Attacco a Uruk
di la Redazione
- 19/3/2003

La scoperta della scrittura fece uscire l’uomo dall’età preistorica.
Da quel che sappiamo, le prime tavolette su cui fu scritto risalgono al Quarto millennio A.C., e sono state scoperte nell’attuale territorio Iracheno, precisamente nel sito archeologico della città di Uruk (oggi conosciuta come Warka). Dai pittogrammi, sistema di simboli e figure, nacque la scrittura cuneiforme sumerica e, da lì, la nostra possibilità di comunicare attraverso la scrittura.
Uruk rappresenta anche il modello del primo agglomerato urbano, a cui si diedero ordinamenti che stanno alla base di quella che sarà poi la formazione del primo stato. Enmerkar, sovrano di Uruk, ebbe un'intuizione fondamentale per il diffondersi e l'interagire delle diverse civiltà: mettere per iscritto i propri pensieri per poterli trasmettere alle altre genti, quelle con cui la popolazione di Uruk iniziò ad intessere rapporti d’interscambio commerciale. Fu così che, nell’arco di un secolo, Uruk ebbe la prima biblioteca.
Dalle tavolette di Uruk alle pagine web trascorrono seimila anni, che tutti vogliamo credere siano stati portatori, passo dopo passo, di civiltà.
Certo, forse siamo apparentemente più “civili” perchè comunichiamo con tastiera e schermo, ed in tempo reale. Siamo forse più civili perchè attingiamo facilmente all’intelligenza di chiunque, sia essa scientifica, letteraria, artistica. Conosciamo la storia e tutto quello che i grandi uomini hanno pensato e realizzato con grande dispendio di energie per darci una vita sempre più comoda e stimolante. Ma irreale. Sì, proprio “irreale”, ovvero che noi non governiamo, ma di cui siamo assoluti succubi.
George W. Bush attaccherà l’Iraq e trascinerà il mondo nell’ennesima guerra. Attaccherà il territorio in cui sorse Uruk, culla della scrittura, della comunicazione, dell’interscambio culturale.
Antithesi non è con Bush, e non certo perchè è con Saddam.
La nostra forma di boicottaggio alla guerra che sta per arrivare sarà il silenzio. Per almeno un mese non pubblicheremo più alcun articolo sull’architettura. Antithesi si trasformerà in un notiziario giornaliero sulla guerra (i link nella sezione SEGNALAZIONI).
Molti lettori non saranno d’accordo, e per diversi motivi, non ultimo quello che il silenzio non serve. Forse è vero, ma noi abbiamo già esposto le nostre opinioni sui conflitti ed il loro rapporto con l’architettura (vedi articoli quali “Speer a Kabul” ed altri).
Altri lettori potrebbero ricordarci che le guerre ci sono continuamente e che, dunque, se ci si dovesse fermare per protesta, lo si dovrebbe fare sempre. Vero, difatti non è detto che la scelta del silenzio non sia più lunga del previsto. Se ciò avvenisse, antiTHeSi morirebbe, perchè un sito web funziona solo se lo fa in tempo reale e perchè oggi la nostra civiltà ci chiede di potere usufruire immediatamente dei suoi prodigi. Ma una civiltà -che tale possa dirsi- non dovrebbe in prima istanza richiedere il prodigio della pace, del buonsenso?
Sandro Lazier . Paolo GL Ferrara . Roberta Russo
(la Redazione
- 19/3/2003)
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Commento 300 di Fausto D'organ del 19/03/2003
CI SONO UNA QUINDICINA DI GUERRE IN QUESTO MOMENTO SUL NOSTRO PIANETA. E' QUESTA UNA CERTEZZA LATENTE NEL NOSTRO QUOTIDIANO AFFOGATO D'IMPEGNI ED IPERTESO: POCHI DI NOI UTILIZZANO QUALCHE SECONDO DELLA GIORNATA PER PENSARCI. VIVIAMO NEL DANNO CHE INCONSAPEVOLI PROVOCHIAMO IN QUANTO ESSERI UMANI: UN DANNO POLIMORFICO E INARRESTABILE; UN GRIGIORE PERENNE CHE CI COPRE LA VITA. VITA CHE SCORRE INQUINATA. VITA CHE E' OPACIZZATA DA MILIONI DI CARCASSE DI ERRORI E DELITTI... ANTITHESI, TRA LE TANTE, SAREBBE LA CARCASSA MENO IMPORTANTE; SAREBBE LA VITTIMA ARBITRARIA MENO PREZIOSA.
UNA LEGGERA E MOMENTANEA AMAREZZA MI COGLIEREBBE, MA, SAREBBE IL TEMPO DI UN CLIC. LE AMAREZZE CHE INTORPIDISCONO LO SPIRITO SARANNO PER NOI TUTTI, SEMPRE E COMUNQUE, ALTRE.
