Belli e/o brutti (milanesi)
di Maurizio De Caro
- 16/3/2004

L'impatto che l'architettura e l'arredo urbano hanno sull'immaginario collettivo
è di gran lunga molto più influente dell'interesse che le stesse
discipline producono nei confronti della società.
Vi ricordate i lampioni "con le palle" di corso Sempione? Opera stanca
di un maestro scomparso prematuramente fanno "bella mostra" di sé
in un contesto talmente angosciante che popolazioni e amministrazioni vogliono
ricostruire "il prima-brutto" rispetto ad un "progetto-bello"
che è piaciuto solo al progettista.
Ricordate il Cubo-monumento di Aldo Rossi in via Montenapoleone preso a martellate
dallo sdegno popolare.
Piazze improbabili, giardini metafisici aggrediti da arredi provinciali corredati
da lampioni imbarazzanti come nell'insuperabile anti-design di corso Lodi dove
steli curvi bicolori giallo-rossi manifestano tutta la loro inadeguatezza per
lo spasso degli studenti di architettura che li hanno eletti ad unità
di misura dell'orribile assoluto.
Il colpevole di tanta indifferenza estetica tace.
Continuate, comunque, fatevi un giro nelle faraoniche sedi dei consigli di Zona
(alcune più grandi del municipio di New York) monumenti-caserme alla
potenza effervescente degli anni '80.
Il moderno, il contemporaneo ovunque nella nostra città è spesso
l'espressione dell'aleatorietà indifferente, priva di fascino, incapace
di imporsi sull'antico, non rappresenta il gusto non stimola: opprime.
Piazza Cadorna rinasce (ma chiamarla piazza invece di slargo autostradale è
riduttivo) come affermazione di un gigantesco ego progettuale rispetto all'umile
soluzione di un nodo viabilistico fondamentale avrebbe richiesto. Affidato a
professionisti assolutamente poco adusi a confrontarsi con i problemi reali
delle città e ad artisti ormai decotti muore prima di nascere perché
sotto le ingombranti tettoie c'è la finzione del moderno. La gente protesta
e sopporta.
Altre piazze ammuffiscono tra i detriti (porta Genova vi porterà direttamente
nell'interno dell'India), sottotetti che diventano parti fondamentali di palazzi
storici e luci a cascata ovunque per togliere la città dalle tenebre,
nei parchi, nelle piccole strade a dispetto della qualità dell'ombra
che dovrebbe avvolgere parti monumentali, il brutto indifferenziato avanza inesorabile
annientando qualsiasi slancio creativo.
In questa rinuncia annunciata la pubblicità riveste come una pelle ogni
centimetro disponibile del territorio urbano con un campionario di striscioni,
cartelloni, stendardi e varie amenità. La reclame impacchetta il palazzo/cantiere
che diventa soltanto una stupida insegna per i consigli per gli acquisti.
Capolavori liberty come il diurno di piazza Oberdan franano nell'indifferenza
di una macchina amministrativa che ha scelto la mediocrità rassicurante
dell'ovvio, che non riesce ad aprire un confronto serio sul suo destino della
sua identità, sulla sua vocazione, perennemente coperta dall'ansia delle
eccellenze (Scala, Moda ,musei e bla, bla, bla) che risalgono sempre a qualche
decennio o secolo fa. Ma il Futurismo e i movimenti dell'ultimo secolo, che
hanno fatto di Milano una capitale mondiale dell'arte, dove sono? Chi nasconde
la grande passione creativa sotto l'algida mano del consenso, dell'auto-celebrazione,
di questo credere che comunque il capitale poi comunque farà la differenza.
Non è così e ormai lo sanno anche quelli che continuano a non
capire che bisogna liberare il talento di questa grande città, rischiare
,riscoprire il piacere eccitante dell'azzardo (anche se chi deve "fare"
è curiosamente lontano dalle nostre idee e quindi è nemico, opposizione).
A proposito di curiosità perché un famoso ristorante vicino alla
Darsena possiede un pezzo di giardino pubblico, una fetta di piazza? E' normale,
è lecito?
Ripartiamo da queste domande semplici, aspettando risposte credibili, forse
così potremo dare al moderno una dignità e alla città il
godimento estetico non come eccezione ma come normalità, perché
il concetto di bello non può essere disgiunto da quello di giusto. Allora
quel giardino….
