Sabato fascista e 11 settembre, simbolo e memoria
di Paolo G.L. Ferrara
- 27/2/2004

Steven Holl sulla casa del Fascio di Terragni. Giancarlo De Carlo sul nuovo World
Trade Center di Libeskind.
Su Domus 867 si mettono in gioco i significati dell’architettura, significati
che scaturiscono da approcci apparentemente distanti ma che inquadrano lo stesso
obiettivo, ovvero quello del peso della memoria sull’architettura, sino a
trasformarla in simbolo.
De Carlo non nasconde le critiche a Libeskind: “[...] Poiché l’architettura
finisce sempre con l’esprimere i contenuti dei contesti che la generano,
quali sono i contenuti che emergono dai lazzi e fronzoli del progetto per Ground
Zero?”.
Steven Holl, sei pagine prima, a proposito della Casa del fascio: “Nel
cercare di rappresentare l’influenza crescente del governo fascista italiano
negli anni precedenti la sanguinosa tragedia della Seconda Guerra Mondiale, questo
edificio radicale metteva il proprio significato politico davanti a tutto. Ma
oggi, 68 anni dopo, la distanza temporale permette alle sue rilevanti qualità
spaziali di emergere in un silenzio tragico e senza parole”.
In sintesi, Casa del Fascio e nuovo WTC identificano l’architettura con il
potere di regime, sia esso imperniato sulla gestione totalitaria del potere politico,
che su quella del potere economico.
L’opera di Terragni, secondo Steven Holl, spogliandosi dei contenuti politici
ha potuto purificarsi riproponendosi così esclusivamente per quelli architettonici,
che ne erano sopraffatti e che solo successivamente hanno potuto esprimersi: “Quando
la funzione e il programma originario dell’edificio sono scomparsi dalla
scena, tutti gli elementi divengono parti indistinte di storie complesse e i fenomeni
dello spazio, quelli del dettaglio e della luce [...] emergono con un nuovo, muto
vigore”.
L’architettura che verrà del WTC, secondo De Carlo, sta nascendo sulle
ceneri di un cambiamento che non c’è stato, ovvero quello del “...sistema
dominante occidentale” che in merito all’architettura “...sembrava
diventato incapace di proporle scopi; se non quello di estraniarsi in un simbolismo
fatuo per celebrare non le aspettative e le glorie delle società umane,
ma le sue merci e i suoi mercati”.
Gli spunti sono molti, non tutti condivisibili. I contenuti che Steven Holl rintraccia
nella Casa del fascio solo dopo l’essersi purificata dal fascismo appaiono
inconsistenti, nel senso che i contenuti li ha sempre avuti a prescindere dalla
committenza che ne volle la realizzazione e appare davvero riduttivo che Holl
li riponga esclusivamente nel “significato politico”, se è
vero che Terragni volle in primo luogo esprimere la nuova tendenza culturale figlia
delle teorizzazioni di Le Corbusier. Inutile ricordare il sillogismo in cui s’imbatterono
gli architetti durante il ventennio fascista, soprattutto nella prima metà
della durata del regime. L’obiettivo di potere unire la nuova architettura
alla nuova ideologia fu paradossalmente il motore che spinse Terragni verso un
linguaggio che esprimesse “lo spirito nuovo” auspicato da Le
Corbusier. Né si può tacciare l’architettura razionalista italiana
di dipendenza dal potere fascista solo perché Mussolini sembrò appoggiarne
i contenuti, così come sembrava dimostrare la frase esposta all’ingresso
della mostra del Miar “Noi dobbiamo creare un nuovo patrimonio da porre
accanto a quello antico, dobbiamo crearci un’arte nuove, un arte dei nostri
tempi, un’arte fascista”. Non a caso, nello stesso 1931, il tema
del ruolo dell’architettura all’interno dello Stato fascista divenne
centrale, grazie soprattutto agli scritti di Pietro Maria Bardi sulle pagine de
“L’Ambrosiano”. E pur se assolutamente orientato a creare
comunanza tra nuova architettura e fascismo, Bardi rimarcava che dovesse essere
lo Stato a farsi garante della “nuova coscienza artistica italiana”.
