100 tonnellate,
il costo delle operazioni per arginare o tappare la fuoriuscita dal pozzo; il
costo per il tentativo di arginare l'area sul mare dove si è sparso il
petrolio fuoriuscito; il costo per limitare il danno tentando la bonifica delle
acque e delle coste e la pulizia degli animali. Fra quelli indiretti, cioè
quelli correlati ma non strettamente conseguenti al disastro, vi sono: il danno
– ingentissimo, prolungato – all'industria locale della pesca; il
danno all'industria del turismo; l'aumento del prezzo del petrolio.

ITALIA_Carta dei titoli minerari_al 31 dicembre 2009_stralcio_Sicilia
In Italia, nonostante i gravissimi problemi emersi dopo il disastro
della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, stanno aumentando le richieste
per le esplorazioni e le trivellazioni petrolifere offshore, ma non esiste una
normativa adeguata né per tutelare l'ecosistema nelle aree interessate
dalle trivellazioni né per il risarcimento in caso di disastro ambientale.
Nel nostro Paese oltre alle 66 concessioni di estrazione petrolifera offshore
con pozzi già attivi, sono in vigore 24 permessi di esplorazione offshore,
soprattutto nel medio e basso Adriatico a largo di Abruzzo, Marche, Puglia e
nel Canale di Sicilia, con un’area delle esplorazioni che supera gli 11.000
chilometri quadrati. Nonostante questa intensa attività già in
atto, lo scorso anno il Ministero dello Sviluppo Economico ha reso note delle
mappe che dimostrano un forte incremento delle richieste di trivellazioni esplorative,
la cui superficie complessiva, pur non essendo nota, si può stimare che
sia almeno il doppio di quella in cui le ricerche sono già state autorizzate.
Tali mappe certificano, evidenziano richieste di trivellazioni esplorative soprattutto
al largo di Abruzzo, Marche, Puglia, Calabria (versante ionico) e nel Canale
di Sicilia. Una situazione che desta non poche preoccupazioni, sia dal punto
di vista economico sia dal punto di vista ambientale. Come mai accade tutto
questo nel nostro Paese? In Italia le royalties da pagare allo Stato per le
trivellazioni sono del 4 per cento, e non del 30-50 per cento come per altri
paesi. In Italia, poi, oltre a royalties molto più basse, non si paga
alcuna imposta per i primi 300.000 barili di petrolio all'anno: oltre 800 barili
(50.000 litri) di petrolio gratis al giorno. Le attività esplorative
sono effettuate o richieste da imprese ben note, come Eni, Edison e Shell, ma
anche da imprese minuscole, con scarsa esperienza e anche con soli 10.000 euro
di capitale sociale. E’ evidente che, in caso di malaugurato incidente,
tali imprese non potrebbero noleggiare alcun mezzo idoneo per raccogliere il
petrolio disperso.

Foto aerea del Parco archeologico di Selinunte_2010
In Sicilia, da alcuni giorni, cittadini, comitati civici, associazioni
ambientaliste e persino politici e amministratori locali stanno lottando contro
i permessi di ricerca del petrolio nel mar Mediterraneo, concessi dai diversi
Governi degli ultimi anni. Licenze per oltre mille chilometri quadrati.
Parliamo del magnifico brano di mare tra Marsala, Sciacca e le isole Egadi.
Richieste di perforazioni sono state presentate anche per Pantelleria e Lampedusa.
Insomma: “l’oro nero” e la Sicilia, una storia lunga decenni.
Una storia fatta di grandi aspettative, di grandi illusioni. Sull’Isola
si raffina il 30 per cento del petrolio consumato in Italia. Le aree di Priolo,
Milazzo e Gela, devastate dal punto di vista ecologico e paesaggistico, sono
oggi qualificate ad elevato rischio ambientale. Quanto accaduto, dunque, non
ha insegnato niente, non è servito a niente? Certo è che è
iniziata la corsa alle trivellazioni nel mare siciliano. Già l’Eni,
negli anni Ottanta, ci aveva provato, con due pozzi poi abbandonati perché
antieconomici. Ma adesso, sono una trentina i permessi già concessi in
gran segreto, senza la prescritta pubblicità. I primi cinque arrivano
nel novembre 2006: ad aggiudicarseli sono stati la Shell e la Northern Petroleum.