(Maurizio De Caro
- 16/3/2004)
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Commento 697 di Andrea Pacciani del 18/03/2004
Ineccepibile la diagnosi delle schifezze meneghine, deludenti le conclusioni.
Ci si vuole rendere conto che questi prodotto sono proprio il risultato del "rischiare ,riscoprire il piacere eccitante dell'azzardo" di architetti vanesi e autorefernziali?
E' una questione di metodo; o lasciamo a tutti i progettisti questa velleità e ci teniamo i risultati delle opere scadenti senza lamentarci, o cambiamo metodo.
Non mi stancherò mai di dire che la storia dell'architettura ci insegna che questa viene realizzata per pochi edifici da grandi maestri e mentre la quasi totalità della città è progettata da epigoni di questi più o meno distanti e capaci; ieri era così, oggi è così, domani lo sarà ancora; perciò basta con questo falso moralismo di distinzione tra gli architetti bravi e quelli scarsi venduti al soldo delle imprese speculatrici.
"il godimento estetico non come eccezione ma come normalità" non appartiene alla cultura della modernità, come ci hanno insegnato dal futurismo in poi, semmai alla cutura tradizionale.
L'architettura moderna per questo piace e piacerà solo agli architetti o ad un'elite in grado di apprezzarla, ma mai alla gente comune che si vuole identificare nei luoghi che abita. Il suo destino è quello dell'arte moderna contemporanea chiusa a recinto in se stessa, incontaminabile dalla città reale, non più in grado di comunicare con l'esterno.
Commento 698 di Vilma Torselli del 19/03/2004
"Milano è una brutta e mal combinata città ..... " , sono parole di Carlo Emilio Gadda , dalle quali prese spunto un famoso dibattito sullo stato della città, tenutosi alla Triennale di Milano il 30 novembre 1993.
Sono passati più di dieci anni e Milano è ancora brutta, o addirittura più brutta di allora.
Ci sarà pure un motivo perché ciò accada.
Sarà segno che, dopotutto, ai milanesi va bene così? Sarà segno che, in fin dei conti, il concetto di bello o brutto applicato ad una città è così labile e vago che ciò che per uno è brutto per un altro può essere bello?
Forse sarà che Milano è una città spiccia e bottegaia, la sede della borsa, della finanza, degli affari, e la circolazione dei soldi fa dimenticare la circolazione del traffico, e se non c’è niente di “bello” da veder non importa, c’è tanto di utile da fare.
Perché se Milano fosse “bella”, colta e raffinata non sarebbe Milano, sarebbe Firenze, e se grondasse storia e memorie sarebbe Roma, non Milano, e se avesse la più bella piazza del mondo, e non piazzale Cadorna, che è un nodo viabilistico che forse non ambisce ad essere nient’altro, sarebbe Siena.
Ma non ha dimenticato di essere stata la città del Futurismo, nel 2005 avrà nell’attuale Arengario il più completo Museo del ‘900 e del Futurismo (a firma di tale Italo Rota, vincitore di un concorso internazionale, di cui confesso di sapere poco) che con il Palazzo Reale potrà costituire una straordinaria cittadella della cultura.
Stiamo a vedere, e poi, se del caso, continueremo (a cose fatte, purtroppo) a lamentarci.
Commento 700 di Irma Cipriano del 21/03/2004
Non credo che rischiare, sperimentare, in sostanza creare il nuovo e il moderno possa essere solo esclusiva di architetti vanesi e autoreferenziali. Se così è lo erano molti geni dell'architettura. Il metodo non centra.. ma poi cosa vuol dire metodo? Il progettare secondo codici più o meno classici? O bisogna cambiare metodo eliminando gli abusi e i comodi di architetti legati più al soldo e alle "conoscenze di palazzo" che a creare qualcosa di valido?
Credo che questo basterebbe senza scomodare il futurismo, che non mi risulta abbia insegnato che la bellezza è solo del passato. E' visione distorta e ingannevole. Purtroppo molto comune. E anche da questo si vede che invece Milano ha completamente dimenticato l'insegnamento futurista. Perchè costruire musei alla memoria e cittadelle della cultura è tempo sprecato e volontà puramente conservatrice se non si è fatti propri gli insegnamenti e i messaggi che questa ha voluto dare. E' sempre molto facile fare delle lapidi alla memoria, portarci per qualche giorno i fiori e poi non ricordarsene più.
Dove stanno gli esempi che ci dicono che Milano ha interiorizzato gli insegnamenti delle avanguardie?