Una coscienza artistica che già Piacentini aveva messo in evidenza anni
prima, abbandonando poi tale posizione per piegarsi alle logiche di partito che
volevano un’architettura enfatica e di rappresentanza, ovvero proprio tutto
il contrario della Casa del fascio.
Non è dunque stato il trascorrere del tempo ad avere fatto emergere le
“...qualità spaziali, l’intensità e la compressione
di questo capolavoro”. L’architettura di Terragni cercava il riscatto
verso un passato che ancorava a sé la cultura italiana mentre il resto
della cultura europea si evolveva verso l’espressività di nuovi linguaggi
architettonici legati a filo doppio alle nuove istanze sociali, quelle stesse
che il Fascismo sembrò volere, all’inizio, soddisfare.
Il ruolo dei giovani razionalisti va decontestualizzato totalmente dalle aspirazioni
del regime, che non può quindi essere configurato quale motore della ricerca
architettonica. Al proposito, è chiarificatore il pensiero di Bruno Zevi:
“Il miraggio di redimere il fascismo attraverso l’arte, strappando
all’accademia qualche lavoro, la Stazione di Firenze, Sabaudia, gli edifici
di Como, potevano nutrirlo solo i giovani razionalisti, ma crollava, con evidenza
sempre più clamorosa, alla prova della realtà. Un fenomeno più
grave, squallido, quasi incomprensibile veniva contemporaneamente alla luce: non
solo l’arte non fomentava la rivoluzione, ma la rivoluzione non aveva affatto
bisogno dell’arte. Il modello sovietico lo attestava con chiarezza implacabile:
aveva eliminato dalla scena i costruttivisti e i suprematisti”. E ancora:
“Assimilando il linguaggio europeo, egli [Terragni] affermò un’inalienabile
diritto culturale e dimostrò come fosse posssibile legarlo, in polemica
funzione dialettica, alla nostra tradizione [...] La Casa del fascio significò
una proposta intellettuale ed insieme un gesto altamente creativo, perché
contribuì, con un apporto originalissimo, alla nuova tradizione artistica
che faticosamente si andava edificando nel continente. Di più: ebbe un
rilievo fondamentale nel quadro etico dell’architettura italiana. Una Casa
del fascio, ma senza torre, arengario, portali immensi [...]”.
L’intervento di Steven Holl avrebbe dovuto puntare su questi significati
e su quelli che l’opera rappresenta rispetto la rilettura del razionalismo
italiano, a prescindere dalla sua collocazione o meno tra i momenti fondamentali
del progresso del pensiero architettonico europeo, rivisitandolo piuttosto rispetto
la sua contestualità nell’epoca politica in cui nacque e si propagò.
La Casa del fascio non è dunque né simbolo né memoria, ma
più semplicemente un dato dell’architettura e della sua storia, un’opera
che andava, e va, oltre qualsivoglia rappresentazione dei significati politici
del suo tempo. In caso contrario, la Casa del fascio avrebbe incarnato il “simbolismo
fatuo per celebrare non le aspettative e le glorie delle società umane,
ma le sue merci e i suoi mercati”, ovvero quanto De Carlo afferma in
riferimento al decadimento dell’architettura che si è verificato negli
ultimi decenni del XX secolo.
"Simbolismo fatuo" di cui erano assoluto riferimento proprio
le Twin Towers, nel cui abbattimento De Carlo identifica la possibilità
di un grande cambiamento che avrebbe riportato l’architettura a celebrare
le aspettative della società umana. La nobile aspettativa di De Carlo appare
però fuori luogo perché l’input al cambiamento non è
certo concepibile poterlo avere da New York. Non a caso sono messi in vetrina
gli interessi commerciali che l’area del Ground Zero rappresenta e con essi,
di conseguenza, il progetto di Daniel Libeskind, che De Carlo ci descrive quale
“congerie di luoghi comuni assurti a simboli clamorosi”.
