Sicilia delenda est
di Leandro Janni
- 25/9/2005

La riforma urbanistica siciliana
Un commento
Sulla scia dell'italico disegno di legge di riforma del governo del territorio,
conosciuto come “Legge Lupi”, anche la Sicilia – regione
a Statuto speciale – ha elaborato un suo disegno di legge di riforma urbanistica.
La riforma urbanistica siciliana voluta dall’attuale Governo regionale,
formalmente motivata dalla necessità di snellire le procedure, cela in
realtà lo smantellamento della logica e degli impianti normativi di gestione,
governo e regolamentazione dell’attività urbanistica sul territorio
siciliano. Il disegno di legge di riforma urbanistica – tra le altre cose
– determinerebbe: 1) l'abolizione definitiva della fascia di inedificabilità
dei 150 metri dalla battigia, con connessa, implicita sanatoria per gli abusi
edilizi lungo le coste; 2) l'abolizione della fascia di rispetto all'esterno
dei boschi e delle aree archeologiche; 3) l'abrogazione delle norme sulla edificabilità
dentro i boschi e del concetto giuridico di bosco; 4) l’eliminazione dei
limiti inderogabili sulle volumetrie edificabili in tutte le zone del territorio
comunale; 5) l’abrogazione del regime limitativo per le costruzioni in
verde agricolo; 6) l’eliminazione di limiti e salvaguardie per l'edificazione
nei centri e nuclei storici.
La proposta di legge prevede tre distinti livelli – regionale, provinciale
e comunale – con altrettanti strumenti di pianificazione: il Piano
territoriale regionale, il Piano territoriale provinciale e il Piano urbanistico
comunale. Il Piano territoriale regionale è lo strumento tecnico-giuridico
con cui una comunità riconosce ed afferma i valori del proprio territorio,
determinando le regole per il suo uso, tutela e fruizione sociale, ovvero l’organizzazione
degli insediamenti e le istanze per lo sviluppo. Questa ratio basilare, fondamentale
per qualsiasi strumento di politica o di pianificazione territoriale, sembra
essere disattesa, se non addirittura negata, dalla nuova proposta di legge urbanistica
siciliana. La proposta, infatti, supera all’indietro anche i più
obsoleti approcci alla pianificazione quantitativa (come ad esempio la legge
urbanistica lombarda) e, se approvata, rischia di determinare un vero e proprio
disastro per l’ambiente regionale siciliano.
La pianificazione che ne deriva, piuttosto che ai criteri di tutela e valorizzazione
del patrimonio, sembra rispondere alla necessità di allocare, nel
territorio regionale, quote tanto infinitamente ingenti quanto improbabili di
risorse economiche e finanziarie. L’idea di sviluppo sostenibile, prefigurata
dalle linee guida del Piano territoriale paesistico regionale e fatte proprie
dalla prima bozza di Piano urbanistico regionale, ruotante attorno all’affermazione
dei valori dell’enorme patrimonio di risorse ambientali e culturali dell’Isola,
è totalmente abbandonata, nonostante i vaghi accenni – nel disegno
di legge in esame – alla pianificazione del paesaggio. L’apparato
pianificatorio prefigurato dalla proposta, oltre ad essere sovrabbondante e
farraginoso, tale da apparire, in molti passaggi, inattuabile, costituisce in
realtà una sorta di copertura formale per i “giochi” da effettuare
sul territorio regionale, da parte di interessi che evidentemente debbono potersi
muovere senza vincoli e fastidiosi impedimenti.
Questo si può cogliere già nelle dichiarazioni dei principi
generali allorché, dopo un generico richiamo alla sostenibilità,
i meccanismi di semplificazione e flessibilità proposti attaccano e annullano
alcuni storici capisaldi della pianificazione nazionale e regionale, tra cui:
a) l’obbligatorietà dello strumento urbanistico-pianificatorio per
tutti i comuni; b) la cogenza dei piani ai diversi livelli; c) la cancellazione
– di fatto – del concetto di “eccezione”; d) il primato
degli interessi economico-finanziari sui valori del territorio; e) l’eccessiva
pervasività dei meccanismi perequativi che disegnano un territorio dove
tutto è scambiabile, senza neppure credibili distinzioni tra ambiti edificatori
ed altre destinazioni, e in assenza persino della dovute ponderazioni tra comparti
urbani di diversa natura.
In contrasto ai concetti espressi dalla ricerca disciplinare che legano le future
istanze di sviluppo regionale al recupero e alla riqualificazione dei patrimoni
insediativi esistenti, alla tutela e valorizzazione delle emergenze architettoniche,
paesaggistiche e naturalistiche, dal disegno di legge regionale deriva un’idea
generale di ambiente, di spazio, ancora tutto da trasformare, da edificare.
Come dire: “metro cubo su metro quadro”.
