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    | Renato De Fusco Il testo  tratto integralmente da L'architettura, cronache e storia, 
      n224 - giugno 1974
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    | Si parla da qualche tempo di linguaggio architettonico fuori dalle linee 
      del metodo strutturale, del modello linguistico, della istituzione di una 
      semiologia architettonica. Se ne parla cio coi termini, le intenzioni e 
      gli accenti della critica militante, anzi con quelli della cosiddetta "critica 
      operativa". Per parte mia ho sempre auspicato che la teoria semiotico-architettonica 
      -cui mi avvicinai inizialmente proprio in reazione alla crisi semantica 
      dell'architettura contemporane- sfociasse al pi presto in un metodo operativo 
      utile tanto alla storia (lettura delle opere realizzate), quanto alla pratica 
      progettuale. E' ben vero che i fautori del citato orientamento non misconoscono 
      il contributo delle suddette teorie e metodiche, ma al tempo stesso parlano 
      di invarianti desunte dall'esperienza del Movimento Moderno, di una "basic 
      language" architettonica, affermano che "l'indagine semiologica  fondamentale, 
      ma non possimo pretendere che dipani, fuori dall'architettura, i problemi 
      architettonici", ecc., dimostrando l'indubbia intenzione di "parlare architettura" 
      coi termini autonomi e specifici di essa.
 
