'Architentare' per uno studente
di Domenico Caloria
- 29/9/2006

Da studente, devo dire che è raro trovarsi a partecipare ad una manifestazione
sull’architettura in cui ci sia il reale proposito di dibattere sulle problematiche
della materia.
Tutto ciò è successo ad Alba, all’interno di “Architentare”,
manifestazione che, per merito degli organizzatori, ha centrato il proposito di
spiegare agli albesi l’architettura della loro città. Certamente
si è trattato di una manifestazione che, data la presenza esclusiva di
architetti operanti nell’albese, non nasconde il carattere di “riflessione
locale” che l’ha originata ma, dalla quale, si possono trarre
utili spunti per una riflessione che senza troppi sforzi supera i confini delle
magnifiche Langhe.
I molti spunti offerti si originano dalle presentazioni e dai dibattiti in programma
che hanno riguardato la poesia, il design, le riflessioni sull’arte industriale
del gruppo Aganahuei, l’architettura degli architetti invitati a presentare
opere o progetti, infine il nuovo assetto urbanistico di Alba, “raccontato”
dall’Arch. Alessandro Benevolo a pochi giorni dalla presentazione del nuovo
piano regolatore della città.
Ripensando alle presentazioni dei conferenzieri, si possono individuare delle
tematiche comuni che, più o meno esplicitamente, sono state affrontate
dai diversi progettisti e ospiti. Queste tematiche parlano della volontà
di rivendicare l’artisticità dell’architettura, del rapporto
con il costruito storico, del rapporto architettura-paesaggio, dello scollamento
tra architettura e urbanistica, dei drammi dell’editoria d’architettura.
Sono tematiche che, come accennato in precedenza, possono facilmente evadere dal
contesto albese e accedendo nuovi dibattiti, possono tradurli nella preziosa eredità
della manifestazione.
Ne accennerò solo alcuni.
La valenza artistica dell’architettura, in quanto prodotto dello spirito
e dell’intelletto umano, è auspicabile e, giustamente, non bisogna
considerarla scontata. In effetti, se dei progettisti non si limitassero esclusivamente
alla risoluzione dei quesiti tecnici o, peggio ancora, al semplice assolvimento
di interessi speculativi, non avremmo quella odiosa ma purtroppo tanto vera distinzione
tra edilizia e architettura che induce a sollevare la questione.
Le università, in questo, non possono essere esenti da responsabilità:
sicuramente è più facile insegnare a risolvere “questioni
tecniche” che cercare di sviluppare il senso critico degli studenti
nell’ambito di ogni progetto e in ogni insegnamento del corso di studi.
Sicuramente è più facile e meno faticoso per i docenti, che non
hanno così la necessità di ampliare la loro conoscenza per indurre
gli studenti al ragionamento e alla riflessione critica, limitandosi ad “inculcargli
i dettami della scuola a cui appartengono” senza possibilità
di replica, senza possibilità di confronto. Questi studenti acritici saranno
gli architetti di domani.
In Architentare, l’artisticità dell’architettura
è emersa chiaramente in diversi progettisti, ma volendo sintetizzare
la questione, mi soffermerò a riflettere sull’esperienza progettuale
presentata da due ospiti della manifestazione: lo Studio Archicura e l’Arch.
Mario Galvagni. Il primo ha presentato i suoi lavori nella conferenza d’apertura
di Architentare, cedendo la parola e poi dibattendo con gli Architetti
De Abate; il secondo ha presentato una sua ricerca di morfologia ambientale,
nell’ambito della presentazione del libro “Mario Galvagni –
La ricerca silente”, scritto da Lara Vinca Masini e facente parte
della collana “Storie d’Architettura” diretta da
Paolo GL Ferrara e Sandro Lazier, presentazione arricchita dall’intervento
di Brunetto De Battè.