Commento 701 di Alberto Scarzella Mazzocchi del 22/03/2004
Belli e\o brutti (milanesi) 2
Ironizzare su Vittoriano Vigano è un gioco da fanciulli. Il taglio brutalista delle Sue opere l’ha portato ad arredare la mensa del Marchiondi con un selva di montanti delle acque nere che rallegravano, con il crepitio degli sciacquoni, il triste pasto dei reclusi, o , in mancanza di pennuti esotici da far svolazzare nella grande voliera, progettata per la rinata Triennale, a trasformare all’anilina degli scipiti piccioni padani in coloratissimi parrocchetti brasiliani.
Più impegnativo assumere il progetto del Parco Sempione a modello di un percorso che le amministrazioni comunali non devono assolutamente seguire; e quindi a perno del discorso che Maurizio De Caro ha affrontato con pertinenza di esempi.
E’ dal lontano 1954 che Viganò inizia ad elaborare proposte progettuali per la valorizzazione del Parco Sempione, concretizzate poi in otto lotti operativi. Gli elaborati restano però al chiuso dei cassetti dell’Amministrazione comunale sino al 1979 per essere approvati solo nel 1981. Secondo le previsioni di progetto, dopo lo smantellamento delle recinzioni, dovevano essere unificati i comparti che comprendono il Castello, l’Arena, l’Arco della Pace e la Torre del Parco, risanate le piantumazioni malate, sfoltendole dove si erano ingigantite e ripiantumandole nelle zone strappate all’asfalto e alla formula uno. Obiettivo, restituire il grande polmone verde di Milano al silenzio e alla sua monumentalità e ridare vita ad un vero parco come lo posseggono le grandi metropoli che amano il verde non solo a parole.
L’Amministrazione comunale rumina per 30 anni il progetto poi, in 24 ore, decide di dare il via ai lavori senza preavvisare abitanti, commercianti e automobilisti che una bella mattina si sono visti chiudere una serie di strade mentre le ruspe davano l’assalto ai chioschi di benzina. La protesta dei cittadini fu quindi repentina, quanto prevedibile.
Invece di porsi il problema di rivitalizzare l’area attorno all’arco della pace con bar, ristoranti, librerie e quant’altro potesse sostituirsi ai negozi di ricambio per auto, si dà inizio ad un braccio di ferro tra assessorato e Ministero ai beni ambientali, tra soprintendenza regionale e statale, con l’approvazione di delibere che si annullano a vicenda generando repentine interruzioni dei lavori. Risultato, la città si trova a gestire un opera incompiuta con evidenti segni di abbandono, resi ancor più evidenti da una pessima esecuzione dei lavori. Ed il progetto del Parco Sempione viene inserito d’ufficio nell’elenco delle grandi incompiute: Palazzo Reale, la Grande Brera, piazzale Dateo con il veto alla proposta di Magistretti, al recupero dei giardini del Piermarini ai Boschetti di via Marina, e a quello dei Navigli.
E noi invece di condannare il sistema delle lotte interne tra amministratori comunali regionali e statali, tra soprintendenze decentrate e dell’assenza di un responsabile che impediscono il concretizzarsi delle opere, disperdiamo le nostre energie nel dare spazio alle critiche innescate dalla calligrafia dei lampioni che, a mio avviso, hanno invece il pregio di evocare, con un segno attuale, l’atmosfera ottocentesca in felice connubio formale.
Se critica va fatta al progetto, nell’ambito caratterizzato dai lampioni, riguarda la sistemazione del tratto che fiancheggia i binari del tram. Ma quanto è da attribuirsi al progetto e quanto alle esigenze e ai vincoli dell’Azienda tranviaria?
Chiediamoci semmai perché Milano, pur avendo tra i suoi cittadini un folto gruppo di designers che il mondo ci invidia, si ritrovi con un’arredo urbano tra i più dequalificati. Individuiamo i laccioli che ne impediscono il risveglio e insieme cerchiamo di scioglierli.
Commento 775 di Martino Buora del 15/09/2004
Concordo in pieno con il sopra scritto commento di Andrea Pacciani. Ha fatto centro. possibile che sia anche lui un architetto ma possegga, tuttavia, una tale rara lucidità?
firmato: un non addetto ai lavori. Di Milano e, come tutti gli uomini, amante del bello che fatica a rintracciare nell'architettura, specie abitativa, ma non solo, dagli anni 50 ad oggi.
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