 Nelle presenti note tenter di verificare (si fa per dire) la possibilit 
      di una linguistica architettonica, che qui convenzionalmente definisco storico-empirica 
      per distinguerla da quella pi propriamente semiologica, e la possibilit 
      (ritenuta un p paradossale dagli stessi proponenti) di istituzionalizzare 
      un codice le cui regole sono tratte dalle eccezioni.
 Derivate dai testi pi significativi e paradigmatici dell'architettura moderna, 
      sono state proposte sette invarianti che caratterizzerebbero il linguaggio 
      di essa: l'elenco, la disimmetria, la tridimensionalit antiprospettica, 
      la scomposizione quadridimensionale, alcune conformazioni quali le strutture 
      in aggetto, i gusci, le membrane, la temporalit dello spazio, la reintegrazione 
      edificio-citt-territorio. Nell'economia di questo scritto non le esaminer 
      singolarmente soffermandomi piuttosto ad indicare la loro eterogenea natura 
      e soprattutto la loro possibilit di contribuire a formare un codice. Quanto 
      all'eterogeneit, quella invariante definita "elenco" equivale ad un atto 
      eversivo di rifiuto di tutto il linguaggio precedente, anzi immagina l'inesistenza 
      di un precedente sistema linguistico: ossia ci troviamo di fronte ad un 
      atto ideologico, cos come con la settima invariante, che implica una contaminazione 
      con il Kitsch. Di natura pi propriamente morfologica sono invece le invarianti 
      che riguardano l'asimmetria, la tridimensionalit antiprospettica ecc.; 
      altre, come quella che tratta delle strutture in aggetto, dei gusci e delle 
      membrane, registrano realizzazioni architettoniche in atto o gi attuate. 
      Ma, a parte la diversa natura eterogenea di tali invarianti, eterogeneit 
      che non giova certo all'istituzione di un codice, chiediamoci se sia lecito 
      definire invarianti i fenomeni suddetti. Prima per di rispondere 
      a questo interrogativo mi sembra utile operare una distinzione; la proposta 
      linguistica di cui parliamo tende a due obiettivi, fra loro certamente connessi, 
      ma non tanto da non generare una certa confusione. Da un lato, come si  
      detto, si vuole istituire una lingua basata il pi possibile sui termini 
      specifici dell'architettura e dall'altro si vuole, operando una scelta ancora 
      ideologica, individuare un codice anticlassico. Le motivazioni di questo 
      secondo atteggiamento possono trovare una giustificazione nella polemica 
      contro alcune esperienze in atto, ma non vorrei che l'avversione al classicismo 
      portasse automaticamente -poich si afferma che l'unico codice architettonico 
      istituito sia quello classico- al rifiuto di ogni normativa, senza la quale 
       impossibile non solo ogni semiologia ma anche un qualunque processo comunicativo 
      comunque fondato. Il discorso si sposta allora, accantonando la polemica 
      anticlassica che potremo riprendere altrove, sul rapporto tra norme ed invarianti. 
      Quelle sopra elencate sono desunte da opere paradigmatiche che, come dice 
      la parola, valgono s come modello per la produzione architettonico-linguistica 
      successiva, ma restano sempre delle opere eccezionali, emergenti, "artistiche" 
      e non "letterarie"; tutti attributi che contraddicono il termine stesso 
      di "invariante". Non vorrei a questo punto riproporre il vecchio dilemma 
      se la lingua la fanno i poeti o la massa parlante perch costituisce un 
      argomento da tempo accantonato dagli studi di linguistica; tuttavia, riconoscendo 
      che ogni forma di linguaggio si basa su un rapporto incessante di regole 
      ed innovazioni, appare indubbio che tale rapporto  di natura dialettica. 
      Possiamo per cento motivi "simpatizzare" per le deroghe, gli atti eversivi, 
      le innovazioni ecc., ma se vogliamo parlare di linguaggio  ovvio che esse 
      non bastano e che dovranno inevitabilmente essere riferite alle norme. E 
      altrettanto ovviamente non a quelle accademiche, bens a quelle indicate, 
      tra gli altri da Mukarovsky, per cui "...la norma si fonda sull'antinomia 
      dialettica fondamentale tra una validit senza eccezioni e una potenza soltanto 
      regolativa o addirittura semplicemente orientativa che implica la pensabilit 
      della sua violazione. In ogni norma esistono queste due direzioni contrastanti 
      tra i cui poli si svolge il processo della sua evoluzione".
 Peraltro, il rapporto fra norma e deroga rientra in una pi generale dicotomia 
      linguistica, quella langue/parole, ovvero codice-messaggio. Il primo  la 
      lingua architettonica istituzionalizzata dall'uso attraverso norme diffuse 
      e condivise, mentre il "messaggio", ossia l'opera, l'edificio  una manifestazione 
      individuale che incarna quel codice, talvolta ne smentisce alcune norme, 
      ma in ogni caso non si d fuori dall'universo di quel codice-lingua. Le 
      recenti proposte dei linguisti empirici dell'architettura in sostanza partono 
      dai messaggi o da gruppi di opere e tentano di istituzionalizzarli in codice 
      senza per raggiungere, almeno finora, la conformazione strutturale di questo. 
      Si tratta in definitiva, a mio avviso, di un'operazione storicistica che 
      come tale si basa sempre sulla individualit raggiungendo la generalit 
      solo per astrazione. Gi Eco ebbe a rilevare che alcune codificazioni architettoniche, 
      basate soprattutto su criteri tipologici e funzionali mettevano in forma 
      soluzioni gi elaborate, ovvero erano codificazioni di tipi di messaggio.
 "Il codice-lingua  diverso: mette in forma un sistema di relazioni possibili 
      dalle quali si possono generare infiniti messaggi".
 