“Architettura emozionante, nel bene e nel male”, “sensibilità
formale” e “confronto, purchè costruttivo”,
sono sicuramente le parole chiave che riassumono l’intervento del gruppo
Archicura, del loro “fare architettura” nonché il
loro “atteggiamento” aperto al dibattito. Nell’intervento
di Galvagni, emergono energicamente termini quali “componente formale”,
“cultura figurativa”, “morfologia ambientale”e
“matrici della ricerca”.
Se nelle premesse esistono punti di contatto, gli esiti sono opposti e possono
persino sollevare questioni di carattere etico-professionale. Galvagni illustra
come la “componente formale” del progetto tragga origine
dalla “cultura figurativa” dell’architetto e, attraverso
questa, l’architetto riesca a legare la sua contemporaneità con
il territorio in cui opera. È un atteggiamento storicamente valido, in
cui la “cultura figurativa recepita” dall’epoca vissuta,
si arricchisce di quella “ricercata attraverso studi di morfologia
ambientale”; nel passato avveniva attraverso il disegno e l’osservazione
della natura, oggi Galvagni lo propone attraverso testimonianze videopittoriche
che portano all’individuazione di “morfologie ambientali”,
ossia forme ricavate dalla relazionalità tra le “architetture
naturali” e la presenza antropica in un luogo. Il presunto concetto
di “sensibilità formale” espresso dallo studio Archicura
è esemplificativo del passaggio fondamentale dalla “forma-idea”
alla “forma-immagine”, da una ricerca difficile, insidiosa
ma carica di significati –vedi Galvagni- ad una “ricerca del
bello” sterile, di un lavoro ricco di episodi ma privo di una narrazione
unitaria. Infatti, limitandosi a considerarlo formalismo, tutto potrebbe essere
accettato, ma purtroppo esso degenera spesso in comportamenti che eticamente
e moralmente nessuno dovrebbe mai avere: vediamo così apparire tra i
lavori di Archicura echi (davvero troppo forti per restare semplici “spunti
progettuali”) della House Guardiola a Cadice di Peter Eisenman, o
scorci troppo simili a quelli del Guggenheim Museum a Bilbao di Frank O. Ghery,
nonché di altri ben noti architetti (anche qualche citazionismo a Scharoun…).
È un brutto modo di fare perché l’atteggiamento legittima
il disinteresse allo sviluppo critico degli studenti di architettura, legittimati
quindi a limitarsi a sfogliare le riviste di settore e a riproporre nei laboratori
di progettazione ciò che vedono nelle stesse, certi che in futuro “il
metodo” gli porterà successo, benessere e pubblicazioni. Se accettiamo
questo modo di fare, allora non lamentiamoci se poi le università non
funzionano, non lamentiamoci se il panorama degli architetti italiani contemporanei
–escludendo qualche caso di alto livello- rasenta il desolante.
Allo Studio Archicura, se vogliamo, va il merito di aver comunque mostrato il
loro modo di fare supportato da molteplici realizzazioni; sicuramente si potrebbe
pensare che sia stato un peccato sottrarre tante risorse ad altri architetti
meno dotati della loro “sensibilità formale” ma,
almeno, non sono alla stregua di tanti altri che hanno lo stesso approccio formalista
e si creano fama buttando fumo negli occhi e cavalcando l’onda del fraintendimento
del termine “architettura digitale”.