LUNGA VITA AGLI ANTITHESIANI.
Commento 301 di Carlo Sarno del 22/03/2003
Papa Giovanni Paolo II
"Mai più la guerra, Signore"
-Preghiera per la Pace -
Dio dei nostri padri,
grande e misericordioso,
Signore della pace e della vita,
Padre di tutti.
Tu hai progetti di pace
non di afflizione,
condanni le guerre
e abbatti l'orgoglio dei violenti.
Tu hai inviato il tuo figlio Gesù
ad annunziare la pace
ai vicini e ai lontani,
a riunire gli uomini
di ogni razza e di ogni stirpe
in una sola famiglia.
Ascolta il grido unanime dei tuoi figli,
supplica accorata di tutta l'umanità:
mai più la guerra,
avventura senza ritorno,
mai più la guerra,
spirale di lutti e di violenza,
minaccia per le tue creature
in cielo, in terra e in mare.
In comunione con Maria,
la madre di Gesù
ancora ti supplichiamo:
parla ai cuori dei responsabili
delle sorti dei popoli,
ferma la logica della ritorsione
e della vendetta,
suggerisci con il tuo Spirito
soluzioni nuove,
gesti generosi e onorevoli,
spazi di dialogo e di paziente attesa
più feconde delle affrettate scadenze
della guerra.
Concedi al nostro tempo
giorni di pace.
Mai più la guerra. Amen.
Commento 302 di Bob Dylan del 26/03/2003
Venite voi signori della Guerra
Voi che costruite tutte le armi
Voi che costruite gli aeroplani che portano la morte
Voi che costruite le grosse bombe
Voi che vi nascondete dietro a spessi muri
Voi che vi nascondete dietro alle scrivanie
Io riesco a vedere oltre le vostre maschere
Non avete fatto mai nulla
Tranne che costruire per distruggere
Voi giocate con il mio mondo
Come se fosse il vostro giocattolino
Voi mi mettete in mano una pistola
E vi nascondete perche’ non vi veda
E correte piu’ lontano
Quando volano gli ultimi proiettili
Come Giuda
Voi mentite e dissimulate
Una Guerra mondiale non puo’ mai essere vinta
Ma voi volete che io ci creda
Ma io vedo attraverso I vostri occhi
E vedo nel vostro cervello
Cosi come vedo attraverso l’acqua
Che corre via dal mio lavandino
Voi preparate I grilletti
Perche’ qualcun altro spari
Poi vi sedete e state a guardare
Quando il conto dei morti cresce
Vi nascondete nelle vostre tenute
Mentre il sangue dei giovani
Scorre dai loro corpi
E e’ sepolto nel fango
Voi avete sollevato la paura peggiore
Che non puo’ mai essere scacciata
La paura di mettere dei figli
Al mondo
Per aver spaventato il mio bambino
Mai nato e senza nome
Voi non valete
Il sangue che scorre nelle vostre vene
Cosa so io
Per parlare cosi’
Direte che sono giovane
Direte che sono uno stolto
Ma c’e’ una cosa che so
Per quanto io sia piu’ giovane di voi
Neppure Gesu’
Perdonerebbe mai quello che voi fate
Lasciate che vi chieda una cosa
Vi piace davvero cosi’ tanto il vostro denaro?
Vi comprera’ il perdono?
Pensate davvero che potrebbe?
Credo scoprirete
Che quando la morte riscuotera’ il suo tributo
Con tutti I soldi che avete fatto
Non riuscirete a ricomprarvi l’anima
E spero che voi muoriate
Spero che muoriate presto
Io seguiro’ la vostra bara
Nel pallido pomeriggio
Vi guardero’ mentre verrete calati
Nella vostra fossa
E staro’ sulla vostra tomba
Finche’ non saro’ certo che siate
Morti.
Titotlo originale: Masters of War
Bob Dylan, "The freewheelin' Bob Dylan", 1963
Commento 303 di Pierluigi Di Baccio del 04/03/2003
L'Iraq al centro della crisi mondiale: per farla finita con il mondo arabo.
(di Selim Nassib)
Quali che siano i pretesti addotti dall'America per attaccare l'Iraq (e per instaurare sullo slancio «la democrazia nella regione»), questa guerra è possibile soltanto a causa delle condizioni deplorevoli del mondo arabo. È caduto il muro di Berlino, l'Unione sovietica è solo un lontano ricordo, il pianeta è entrato in una nuova era, ma il mondo arabo rimane disperatamente uguale a se stesso. Che i regimi dispotici vi siano largamente dominanti, non ha nulla di particolarmente originale. Altre regioni del pianeta hanno vissuto periodi più o meno prolungati di tirannia. Ma qui gli anni passano senza che le società arabe generino nel loro seno movimenti di massa a favore della libertà, della democrazia, della modernità. Monarchie anacronistiche e regimi militari più o meno camuffati continuano ad occupare il potere, incontrando come unica opposizione consistente i movimenti di ispirazione islamista. L'unica libertà di scelta che sembrano avere gli arabi è quella fra diverse forme di oppressione.