 Ora, le sette invarianti sopra elencate si avvicinano molto a tali codificazioni 
      di tipi di messaggi. Viceversa, per individuare un codice architettonico 
      vero e proprio  necessario trovare l'equivalente del codice-lingua, cio 
      un sistema di relazioni basate non su opere paradigmatiche (che servono 
      a redigere la storiografia artistica dell'architettura) e nemmeno sui segni 
      architettonici (che secondo la mia prospettiva sono gi dei messaggi), ma 
      su sottosegni o "figure", suscettibili poi di essere articolate e combinate 
      per formare opere-messaggi. In altri termini occorre individuare tratti 
      finiti e discreti, di numero limitato e privi di valore semantico, essendo 
      la componente "significato" del segno gi appartenente alla sfera del messaggio 
      non pi a quella del codice. In altri miei scritti ho tentato di definire 
      tali sottosegni e una riprova della loro validit come fattori del codice 
      s' avuto dal fatto che questi stessi elementi si itrovano tanto nella "lettura" 
      di opere storiche, quanto nell'azione progettuale. Si potrebbe obiettare 
      che un simile procedimento segua pedissequamente il modello della linguistica. 
      Rispondo di no avendo altrove mostrato che esiste nella nostra stessa tradizione 
      architettonico-figurativa un insieme di teorie (l' Einfuhlung, la pura visibilit, 
      la Raumgestaltung ecc.) che, possedendo gi valenze linguistico-strutturali, 
      ci consentono di utilizzare il modello linguistico da una nostra autonoma 
      prospettiva senza alcuna subordinazione.
 
 Bastano queste considerazioni a farmi ritenere che le proposte sette invarianti 
      linguistico-architettoniche non sono tali; esse appartengono alla sfera 
      degli strumenti storico-critici e, senza averne l'omegeneit, al tipo degli 
      schemi wolffliniani. Certamente non  poco, ove si aggiunga che con larga 
      probabilit esse possono incidere sul fare architettonico e non sulla sola 
      storiografia. Tuttavia siamo sempre fuori da una strutturazione linguistica; 
      manca, come si  detto, la dialettica tra norma e deroga, si codificano 
      "brani" di esperienza storica, atteggiamenti ideologici, poetiche ecc. e 
      non le parti costitutive dei segni, quei fattori basilari cio la cui articolazione 
      dar poi luogo ad ogni tipo di messaggio. Per empirica che sia, una linguistica 
      architettonica non pu sottrarsi al compito di individuare tali fattori 
      di base; per empirica che sia, essa non potr non riconoscere che al di 
      sotto di ogni processo (la storia, un edificio, un segno-invaso di una fabbrica, 
      ecc.) vi sia un sistema e che nostro compito  anzitutto scoprirne la struttura 
      e i fattori primari. Ma evidentemente appena si entra in questo sistematico 
      ordine d'idee, si dissolve automaticamente ogni sorta di empirismo, anche 
      quello fondato sull'esperienza storica.
 
 Detto ci, tuttavia, dopo avere espresso con franchezza ogni riserva sulle 
      recenti proposte linguistiche e sulle relative invarianti, devo riconoscere 
      che l'intera operazione  ricca di senso. Nella letteratura semiologica, 
      ove si eccettuino gli interventi degli architetti (e qui si eccettuano perch 
      sono personalmente impegnato nel problema, quindi giudice parziale), gli 
      apporti provenienti da filosofi, estetologi, esperti di comunicazione, semiologi 
      "puri" ecc., non hanno ancora, nonostante gli incontestabili meriti scientifici, 
      elaborato una semiologia dell'architettura che soddisfi le istanze. I loro 
      testi sono "difficili" o perch mirano ad una "purezza" d'una disciplina 
      che per le sue implicazioni sociali  costituzionalmente "spuria" o perch 
      cercano al contario di tenere insieme pi d'una esperienza: la filosofia, 
      la storia, la teoria dell'informazione, la poetica dell'opera aperta ecc., 
      quando tutte queste discipline oggi come oggi necessitano a loro volta di 
      una rifondazione epistemologica: ne derivano libri e trattati assai ingenerosi 
      verso i lettori, cui si richiede una preparazione di base assai pi vasta 
      di quella che pu offrire l'odierna organizzazione didattica. Il danno  
      ancora pi grave ove si riconosca che in fondo quello linguistico-semiotico 
       proprio un tentativo di allargamento e ristrutturazione dei processi comunicativi. 
      La questione rientra allora nella pi vasta esigenza pedagogica e sociale 
      della "riduzione" culturale, cui non sono riuscito a richiamare l'interesse 
      che merita. In questo contesto ben vengano le proposte dei linguisti empirici 
      dell'architettura; esse sono destinate ad avere successo e ad essere ampiamente 
      condivise non foss'altro perch sono poste in termini chiari ed accessibili 
      e perch manifestano una carica di entusiastica fiducia in un clima di apatia 
      e di rinuncia. Contengono degli errori? Certamente, ma da un lato  lo scotto 
      da pagare alla forza di certe idee che optano per la diffusione al posto 
      del perfezionismo e dall'altro sono proprio questi lati da modificare e 
      riformulare ad indurre all'intervento, alla collaborazione, al dialogo.
 