La compressione, al limite dell’azzeramento, delle autonomie locali
è un altro nodo fortemente critico del programma di riforma. Si è
già accennato al fatto che la redazione del Piano urbanistico comunale
diventi una discrezionalità da dirimere a livello regionale. Ai livelli
più alti sono peraltro demandate tutte le scelte strategiche riguardanti
le municipalità: le azioni rimangono accentrate regionalmente, oppure
a livello provinciale. Il Piano urbanistico comunale, ove previsto, risulta
strumento dai contorni deboli e incerti, mirato perlopiù alla fase operativa.
Nel tentativo di mantenere qualche prerogativa ai Comuni, le procedure approvate
risultano talmente confuse, da essere improbabili.
Altri problemi rilevanti derivano dalla sovrapposizione della pianificazione
alla grande scala con la pianificazione paesaggistica esistente. Il Piano
regionale, a tal proposito, invece di recepire gli ambiti di pianificazione
già disegnati dalle linee guida del Piano territoriale paesistico regionale,
sembra volerli ridisegnare, con un grave arretramento di tutto il processo.
Ancora non si colgono le necessarie distinzioni di competenze paesistiche e
ambientali tra i Piani d’ambito, e i Piani provinciali che, interessando
più ambiti, dovrebbero mantenere solo funzioni di indicazione e coordinamento.
Non si comprende la funzione dei Piani territoriali regionali d’area, che
dovrebbero disegnare comprensori di eccellenza per quanto riguarda la programmazione
e l’allocazione di risorse, rompendo però l’unitarietà
del Piano regionale.
Paradossale, poi, appare lo scardinamento del sistema dei cosiddetti “standards
inderogabili”, che impongono all’ente pianificatore (il Comune)
e che assicurano – ex lege – la vivibilità negli insediamenti
urbani attraverso l’imposizione non variabile di indici massimi di edificabilità,
distanze minime tra edifici, altezze massime, ecc. E’ prevista, infatti,
una incerta disposizione secondo la quale tali limiti verranno dettati, non
più per legge, bensì dagli stessi strumenti urbanistici comunali,
divenendo così inevitabilmente modificabili. Piuttosto deboli appaiono
le aperture ai concetti di valutazione strategica, d’impatto, di sostenibilità,
talmente isolati e in controtendenza alla logica della proposta, da risultare
vanificati a priori. Si sottolinea, infine, che il disegno di legge prevede
l’abolizione delle Commissioni edilizie comunali e del Consiglio regionale
dell’Urbanistica: un organo, quest’ultimo, che ha svolto importanti
funzioni di regolazione e controllo, e che ha spesso impedito nefasti processi
di degrado speculativo del territorio regionale siciliano.
(Leandro Janni - 25/9/2005)
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Commento 978 di Giannino Cusano del 08/10/2005
Molti anni fa, giovane studente di Architettura e Belle Speranze, la pianificazione urbana e territoriale mi appassionava molto e mi dava l'idea di potermio rendere davvero utile al mio Paese. Un paio d'anni prima della mia immatricolazione era stata varata la 765 o Legg Ponte: ponte versb una riforma urbanistica che non solo non venne mai ma che, nei fatti, fu tenuta sempre più lontana dai calendari politici della vita civile italiana: il ponte rimase a sbalzo nel vuoto, nel nulla.
Professori di altissimo valore come Gabriele Scimemi, Luigi Coppa, Federico Malusardi alimentavano, e giustamente, entusiasmi e rinnovate speranze che, è noto anche ai bambini, sono sempre le ultime a morire. Gli scritti e gli interventi memorabili, brillantissimi di Luigi Piccinato, il fulgido quadro istituzionale e legislativo soprattutto -ma non solo- britannico, esempi di buoni piani redatti anche in Italia, nonostante condizioni al contorno devastanti: la strada era in salita, certo, ma quasi nessuno prevedeva che si sarebbe tramutata in una parete rocciosa del sesto grado.
Il quadro oggi supera ogni più fosca previsione: la cultura del piano non solo, di fatto, è costretta ad abdicare, ma a suicidarsi. Il caso Sicilia ne è una conferma: e come al solito chi redige i piani dovrà districarsi ed aggirare, quando può, ostacoli sempre più impervi.
Lo Stato centrale sceglie posizioni vieppiù pilatesche, mentre con l'alibi federale le Regioni spesso sguazzano nella più totale anarchia. Mi disinteressai piuttosto presto della materia, trovando più agibile e interessante l'architettura, quindi seguo quanto basta le vicende urbanistiche, ma sembra proprio che città e territori si trovino, come prima della 1150, avvolte in un marasma, in un fasciame inestricabile di leggi e centri decisionali (o indecisionali) in perenne e crescente conflitto fra loro. Persino la terminologia giuridico-urbanistica permane spesso nel vago, tanto da necessitare continue precisazioni e puntualizzazioni, sovente per vie legali.
Un quadro frammentato e neocorporativo che non riesce a ricucire grandi linee strategiche nazionali (figuriamoci, poi, le loro articolazioni regionali e subregionali) nemmeno di fronte alle nuove istanze ed esigenze che la crisi ecologica ed energetica imporrebbe di coniugare ad istanze di sviluppo e progresso.
Non so come andrà avanti questo Paese; certo, il minimo è attendersi tempi ... da Lupi !
G.C.
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