Sempre degli Archicura, il progetto di una Cantina a Barolo, ci introduce ad
un'altra importante questione: l’inserimento delle architetture nel paesaggio
e il ruolo fondamentale della pianificazione. A sentir bene i professionisti
sembrerebbe che, essenzialmente, l’orientamento di alcune amministrazioni
locali sia quello di consentire soltanto la costruzione di manufatti ipogei
e, in effetti, l’edificio che ha introdotto alla riflessione appartiene
a questa categoria. Sicuramente condannare gli architetti a progettare interventi
interrati è un atteggiamento che non porta ad affrontare le questioni,
come bambini che anziché riordinare i giocattoli, nascondono tutto sotto
il tappeto. Ebbene, diverse mani nella manifestazione si sono dimostrate pronte
al confronto e hanno preso delle posizioni. Con riferimenti e citazioni di Portoghesi,
gli architetti De Abate dichiaravano l’importanza per i progettisti di
sviluppare un proprio senso della storia: soltanto questa consapevolezza può
garantire una responsabilità etico-professionale che può permettere
di intervenire e costruire. Personalmente, non credo che in zone in cui la quantità
di edifici storici, di paesaggi incantevoli e la commistione tra i due sia analoga
alle Langhe, si possa in qualche modo avere un differente atteggiamento a seconda
che si intervenga sul “paesaggio” o “sull’edificato
preesistente”: per questo motivo mi sono limitato all’espressione
“intervenire e costruire”. Citando De Abate ed estendendo
il discorso dall’edificio ai luoghi: “Le trasformazioni degli
usi diventano lo storia stessa degli edifici così come dei luoghi, e
ci ricordano continuamente che “l’oggi” di un edificio è
gia stato il suo “futuro” ed il suo “domani” sarà
ineluttabilmente prima o poi il suo ed il nostro “passato” e che
è proprio in tale sviluppo che gli edifici e i luoghi trovano il senso
della loro vita, dei loro valori e della loro bellezza”. In questa
ottica, la posizione dell’amministrazione albese sembra aperta al mutamento
e a tal fine, sono rassicuranti le parole dell’Arch. Benevolo alla presentazione
“senza immagini” del nuovo piano regolatore della città.
Tuttavia, mi chiedo come si possa prevedere un ampliamento della città
caratterizzato da costruzioni di 2 piani con, puntualmente, delle torri di “massimo
15 piani”. Il tutto senza ulteriori precisazioni se non, ovviamente,
prescrizioni di natura tecnica e standard urbanistici. Mi chiedo, in epoca in
cui si parla di land-scape, water-front, river-front
e simili, come si possa lasciare al caso una crescita come quella che si prospetta
ad Alba. Tipologie a torre sono ben radicate nel luogo e ci insegnano che proprio
per le loro caratteristiche intrinseche e unitamente alla morfologia del paesaggio,
sarebbero visibili a chilometri di distanza: con questo non intendo dire che
occorra evitare le torri ma, anzi, credo che non essendo possibile controllare
l’edificato a bassa densità previsto dal piano (se non monopolizzando
la progettazione), sarebbe almeno doveroso progettare in modo coordinato queste
“emergenze”, con la presa di posizione e l’impegno
etico dell’amministrazione ad indire concorsi e avvalendosi dell’informatica
quale strumento utile alla verifica delle ipotesi.
La preoccupazione nasce dall’osservazione della mia città, in quanto
non vorrei che le “villette” speculative intraviste nei
pressi di Alba, abbiano la stessa incredibile evoluzione tipologica che hanno
avuto a Milano, dove è possibile vedere nei pressi di P.le Corvetto,
in una di quelle aree liberate dalla dismissione industriale, una schiera di
edifici alti quasi venti piani che ripropongono ad ognuno di essi il motivo
dell’archetto e del balconcino stondato che caratterizza l’edilizia
minore dell’interland, naturalmente tutto in via di ultimazione e tutto
rigorosamente tinto di “giallo Milano”. Sarebbe l’effetto
dell’ennesimo scollamento tra urbanistica e architettura, ricordato alla
presentazione di Benevolo da Paolo Ferrara. Non credo che i progettisti di tali
scempi abbiano un loro “senso della storia”, non credo
che sia legittimo mettere la città nelle mani di chi insegue solamente
interessi economici, senza un sostrato di dibattito vero e un orientamento dell’amministrazione
chiaro e meditato.