 
 
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    | Bruno Zevi sulle considerazioni 
      di De Fusco |   
    | D'accordo sulla premessa, sull' intento che la ricerca linguistica sfoci 
      "...al pi presto in un metodo operativo utile tanto alla storia (lettura 
      delle opere realizzate), quanto alla pratica progettuale". Anzi, deve "sfociare" 
      subito, non "...al pi presto"; altrimenti resta una ricerca astratta, rispettabilisssima 
      ma inutilizzabile. Ed allora: come garantire che la "teoria semiotico-architettonica" 
      serva veramente alla penetrazione dei testi storici e, insieme, alla progettazione? 
      non par dubbio, dobbiamo estrarre la lingua dai testi, a cominciare da quelli 
      qualificanti il movimento moderno. E' questa una linguistica "storico-empirica"? 
      Chiamiamola pure cos; l'importante  che funzioni. A noi sembra l'unica 
      dotata di fondamento scientifico, appunto perch sorge e viene continuamente 
      alimentata e verificata dall'esperienza, dai fatti concreti, e non solo 
      da teorie che, per la velleit di essere universalmente valide, rischiano 
      di servire Dio e il diavolo, cio di non servire affatto.
 
 "...Istituzionalizzare un codice le cui regole sono tratte dalle eccezioni" 
       un proposito paradossale solo nell'enunciato. Come potremmo procedere 
      diversamente? Per la mancanza di un odice istituzionalizzato, il linguaggio 
      creato dai maestri ha avuto una scarsisssima forza divulgativa; ha generato 
      un manierismo spesso positivo, ma non una lingua socializzabile. Perci, 
      nel panorama edilizio, le opere dei maestri sono rimaste "eccezioni". Da 
      esse dobbiamo e possiamo trarre le invarianti, siano esse le sette indicate 
      od altre, se e quando saranno proposte e dimostrate. L'ipotesi inversa, 
      qulla di estrarre le regole dalla regola dell'edilizia corrente, sarebbe 
      suicida: una volta evirato il patrimonio dell'architettura moderna, non 
      resterebbe niente o quasi da codificare, in quanto le costruzioni comuni 
      seguono il codice classicista Beaux-Arts pi o meno mascherato.
 
 Le sette invarianti sono "...eterogenee". Certo; proprio in questo il linguaggio 
      moderno si diversifica dall'ideologia Beux-Arts, rigidamente omogenea. Punta 
      sui contenuti e non sulle forme, riazzera sistematicamente la scrittura 
      architettonica, combatte ogni a priori morfologico, grammaticale e sintattico 
      riportandosi all'operazione genetica, all'elenco che destruttura ogni frase 
      fatta, ogni convenzione. E' giusto che le invarianti "...registrino realizzazioni 
      architettoniche in atto o gi attuate" e siano eterogenee. La vita, la libert 
      sono obiettivi complessi, che implicano approccie riscontri eterogenei; 
      solo un atteggiamento repressivo della vita e della libert pu essere "omogeneo".
 
