Ri-costruire nei centri storici
di Vulmaro Zoffi
- 13/12/2005

“Conosceva bene la strada e l’intero quartiere – la pensione
da cui aveva appena traslocato non era lontana – ma fino a quel giorno
la strada aveva continuato a slittare e roteare, priva di qualsiasi legame con
lui, mentre oggi si era fermata di colpo, e già si andava rapprendendo
in forma di proiezione del suo nuovo domicilio.” Ci sono dei legami profondi fra noi e le cose che ci circondano, fra noi stessi
e i palazzi che popolano la nostra città. L’uomo guarda il mondo
attraverso sagome trasparenti, che crea, e che poi cerca di adattare alle realtà
che lo compongono; edifici incorniciano i ricordi; strade danno un senso ai
percorsi.
Vladimir Nabokov, Il dono
“Come mai, noi nati dal caos, non possiamo mai accostarci ad esso,
non facciamo in tempo a dargli un’occhiata che subito, sotto il nostro
sguardo, nasce l’ordine...e la forma?” (Witold Gombrowicz,
Cosmo).
Abbandonando un pensiero consueto, come un sentiero cittadino, ci sentiamo disorientati.
Spaesati. Ci ritroviamo solo quando anche quel palazzo o quell’ombra proiettata
sulla piazza già frequentata ci ridonano quel senso di familiarità,
di stabilità e di protezione. Così ci muoviamo in superficie,
abituandoci a considerare fisse e stabili le cose; perché alla loro permanenza
affidiamo la nostra memoria, augurandoci che tutto permanga stabile nel tempo.
Basta un solo segno di orientamento perché subito tutto si ritrovi, così
come, nel buio della nostra stanza, basta il familiare chiarore della finestra
per ricordarci in che posizione siamo dopo un improvviso risveglio notturno.
In quel ripetere che edifica e fissa la nostra memoria, giorno dopo giorno,
mattone su mattone, costruiamo il nostro passato che si stabilisce sulle cose.
“Sarà difficile trasformare la carta da parati in vasti spazi
di steppe. Il deserto dello scrittoio andrà arato a lungo prima che su
di esso fioriscano le prime righe. E molta cenere di sigarette dovrà
cadere sotto la poltrona e nei suoi anfratti prima che su questa poltrona si
possa viaggiare” (Vladimir Nabokov, op. cit.). Sulle facciate tappezzate
da invisibili ricordi, la memoria personale si lega a quella sociale, in uno
spazio quotidiano popolato da palazzi e mascherato dalle loro facciate. Sugli
intonaci si cristallizzano i pensieri. Nel già visto si ritrova l’impronta
di un’impressione passata, come quando immaginiamo di calpestare l’orma
dei passi che facemmo. Riscopriamo il nostro vissuto: riconoscendo i luoghi
frequentati nel nostro vivere quotidiano; ripassando giornalmente sulla strada
verso casa o verso quel luogo che, un’ora, un giorno, un anno o una vita
fa, avevamo già raggiunto; ripercorrendo un percorso che crediamo di
aver già visto. Possiamo così riascoltare la voce dei ricordi
più vivi che, rievocati da rinnovata attenzione, escono di nuovo dal
silenzio restituendoci quel caro senso di appartenenza.
Nel ripetersi incessante e abitudinario (quell’abitudine, esperta arredatrice,
tanto cara a Proust) delle nostre gestualità spaziali, e nel nostro rapporto
con le cose, si spiega il modo in cui cerchiamo costantemente nel mondo quella
“suite di fissazioni” che garantiscono la stabilità
esteriore al nostro interiore essere inquieto; quell’ordine che rende
possibile un autentico rapporto fra noi e le cose. Nel rivivere ciascuno riscopre
il proprio percorso di vita. Così desideriamo lasciare segni del nostro
passaggio, tracce del nostro abitare, e lo facciamo allestendo la città
con i ricordi - solidi quanto più vengono spazializzati, e ce lo insegnano
anche le antiche arti mnemoniche - posandoli sulle cose del mondo: per erigerli
a monumenti della nostra esperienza esistenziale; per costruire, con loro, il
nostro ambiente; per ritrovarli ancorati alla rassicurante solidità di
una struttura stabile conosciuta.