In Occidente, alcuni traggono la conclusione che l'islam in quanto tale contenga un germe anti-democratico, e come prove d'appoggio si citano alcuni versetti del Corano. Secondo questa atmosfera, che va ben oltre gli ambienti razzisti, «l'arretratezza» degli arabi sarebbe dovuta agli arabi stessi, alla loro mentalità, alla religione che hanno inventato e diffuso, alla loro mancanza di cultura politica, e via dicendo. A tutto questo gli arabi ribattono che loro non c'entrano per niente, e che è stato l'Occidente (il colonialismo, l'imperialismo, Israele) ad averli cacciati deliberatamente dalla modernità. Anche loro offrono frasi liberticide, tratte però dalla Bibbia e dai Vangeli, facendo capire che le crociate e l'inquisizione non erano poi tanto diverse dall'islamismo attuale. Soprattutto ricordano che, nel suo periodo aureo in Andalusia, l'impero arabo era stato un modello incomparabile di tolleranza, di scienza e di cultura. Fine del discorso.
Ma che sia colpa loro, colpa degli altri, o un po' l'una e l'altra cosa è comunque essenziale rispondere a questo interrogativo: perché gli arabi da tanto tempo danno l'impressione di essere rinchiusi nel loro (glorioso) passato, e di non poter accedere al tempo presente?
È un problema tutt'altro che retorico, visto che minaccia la pace del mondo. Qualche mese fa un quotidiano francese pubblicava l'articolo di un esperto americano, che affermava che il pianeta non poteva tollerare più a lungo la paralisi della sua principale regione petrolifera.
Prevedeva che questa situazione di squilibrio sarebbe diventata inevitabilmente esplosiva e che l'Europa, di conseguenza, avrebbe dovuto riorientare la sua strategia militare per dotarsi dei mezzi necessari per intervenire nel mondo arabo. Confusamente, il presidente George W. Bush sta mettendo in pratica questa teoria, ma a titolo «preventivo» (cioè sparando lui per primo).
In uno dei suoi video, Osama bin Laden affermava, con un giro di frase passato inosservato, che il mondo arabo era in declino «da ottant'anni». Perché ottant'anni? Basta un rapido calcolo: risaliamo all'inizio degli anni '20, alla fine della prima guerra mondiale, al crollo dell'impero ottomano, all'intervento di inglesi e francesi nella regione. A quel tempo gli arabi erano usciti da quattro secoli di tutela turca, per essere ormai governati dagli infedeli. Il che spiega l'osservazione di bin Laden: non c'è salvezza al di fuori del governo musulmano (il califfato).
Ma, a prescindere da quel che pensa tale individuo, gli arabi hanno digerito molto male quel passaggio da un'epoca all'altra. Prima vivevano, pensavano, andavano e venivano in uno spazio arabo senza frontiere, integrato all'impero ottomano. Il loro sovrano poteva ben dire di essere musulmano, ma era straniero, turco; il che era piuttosto umiliante per una comunità che aveva una così elevata idea del proprio passato e della propria identità. E tuttavia, la comunità araba si adattava a tale dominio. La Sublime Porta (un bel nome, a metà tra il secolare e il trascendentale) poteva anche, eventualmente, dar prova di grande crudeltà, ma aveva comunque il merito di lasciare in pace i suoi sudditi, e di lasciare che gestissero da sé i loro affari, purché gli fornissero in contropartita uomini e denaro. Una volta pagate le imposte e inviati i figli nell'esercito, gli arabi di Beirut, di Damasco o di Gerusalemme erano a posto, più o meno. Il potere politico risiedeva altrove, non dovevano preoccuparsene loro. Raggruppati in famiglie, clan, comunità, regioni, alleanze, erano arabi di Palestina, del Libano, della Siria, senza che il loro «paese» d'origine costituisse per loro una nazionalità. Gli intellettuali arabi, da parte loro, erano consapevoli che l'impero ottomano declinava irrimediabilmente, a tutto vantaggio di un Occidente dalla superiorità e dalla bramosia quanto mai manifeste. Per raccogliere la sfida avevano avviato, fin dalla fine del XIX secolo, un grande movimento di rinascita culturale e politica, la Nahda, in cui si fondeva la volontà di riformare l'islam, di trasformare la società e di ritrovare le fonti vive che avrebbero finalmente permesso agli arabi di far parte del mondo moderno. In termini politici, finalmente tutto ciò si traduceva nella necessità di liberarsi del dominio ottomano.