 Il codice anticlassico non "...immagina l'inesistenza di un precedente sistema 
      linguistico". Anzi riconosce che quello classicista  l'unico formalizzato 
      finora. Constata per: a) che non  un sistema, ma un'ideologia linguistica 
      mirante non a creare spazi umani, sibbene ad irreggimentarli camuffandone 
      le funzioni dietro facciate monumentali, schemi geometrici uniformi, "ordini" 
      e poi ancora "ordini"; b) che quindi non ha nulla in comune con l'architettura 
      impropriamente detta "classica", cio col mondo greco-romano e con i maestri 
      del Rinascimento, cui pretende di richiamarsi. Nell'Acropoli di Atene non 
      ci sono due soli edifici paralleli o ortogonali fra loro; l'Erechetion contiene 
      tutte e sette le invarianti del linguaggio moderno. Ma il codice classicista 
      le rifiuta, come si addice ad una ideologia dispotica e feticista, basata 
      sui "valori universali".
 
 Regole e innovazioni. Dilemma equivalente a quello tra consonanze e dissonanze. 
      Schonberg ha gi risposto, dimostrando che le dissonanze non sono "deroghe", 
      "eccezioni" o "condimenti" delle consonanze, ma danno luogo ad un linguaggio 
      alternativo valido sotto il duplice aspetto della comunicazione e della 
      forza emotiva. Finch per "regole" intenderemo i vecchi pregiudizi, resteremo 
      nell'accademia. Le "derioghe" saranno soltanto le eccezioni, le oper d'arte 
      create dai geni; tra il loro livello e quello insulso delle "regole" permarr 
      un baratro; non avremo mai una lingua architettonica utilizzabile da parte 
      di tutti, uno strumento idoneo per poetare, per esprimerci in prosa e per 
      parlare del quotidiano.
 
 Nessun riferimento quindi a norme aprioristiche, nemmeno per violarle. Non 
      auspichiamo una dittatura che provochi, per reazione, atti di libert. Vogliamo 
      essere liberi ed emanare messaggi democratici, istituendo un codice antitetico 
      alla teoria classicista. De Fusco  sicuramente d'accordo, ma si chiede: 
       possibile? Ebbene, il linguaggio anticlassico  stato inverato da Wright, 
      Le Corbusier, Mendelsohn, Aalto e, prima, da Borromini, da Palladio, Michelangiolo, 
      Brunelleschi, dagli architetti medievali e tardo-antichi, da Mnesicle e, 
      indietro, fin dalla preistoria. Sono realt evidenti, esperienze compiute, 
      tangibili, che ognuno pu vedere se i suoi occhi non sono offuscati da dogmi 
      estranei all'architettura, tipici del potere. Deroghe che diventano invarianti, 
      paroles che ristrutturano la langue.
 
 Infine, quanto alle "figure", ai "sottosegni", ai "fattori primari", alle 
      ricerche semiologiche a monte o a valle dei fenomeni architettonici concreti 
      e storici, ben vengano. A condizione che servano "...al pi presto" ad operare, 
      e non a spiegare il classicismo e l'anticlassicismo, tutto e il contrario 
      di tutto, inducendo alla paralisi.
 
 La conclusione di De Fusco preoccupa: se le discipline dei filosofi, estetologi 
      e semiologi puri "...necessitano di una rifondazione epistemologica", quanti 
      secoli dovremo aspettare per derivare dalla loro "rifondazione" un linguaggio 
      architettonico? non nasce il sospetto che bisogna percorrere un cammino 
      diverso, partendo proprio dall'esperienza storico-linguistica, dalle sette 
      invarianti gi mordenti e incisive nella critica e nella progettazione? 
      Se davvero contengono "errori", li correggeremo; occorre per indicarli. 
      Se invece non li contengono, ma la semiologia non riesce ancora ad inquadrare 
      queste invarianti nei suoi disegni teorici, l'impasse riguarda i semiologi 
      i cui strumenti e meccanismi mentali non sono capaci di decifrare una realt 
      pulsante da milleni: quella del linguaggio anticlassico dell'architettura.
 
 Bruno Zevi
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