Questa profonda unione che lega indissolubilmente la memoria con il ricordo
visivo dei luoghi, spiega lo sgomento che proviamo ad esempio quando scompare
un edificio: con esso infatti svanisce la nostra storia. L’inattesa scomparsa,
l’assenza di un punto di riferimento, genera quell’impressione di
vertigine del vuoto. All’improvviso guardando in alto c’è
un pezzo di cielo in più dove prima c’era qualcosa: e una parte
di noi stessi si disperde nella frustrazione di un’aspettativa proiettata
su un luogo che c’è sempre stato ma che all’improvviso manca.
Con il crollo rovinano tante storie intime, private e collettive, e si disperdono
le memorie individuali e familiari. Il crollo inaspettato, quell'improvvisa
amnesia, cancella la storia e genera una nuova realtà fisica: ma è
proprio l’inacettabilità di certe improvvise mancanze – come
dimenticanze - a spingere l’uomo alla ricostruzione che, con la materia,
vuole risarcire una perdita che non è solo fisica, nel tentativo eroico
mai vano di riappropriarsi di un passato sottrattogli dalla fatalità
o dalla speculazione; nel tentativo di elaborare la tragedia per rivivere.
Attraverso i luoghi quindi, e nella loro evoluzione, nella loro lenta metamorfosi,
nella loro improvvisa scomparsa, si colgono i segni dei tempi; gli effetti,
e talvolta le ragioni, del loro cambiamento. In quest’ottica, spazio e
tempo sono strumenti utili per esplorare la relatività della storia e
capire quando, quanto e come siamo cambiati; e i resti presenti, dopo il crollo,
sono il segno di qualcosa che è stato e non è più, ma sono
anche segno - perché il segno è cicatrice - di un passato che
va interrogato; e nella rilettura della storia singolare di ogni città
– che si racconta nel secolare rispetto di certe norme dimensionali e
formali di certi tessuti urbani, più fortemente nei cosiddetti centri
storici - si trovano i fondamenti della nostra memoria comune; là dove
per generazioni tutti i cittadini – non solo i (pochi) residenti - si
sono ritrovati; là dove i palazzi hanno custodito la memoria degli abitanti,
della collettività e della moltitudine di visitatori che, ancora oggi,
frequentano e si ritrovano “in centro”.
Dovendo l’architettura contemporanea misurarsi con la realtà storica
di molte città, il tema della sua visibilità si rivela quindi
di fondamentale importanza. Giancarlo De Carlo, sul tema della costruzione nei
centri storici (domus 882, giugno 2005), pone una domanda fondamentale “rivolta
a tutti e in particolare ai lettori di questa rivista”: “ha
l’architettura contemporanea diritto di essere visibile come le architetture
delle epoche precedenti?”.
Alla luce delle riflessioni di cui sopra, viene da rispondere:“Certamente.
A patto che...”.
“L’architetto ama l’incertezza, l’esitazione; cerca
problemi ulteriori, non facili soluzioni” (B.Zevi, editoriale de
“L’architettura – cronache e storia”, I dieci
edifici più controversi, n. 354, aprile 1985); tuttavia accade spesso
che anche nelle complicate realtà dei centri storici l’attenzione
dell’architetto narcisisticamente si sposti dall’analisi di ciò
che è memoria comune e luogo storico, all’autoanalisi (tecnica
costruttiva, statica, funzioni, materiali, teorie e regole formali interne –
tipo quella sperimentale frattale -) e all’autoreferenzialità (riconoscibilità).
Simili intenti progettuali conducono spesso a gesti di notevole esemplarità
che possono con un gesto “riqualificante” valorizzare una
realtà urbana priva di forti e secolari memorie, ma diventano all’opposto
difficilmente accettabili laddove per generazioni l’uomo ha difeso, anche
col sangue, la propria identità comune, riflessa nella bellezza e integrità
della - sua - città, delle sue mura, delle sue piazze. La violazione
di questi legami così forti (personali e per alcuni anche culturali),
spinge così anche i meno passatisti, conservatori, “pit-bull”
e “codardi merinos della burocrazia” - che si sentono derubati
della propria identità, memoria e storia - a rifiutare un oggetto architettonico
alieno; che non appartiene alla sua città perché identico potrebbe
collocarsi vicino ad una cattedrale, così come in una periferia di una
qualsiasi città europea, e non. Rifiutando simili gesti progettuali,
non si vuole per forza difendere una sorta di localismo in preda a chissà
quale ignorante neoconservatorismo o, per antitesi, schierarsi in favore di
tutto ciò che è “international”. E nemmeno
si pretende che l’architetto si travesta da storico per rileggere il passato.
Si vorrebbe semplicemente spostare l’attenzione al tema del contesto.