Stante che tale emancipazione non poteva avvenire sotto il vessillo dell'Islam (in quanto l'impero turco era anch'esso musulmano), doveva necessariamente avvenire in nome di un nazionalismo arabo in gestazione, che radunasse musulmani, cristiani e laici.
Abilmente manovrato dagli inglesi (tramite Lawrence d'Arabia) e dai francesi, questo desiderio d'indipendenza si rivelò abbastanza forte da far sollevare gli arabi al momento giusto contro i loro padroni musulmani, contribuendo alla caduta dell'impero ottomano. Ma il grande stato arabo indipendente promesso come contropartita, con tutta evidenza, non è arrivato puntuale all'appuntamento, e la Gran Bretagna ha aggravato la situazione promettendo di favorire la creazione di una «patria» nazionale ebraica in Palestina. Raggirati, vinti, feriti, gli arabi si sono messi in cammino verso la modernità tanto agognata, carichi di amarezza.
Ben presto, sono state tracciate frontiere sulle loro terre, sono stati creati paesi diversi. Hanno dovuto abbandonare la loro rappresentazione di se stessi, quella di sudditi di un sovrano, per accoglierne un'altra, quella di cittadini di uno stato-nazione (sotto mandato britannico o francese). Perché il mandato? Ufficialmente per guidare per mano questi giovani paesi all'indipendenza loro promessa, per formarli, inquadrarli, dar loro istituzioni democratiche e farli entrare gradualmente nel tempo moderno.
Dalla «Nahda» alla «Nakba» Anche in un quadro così frammentario e restrittivo, il vento sollevato dalla Nahda continua ancora a soffiare. Saad Zaghlul, modernista e liberale, «padre» dell'indipendenza egiziana, inquadrava formalmente la sua azione in tale contesto. Negli anni '20, il grande scrittore egiziano Taha Hussein osservava che Oriente e Occidente erano due rami di un medesimo tronco: la civiltà greca. Grazie all'Andalusia araba, questa eredità era arrivata fino all'Occidente, che si era sviluppato abbeverandosi alle sue fonti. In compenso, il ramo orientale non aveva potuto crescere, a causa dell'occupazione straniera (turca e britannica) e adesso il mondo arabo doveva recuperare il tempo perduto e procedere a tappe forzate verso un modernismo d'Oriente in grado di proporsi come partner del modernismo occidentale.
Non tutti erano d'accordo con Taha Hussein: vi era anche chi riteneva che la Nahda, il Rinascimento arabo, implicasse un ritorno alla lettura più rigorosa dell'islam. Ma l'interpretazione progressista era quella dominante. Nel complesso, il mondo arabo si mostrava particolarmente desideroso di integrarsi nel mondo.
I motivi per cui non è riuscito a farlo sono certamente molti e diversi.
Ma il motivo privilegiato dagli arabi è stato la «homeland nazionale ebraica», il progetto britannico integrato dalla Società delle nazioni al mandato della Gran Bretagna sulla Palestina. Israele non era ancora stato creato, e già la sua realtà virtuale era una rivale fatale presso l'Occidente tanto amato. Era necessario vestirsi, coltivarsi, votare, sottoporsi ad assemblee elette, rispettare il diritto come in Europa (alla quale ci si diceva tanto vicini) e nello stesso tempo bisognava subire senza batter ciglio (sotto la guida di dirigenti più o meno venduti ai britannici) quel che si presentava come la scandalosa negazione del diritto e una spoliazione rampante della Palestina.
Nel 1948, allorché viene proclamato lo stato di Israele, gli arabi hanno l'impressione di essere spinti per l'ennesima volta fuori dal mondo. Il vergognoso compromesso firmato con Hitler da Hadi Amin el-Husseini, allora leader dei palestinesi durante la seconda guerra mondiale, li ha completamente screditati. In tale contesto, tutte le simpatie e il senso di colpa internazionali sono andate naturalmente agli sventurati superstiti dell'Olocausto, e non è rimasto nulla alla popolazione palestinese, i tre quarti della quale erano stati praticamente costretti all'esilio per effetto della nascita di Israele.
All'antico risentimento arabo di essere stati ingannati all'indomani della prima guerra mondiale, si è aggiunto allora un risentimento ancora più bruciante. Partito dalla Nahda, il Rinascimento, il primo grande tentativo arabo di far parte del mondo, si è spezzato i denti sulla Nakba, la catastrofe palestinese.
È stato un terremoto che nel giro di dieci anni ha spazzato via la maggior parte dei regimi e delle monarchie del tempo, ritenuti responsabili della sconfitta della Palestina. Il punto di partenza è stato l'Egitto, paese in cui la rivoluzione fa salire al poter
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