Tra gli eventi in programma, il tema dell’intervento nel contesto storico
arriva sino a Serralunga, in cui uno studio di fattibilità operato dallo
StudioLazier ha permesso un vivo dibattito sul futuro della città basato
su un progetto presentato con supporto “virtuale-quadridimensionale”
comprensibile a tutti e analizzabile dinamicamente; una presentazione non basata
quindi solo su dati, previsioni, master-plan bidimensionali e immagini statiche
che spesso sono poco comprensibili ai più diretti interessati. La presenza
di interventi dissonanti ma sinergici all’edificato e al paesaggio, mirati
alla valorizzazione dell’autentico attraverso la rinuncia ad una omologazione
acritica, fanno emergere le valenze di un progetto che guarda organicamente
alla cittadina di Serralunga e al suo futuro. Il dibattito è aperto e,
a monte dell’intervento di Antonino Saggio che illustra chiaramente quale
grado di comprensione “del senso della storia” possa avere
un atteggiamento basato invece sul concetto dei “layers”,
di velatura, l’architetto Moro (in rappresentanza della Sovrintendenza)
faceva trasparire senza esporsi troppo, l’atteggiamento di un “conservatorismo
spinto” basato sul ripristino materico.
Come si riconferma, gli spunti offerti e le tematiche emerse in Architentare
possono aprire dibattiti che interessano tutti gli amanti della materia. Sta
a noi tutti cogliere l’occasione e non disperdere il risultato del lavoro
di tante persone che, per tre giorni, si sono confrontante apertamente, senza
timori e con la voglia di trasmettere la loro passione. Da studente, grazie
a tutti.
(Domenico Caloria
- 29/9/2006)
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Commento 1426 di andrea pacciani del 02/10/2006
gentile Domenico Caloria
"quella odiosa ma purtroppo tanto vera distinzione tra edilizia e architettura"
E' il male più oscuro della nostra disciplina, è quanto viene spiegato nelle università nelle riviste e ancora oggi ci si accanisce verso l'ignoranza progettuale degli altri.
Ma lei che non ha ancora il cervello completamente lavato ha ancora la possibilità di riflettere che è una menzogna bell'è buona, perchè non è un male che si può estirpare ma un processo fisiologico inevitabile che appartiene al fare dell'uomo.
Se ha studiato la storia dell'architettura saprà che gli architetti che ha incontrato sui libri hanno realizzato meno opere di un geometra di paese; pensi a Brunelleschi che non è neanche riuscito a fare una facciata delle sue chiese! E' da sempre infatti che le città non vengono realizzate dagli architetti, i maestri, i geni, ma dagli epigoni e gli autocostruttori: ovvero coloro che gurdando le opere dei maestri e con fare imitativo costruivano le città, i paese, i centri minori.
I risultati sono i nostri centri storici, o quel che ne resta, e mai nessuno se ne è lamentato; anzi oggi il valore della più umile casa del più povero dei contadini è più alto sotto tutti i punti di vista di qualsiasi edificio moderno che vi sorga di fianco.
La modernità invece non mai tenuto in cosiderazione che il progredire edilizio passa per questo processo imitativo e così denigriamo gli epigoni , anche se molto alla lontana, dei maestri della modernità .
Inoltre tutte le periferie sono firmate da architetti laureati, spesso organici accademici, non creda solo farabutti venduti al soldo delle imprese o dei politici (ma anche quelli sono sempre esistiti nella storia dell'architettura).
Quindi se c'è una questione morale dell'architettura un pezzettino riguarda anche questo processo imitativo con cui inevitabilmente bisogna avere a che fare nel nostro mondo. Come gli edifici post moderni sono arrivati in Italia dieci anni dopo e di una bruttezza sconvolgente, aspetto ormai a breve sempre con il dovuto ritardo culturale i primi lamieroni sghimbesci italiani (o forse sono già spuntati e non me ne sono accorto) !
mi scusi per la paternale
Andrea Pacciani
un consiglio di approfondimento letterario: G. Pigafetta "Architettura dell'imitazione"
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