Alla sua singolarità irripetibile, che è immagine dell’identità
sua e di ciascuno. In molti centri storici degradati e consumati dal tempo –
e dall’incuria - c’è bisogno di architettura; ma di nuove
architetture che dialoghino con quelle passate, con il suo vissuto che in massima
parte sta ancora lì. Con ciò non si desidera tornare ai vecchi
stili, più o meno organizzati per citazioni, ma si desidera un’architettura
che scaturisca da un dialogo, da uno scambio intenso tra l’architetto
e il suo più potente committente: la città. Città intesa
in senso ampio, interdisciplinare. Si è invece dovuto tutelare a forza
il patrimonio, con la prescrizione di particolareggiate (spesso vane ma forse
meno astratte) norme estetico-edilizie che già ogni cittadino –
prima ancora che attento architetto – dovrebbe portare in sé, nella
sua sensibilità; come senso civico, fondamento etico, morale e deontologico.
Molto si è parlato dell’architettura come musica. Immaginiamo allora
che il tema di questa musica sia dato: perché il passato è già
stato scritto e composto da altri in quella forma inspiegabilmente armoniosa
che tutti ammiriamo nei centri storici. Sia essa frutto dell’accorto uso
di materiali cromaticamente simili, il rispetto di certe altezze prospettiche,
il richiamo a certe forme già presenti, di certi tracciati urbani, di
certi allineamenti nelle aperture, di certi accordi, anche dissonanti, scritti
sulla pietra. L’architetto, come un compositore, dovrebbe cimentarsi nell’arte
delle “variazioni su un tema dato”. Se i luoghi dettano
una certa “forma”, non la si dovrebbe ignorare come se
fosse impossibile scrivere qualcosa di nuovo seguendo un tema, una regola. Beethoven
ha espresso tutta la sua arte, e con un certo umorismo canzonatorio, nelle variazioni
Diabelli, elevando infine il motivo originale. Così l’architetto
– capace - si dovrebbe cimentare in quella difficile prova compositiva
(spesso sbrigativamente evitata cancellando tutto ciò che già
c’é).
De Carlo dà una risposta precisa con il progetto della Torre-ascensore
per il Palazzo degli Anziani di Ancona (domus 882, giugno 2005); l’elemento
verticale dialoga con le torri e i campanili della città; il suggestivo
inviluppo di acciaio e cristalli è modulato riprendendo i ritmi delle
modanature del Palazzo. In essa il contesto narcisisticamente si specchia, si
riflette e rivive in una nuova architettura; che lo eleva.
De Carlo dimostra magistralmente che si può fare del virtuosismo anche
laddove la storia urbana di una città fa sentire il suo atavico canto.
A patto che - rispondo alla luce di quanto detto - l’architetto sappia
introdurre novità facendo tesoro di ciò che già è
stato composto.
Innalzandolo
(Vulmaro Zoffi
- 13/12/2005)
Per condividere l'articolo:
Commento 1006 di Carlo Sarno del 19/12/2005
Ringrazio Vulmaro Zoffi per aver evidenziato il problema della nuova architettura inserita nei centri storici. Scrive così in un passo : "...In molti centri storici degradati e consumati dal tempo – e dall’incuria - c’è bisogno di architettura; ma di nuove architetture che dialoghino con quelle passate, con il suo vissuto che in massima parte sta ancora lì. Con ciò non si desidera tornare ai vecchi stili, più o meno organizzati per citazioni, ma si desidera un’architettura che scaturisca da un dialogo, da uno scambio intenso tra l’architetto e il suo più potente committente: la città. Città intesa in senso ampio, interdisciplinare...".
La risposta al problema è già insita nella questione : per poter progettare armonicamente nei centri storici occore che gli architetti sappiano creare la storia, nuove architetture che si innestino organicamente nella città vera, che vive, soffre, gioisce e ama....
Prima di atteggiarsi ad "architetto demiurgo" occorre semplicemente sentirsi un cittadino, parte organica di una città che è vivente, che ha una memoria, dei sentimenti, delle aspirazioni di rinnovamento ed evoluzione.
Occorre comprendere i processi generativi delle realtà sociali, senza le quali ogni progetto risulta astratto e scollegato.
Occorre avere il coraggio di affrontare con la storia il futuro della città, di cogliere l'energia ed il buono che scaturisce dai centri storici e proiettarla in una dimensione urbana attualizzata sulla vita di oggi, sull'uomo di oggi.