Per dimostrarlo, De Carlo porta i paragoni del Woolworth Building (1913) e del
Chrysler Building (1931), edifici simbolo di una New York a sua volta simbolo
dello sdoganamento internazionale (Woolworth) e della rinascita economica (Chrysler)
degli Stai Uniti dopo la crisi del 1929.
Indubbio che l’aspetto commerciale di Ground Zero sia la principale variabile
a cui hanno fatto riferimento proprietari e progettisti (L'architettura
va alla guerra) ma lo stesso discorso vale esattamente sia per il Woolworth
Building e per il suo successore quale edificio più alto di NY, appunto
il Chrysler Building.
Entrambi erano difatti tutt’altro che simbolo di un’architettura che
avesse “...uno scopo di portata umana e sociale”, e non credo
si possa leggerli quali esempi di “qualità di spazi architettonici”
essendo entrambi veri e propri simboli di un capitalismo tipicamente statunitsense
che ha sempre fatto del massimo sfruttamento dei metri cubi il proprio credo architettonico,
di cui anche Gropius e Mies van Der Rohe ne fecero le spese. Non a caso il Woolworth
è soprannominato la "cattedrale del commercio", proprio
perché alla funzione commerciale univa l’immagine neo-gotica tipica
delle chiese dell’epoca edificate a New York, mentre il Chrysler coniuga
l' aspirazione alla modernità, identificata con la tecnologia strutturale
tesa a superare altezze mai viste, con i precetti Art Déco che William
Van Alen aveva appreso dell'École des Beaux-Arts di Parigi, il tutto usato
per dare all’edificio l’aspetto tipico dei radiatori e della calandra
delle automobili dell’epoca.
De Carlo afferma che, nonostante gli stilemi neo gotici, a proposito del Chrysler
“...nulla poteva suscitare più cultura della sua stessa edificazione:
sfida di speranza, ottimismo e energia creativa di un paese contraddittorio ma
animato da incrollabile fede nel futuro”. Indubbio, ma una fede basata
proprio sulla speculazione commerciale tanto quanto lo erano te Twin Towers e
tanto quanto lo saranno quelle del progetto Libeskind. Cercare di conferire ai
due edifici degli inizi del XX secolo determinati significati legati alla democrazia
americana che bacia tutti e che lavora per tutti guidata dal filantropismo di
magnati benefattori è riduttivo, oltre che anacronistico.
Per un’architettura che ha superato i 68 anni e per una che deve ancora nascere
possiamo tracciare un destino comune, ovvero quelle di essere entrambe simbolo
di un potere? Possiamo credere che anche l’architettura di Libeskind potrà
un giorno purificarsi?
Il quesito è retorico e banale, sicuro, il che significa anche che le aspirazioni
al rinnovamento del processo architettonico non possono certo avere la pretesa
di partire da New York, per eccellenza simbolo di un capitalismo a cui De Carlo
non ha mai fatto riferimento positivo durante il suo, ancora attuale, impegno
civile in architettura. Del resto, la XIV Triennale del 1968 (quella che Domus
ci ha ricordato nella copertina del n.866) rappresentava proprio le contraddizioni
della metropoli, e molto importa che in quel caso la si identificasse quale luogo
squallido, sovraffollato. Importa considerare il significato del “grande
numero” che anche allora rappresentava le problematiche che la trasformazione
del mondo stava subendo. L'installazione di De Carlo era dedicata alla “Protesta
dei giovani” e si esprimeva attraverso un cumulo di macerie di beni consumistici,
con lo sfondo di una manifestazione popolare. Era il consumismo che arrivava dritto
dagli Stati Uniti, sì assenti alla XIV Triennale ma di fatto messi sul
banco degli imputati, pur senza il confronto con la controparte dei Paesi del
Terzo Mondo, totalmente assenti anche essi dalla suddetta Triennale.