Poi è arrivata la Audax Energy e nel 2009 è toccato a tre autorizzazioni
alla San Leon Energy. A questo punto, però, scoppia la rivolta delle
popolazioni agrigentine e trapanesi, perché il loro mare, il loro territorio
valgono oro per il turismo e la pesca. I comitati civici di Sciacca, le associazioni
territoriali e ambientaliste – tra cui Italia Nostra – iniziano
ad indagare sui permessi e sulle società petrolifere, scoprendo che lo
Studio ambientale presentato dalla società San Leon Energy è fortemente
inadeguato e caratterizzato da evidenti imprecisioni. Inoltre, la popolazione
è stata male informata. La San Leon Energy è una srl con un capitale
di diecimila euro. La sede è in un paesino della Puglia. La ditta risulta
inattiva ed è stata ceduta a una società madre con sede in Irlanda.
Si scopre anche che il Ministero dello Sviluppo Economico, nel 2009 ha autorizzato
le ricerche nel mare antistante lo straordinario Parco archeologico di Selinunte
e le superbe spiagge di Menfi, per non parlare della città di Sciacca,
con uno dei più grandi porti del Mediterraneo per il pesce azzurro. Le
ricerche arriveranno a meno di due chilometri dalla costa e si estenderanno
per 482 chilometri quadrati. Non basta: siamo in prossimità di due vulcani
sottomarini attivi, una zona sismica. Il piano prevede indagini condotte con
l’air-gun (pistola ad aria che crea un’onda sonora ad alta intensità)
e la trivellazione di due pozzi di esplorazione. Nessuno, ovviamente, si è
ricordato della presenza di importanti riserve naturali e dei banchi di corallo.
Inevitabilmente ci chiediamo: che cosa accadrebbe, in caso d’incidente,
in un mare chiuso come il Mediterraneo?
E poi: alla Presidenza del Consiglio dei ministri, al Ministro per
lo Sviluppo economico e al Ministro dell'Ambiente chiediamo: quali
risorse tecniche e quali obblighi legislativi sono stati messi in campo per
fronteggiare una possibile emergenza ambientale dovuta ad un’accidentale
fuoruscita di petrolio off-shore e quali sono gli obblighi di tempestiva comunicazione
alle Autorità civili per affrontare l'emergenza? Inoltre, sollecitiamo
il Governo ad intervenire con urgenza per verificare lo stato delle cose, per
verificare l'effettiva economicità dell'attività estrattiva del
nostro Paese e a provvedere ad emanare una normativa più stringente per
tutelare il Mediterraneo, un mare chiuso, dal fragile equilibrio e, purtroppo,
tra i più inquinati al mondo da idrocarburi. Sappiamo bene che la qualità
del petrolio italiano off-shore è assai scarsa in quanto bituminoso,
con un alto grado di idrocarburi pesanti e ricco di zolfo. Come prodotto di
scarto il petrolio bituminoso ha l'idrogeno solforato, sostanza che, anche a
piccole dosi, può provocare gravi danni alla salute dell’uomo:
nel nostro Paese non esistono limiti di emissione in mare. A questo si aggiunge
che le compagnie petrolifere hanno bisogno di speciali fluidi e fanghi perforanti
per portare in superficie i detriti perforati. Questi fanghi sono tossici e
difficili da smaltire. Lasciano, infatti, tracce di cadmio, cromo, bario, arsenico,
mercurio, piombo, zinco e rame: elementi pesanti, nocivi, che si bioaccumulano
nel pesce che mangiamo. Infine, come abbiamo già evidenziato, in Italia
le royalties dovute allo Stato per l’attività estrattiva sono tra
le più basse al mondo. Una contropartita davvero irrisoria, a fronte
dei danni noti che questo tipo di attività produce e di quelli possibili
che un incidente potrebbe, inesorabilmente, determinare.
Leandro Janni - Consigliere nazionale di Italia Nostra
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