Occorre comprendere a fondo che qualsiasi centro storico non sarebbe esistito senza l'uomo, e che è l'uomo e la sua felicità il vero fine dei nostri progetti e non la ossessiva e anacronistica conservazione di pezzi di città che ostacolano lo sviluppo organico di essa, soffocandola e ghettizzandola.
Abbiate coraggio di fare la storia ! Abbiate coraggio di amare veramente la città e la sua vita sociale non meno dei suoi monumenti ! Abbiate coraggio di difendere i nuovi valori di civiltà conquistati dall'uomo a duro prezzo e che richiedono nuovi spazi e nuove architetture !
" Non abbiate paura !!! " ci diceva a gran voce il pontefice Giovanni Paolo II. Non temete di proporre il bene !
Affrontiamo l'attualizzazione dei centri storici con coraggio , rendiamoli vivibili per l'uomo di oggi e non solanto cadaverici musei urbani che nulla restituiscono della vita attiva e armoniosa dei costruttori e abitanti del passato !
Concludo con un esempio, una proposta e una speranza , lanciando un appello alla Chiesa Cattolica e Apostolica Romana :
come nel passato alla fine del 1400, in pieno umanesimo e rinnovamento dei valori, il Papa di allora Nicolo V prese la decisione di abbattere almeno parte della antica Chiesa di San Pietro, e in seguito Giulio II all'inizio del 1500 pose la prima pietra della nuova Chiesa su progetto di Bramante, e che da allora subirà continui cambiamenti e trasformazioni in funzione delle nuove esigenze liturgiche e simboliche, ponendosi ad esempio sommo di come ci si deve comportare nei centri storici con il coraggio e la necessità di creare nuova storia, attuale e viva ;
così auspico e spero che anche oggi, nel terzo millennio, spronati dalle parole di Papa Giovanni Paolo II " non abbiate paura ! " , ed a seguito del rinnovamento avvenuto nella Chiesa con il Concilio Vaticano II, promosso da Papa Giovanni XXIII nella rilettura della Parola di Dio portata a noi da Gesù Cristo, la Chiesa dia ancora il suo messaggio di speranza e amore per la vita vera e abbia il coraggio di trasformare e ricostruire di nuovo la Chiesa di San Pietro in Vaticano, riattualizzando lo spazio liturgico in maniera fiunzionale e organica ai nuovi stimoli che provengono da tutta la cristianità.
Che lo Spirito Santo, che è Spirito di sapienza e amore, illumini gli architetti che dovranno progettare e costruire nei centri storici per una città vivente e che, mi auguro, un domani potranno contribuire all'edificazione della nuova Chiesa di San Pietro in Vaticano !
Carlo Sarno
Commento 1009 di Vilma torselli del 23/12/2005
Vorrei citare poche parole di Marc Augé che forse non sono strettamente pertinenti all'articolo, ma che ,secondo me, colgono efficacemente lo spirito di un concetto di modernità dove si sintetizza la possibilità o
necessità di un continuum tra passato e presente senza il quale non esisterebbe la storia dell'umanità (e dell'architettura, che ne è la concreta traduzione).
"Presenza del passato nel presente che lo supera e lo rivendica: è in questa conciliazione che Jean Starobinski scorge l'essenza della modernità." Nello stesso testo, riportando ancora Starobinski , Augé approfondisce il concetto parlando della "possibilità di una polifonia in cui l'incrociarsi virtualmente infinito dei destini, degli atti, dei pensieri, delle reminiscenze poggia su un 'basso continuo' di fondo che ritma le ore del giorno terrestre e che segna il posto che occupava (che potrebbe ancora occupare) l'antico rituale [......] "Basso continuo"; l'espressione utilizzata da Starobinski per evocare i luoghi e i ritmi antichi è significativa: la modernità non li cancella ma li pone sullo sfondo. Essi sono come degli indicatori del tempo che passa e che sopravvive". (Marc Augé, 'Nonluoghi', pag.71)
Sono forse le stesse “variazioni su un tema dato” di cui parla l'autore
dell'articolo, o comunque è ciò che mi è venuto alla mente leggendolo.
Commento 1010 di Leandro Janni del 07/01/2006
Il principio della "conservazione integrata" del centro storico e l'urbanistica che sostiene un dinamismo architettonico della città che coinvolge, senza peraltro distruggerlo - il centro storico - tendono a rispecchiare, anche senza rendersene conto, il senso autentico del dinamismo fondamentale del nostro tempo. Che può veramente allontanarsi dal passato, solo se continua a guardarne il volto e sentirne il respiro.
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