Alla luce di ciò, appare piuttosto chiaro che l’attacco a Libeskind
debba ridursi nel rifiuto da parte di De Carlo di un linguaggio che sta avendo
il suo apice proprio nella nostra contemporaneità, un linguaggio che ha
perso qualsivoglia riferimento formale del passato, anche quello più recente.
Ma anche un linguaggio che mostra i propri limiti, il che ne rende comunque legittimo
l’esistere, nel senso che non si pone quale dogma bensì oggetto di
assoluta contraddizione come nel caso specifico di Ground Zero, scelta tipicamente
americana, senza memoria, rimossa immediatamente, tanto quanto il Chrysler che,
attraverso la sua imponenza e il suo essere simbolo di un mercato specifico, rimuoveva
la realtà di una recessione economica che stava mettendo in ginocchio la
popolazione.
La logica della memoria da rimuovere è d’altronde insita in quello
che De Carlo chiama il “proposito finale” dell’orgoglio
nazionale degli americani, che vedrà la guglia più alta del progetto
Libeskind raggiungere i 1.776 piedi, numericamente l’anno della dichiarazione
d’Indipendenza, che dopo l’11 settembre gli Usa vogliono rivivere.
Opinabile all’infinito, il progetto di Libeskind sarà metabolizzato
da New York tanto quanto lo sarebbe stato un altro, tanto quanto lo furono le
Twin Towers. Quello che New York non avrebbe mai voluto e potuto metabolizzare
-così come mi suggerisce Daniele Antonioli- sarebbe stato proprio il segno
della memoria, il cratere, le macerie. E’ questo su cui dovremmo riflettere
ed è per questo che non regge il confronto Van Alen-Chrysler / Libeskind-Ground
Zero: sono esattamente la stessa cosa.
Casa del Fascio e Ground Zero, l’una rivalutata dopo esserci stata, l’altra
svalutata ancora prima di esserci. Dove? nella storia e in tutto ciò che
unisce e divide inesorabilmente evento storico e evento architettonico che ne
rappresenta, quale simbolo, la memoria.
Il sabato fascista è passato ma Terragni c’è. L’11 settembre
è passato ma New York c’è. L’uno e l’altra con le
loro contraddizioni, che poi sono simbolo e memoria, e contemporaneità.
(Paolo G.L. Ferrara
- 27/2/2004)
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Commento 718 di Olga Cambiaghi del 15/04/2004
Interessante e provocatorio, oppure di buon spunto riflessivo ciò che lei scrive; il dialogo con l'architettura, ciò che essa rappresenta, ma soprattutto ciò che gli architetti rappresentano con tratti di pietra così pesanti da reggere ogni qualvolta ne producono mezzo, lascia molti intendimenti al pensiero e all'osservazione.
Compresa la sua osservazione sulla presenza di Portoghesi a Como, ma il luogo politico (la scelta...) non poteva che andare in quella direzione.
Continui e io continuerò a leggerla.
Ovvio che questo commento non affonda radici nella critica all'architettura, ma ha per ora un tono di lettura.
Commento 7368 di giulio pane del 23/07/2009
Caro Ferrara,
leggo il suo non più nuovo articolo e m'incuriosisce la citazione del puntuale giudizio di Zevi ('Il miraggio...'), ma non vi trovo indicazioni bibliografiche, e neppure mi riesce di rintracciare quel periodo negli scritti di lui.
Vuole essere così cortese da darmi qualche riferimento, se le è ancora possibile? Grazie.
23/7/2009 - Paolo g.l. ferrara risponde a giulio pane
Caro Pane, Zevi ne parla a proposito di un convegno del 1968 sulla figura di Terragni. Il testo è tratto dall'articolo "La qualità come disobbedienza civile", pubblicato in "Cronache di architettura" (Raccolta di moltissimi articoli scritti tra il 1954 e il 1981), volume n.13, articolo n. 730, pag. 112.
Comunque sia, la Sua osservazione sarà per me d'insegnamento nell'inserire sempre i riferimenti bibliografici.
Anzi, colgo l'occasione per scusarmi con i lettori di questa mia leggerezza.
Cordialità
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