Architetti, crisi e architettura
di Sandro Lazier
- 12/11/2009

Sabato 31 ottobre 2009, nel Forte di Bard in Valle d’Aosta, antico complesso
militare ora restaurato e trasformato in importante polo culturale, si è
tenuta una tavola rotonda organizzata dal G.A.C. (Giovani Architetti del Canavese)
sul tema “Architetti, Idee Giovani per la Professione”. Presenti in
qualità di relatori Corrado Binel, architetto di Aosta, Enrico Giacopelli,
architetto Torinese; moderatore Graziano Pelagatti, Presidente dell’associazione
G.A.C. Presente in sala Riccardo Bedrone, Presidente dell’Ordine degli architetti
di Torino; assente ingiustificata Daria Cini, Presidente dell’Ordine degli
architetti di Aosta.
Su invito di Corrado Binel ho partecipato all’incontro perché stimolato
dalla possibilità di un dibattito su temi che spesso il nostro giornale
ha affrontato con trasparenza e decisione: linguaggio e tradizione, università,
concorsi e ordini professionali. Tanti temi, corposi, impossibili da risolvere
in una mattinata, ma sentire l’aria che tira sul fronte fa sempre bene.
Inizia l’architetto Bedrone il quale, convinto che all’assemblea interessino
più le sorti degli architetti che quelle dell’architettura, ci illustra
pregi e difetti, speranze e delusioni di un Ordine sempre più nudo e oggettivamente
inadeguato di fronte alla richiesta dell’unica prerogativa che sola potrebbe
giustificarne la sopravvivenza: perseguire la qualità dell’architettura
con gli strumenti, finora insolventi, necessari a realizzarla.
Per Bedrone, e per tutto il sistema nazionale degli Ordini, la risposta dovrebbe
darsi nell’aggiornamento professionale degli iscritti. Una specie di patente
a punti per cui più ci si forma, più si è bravi e degni d’imprimatur.
Il talento? Non è incluso; ma non lo è mai stato: tutti uguali davanti
alla legge. E la formazione, chi la dovrebbe fare? Gli architetti, ovviamente.
E chi forma, dovrebbe a sua volta essere formato? Renzo Piano, per esempio, da
chi dovrebbe essere “formato”? E una volta in forma, chi dovrebbe
egli stesso formare? Siamo in un paradosso non dissimile da quello molto più
famoso del barbiere di Russell. L’incongruenza è evidente e inevitabile:
se l’attributo tecnico richiesto da questa professione può effettivamente
ricorrere a regole e protocolli provenienti da più soggetti, come avviene
in campo medico o scientifico in genere, al contrario il suo corredo artistico,
parimenti necessario affinché l’architettura si realizzi con qualità,
nega ogni tipo di convenzione, pena un’inevitabile deriva, prima ideologica
e poi autoritaria. Arte e disciplina concordano in regimi dispotici, ma litigano
volentieri in contesti liberali e democratici.
Dagli Ordini, quindi, nessuna idea giovane e nuova; anzi, solo un tentativo di
restaurazione nell’ultimo anno di governo conservatore, tentativo finora
decisamente contrastato dal tenace Presidente dell'Autorità garante della
concorrenza e del mercato Antonio Catricalà, al quale va il nostro sincero
applauso.
Corrado Binel, più attento ai temi di concetto, riporta la riflessione
intorno a tre punti, sicuramente più interessanti perché centrali
e necessari. Parlando di “giovani” architetti, termine retorico
che, concordo con lui, andrebbe sostituito con “emergenti” - l’età
anagrafica non conta - introduce il tema del linguaggio: “Appartenere
quindi alla schiera “emergente” è inoltre un condizione trasversale,
che unisce le generazioni in un obiettivo comune: quello della qualità
dell’architettura; ma la qualità dell’architettura che cos’è
se non la ricerca di un linguaggio capace di interpretare il senso del tempo
e del luogo in cui viviamo?”
Concordo totalmente. Il linguaggio è l’unica risorsa e il solo
strumento in grado di esprimere qualitativamente l’architettura. Interpreti
del luogo e del tempo presente, i suoi segni devono essere il riferimento principe
di ogni architetto, prima ancora della tecnica costruttiva, della storicità,
della psicologia, dell’urbanistica, del clima, del bilancio energetico
e quant’altro le mode dei tempi propinano, precipitando le personalità
più fragili nella confusione totale. L’etica dell’architetto
è tutta e solo nella sensibilità espressiva della sua matita e,
senza etica, non c’è qualità che tenga. Se no facciamo un
altro mestiere.
Secondo punto: ”Essere rivali nella ricerca della qualità,
essere rivali nel confronto culturale e delle idee, confrontarsi sui risultati
e sui successi significa essere attori di un mondo di valori positivi. In quel
mondo a cui a volte guardiamo persino con dolore non sono più bravi di
noi. Lo sono diventati, perché hanno scelto di sfidarsi sul terreno delle
idee e non sul terreno dei fatturati o addirittura su quello delle vanità
che rappresentano il gradino più basso della dignità umana perduta.”
Anche qui concordo totalmente. Il confronto, aperto e senza preclusioni formali,
è l’unica possibilità di mettere alla prova teorie e concetti.
Nessuna verità è vera sempre, diceva K. Popper, senza preoccuparsi
dell’antinomia presente nella sua stessa affermazione. Antinomia che oggi
ci costringe a riflettere sull’inconsistenza delle verità che hanno
governato la scienza, l’arte e la politica di ieri; che ci suggerisce
un diverso motore di civiltà: un produttivo sentimento di precarietà
e d’insicurezza; civiltà che, quindi, si nutre di errori e si alimenta
nel dubbio, nell’ansia, nella crisi di sistemi e di valori. Oggi sappiamo
che l’errore genetico è la causa prima dell’evoluzione e
della diversità: è crisi che diventa valore. Questo, secondo Bruno
Zevi, che riprendeva un’acutissima riflessione di Jean Baudrillard, è
il senso ultimo dell’idea di modernità, anche in architettura.
Allora, anziché lagnarsi d’essere in troppi, incompresi e canzonati
da una committenza imprigionata dal timore della diversità nelle false
certezze della tradizione, violentati da un’informazione mercantile rivolta
alla pura immagine, giunta al dettaglio pornografico, dedita esclusivamente
alla promozione delle mode e incurante della critica, beffati da una politica
legislativa che scoraggia le novità e premia le abitudini e le clientele,
proviamo a trasformare questa profonda crisi che ci tocca sul piano personale
e professionale in ricchezza, in impegno profondamente “moderno”,
rischioso nella ricerca di soluzioni inedite ma autorevole perché scaturito
nel profondo, posto ben sotto lo strato mentale del pregiudizio, della paura
e della vanagloria. So che questa condizione comporta rinunce a incarichi facili
e parcelle sicure. Ma rinunce soprattutto al conformismo consolatorio, al conforto
del balbettio famigliare e della caricatura benevola della storia, in tutte
le sue varianti. Rinunce certo, ma se non si soffre un po’, che crisi
è?
Ciò detto, occorre riconoscere che il luogo migliore di confronto delle
idee d’architettura continua a essere il concorso. Due domande, tuttavia,
si rendono necessarie: con quali criteri e chi sceglie chi giudica? Una qualsiasi
persona affiderebbe a chi non ha mai incontrato l’incarico di progettare
la propria casa?
Sono domande sensate e semplici la cui risposta implica la partecipazione palese
ai concorsi pubblici, come palese e pubblica dovrebbe essere la valutazione
dei progetti da parte dei commissari, unico modo per dar giudizio anche dei
giurati. In caso contrario il concorso rischia d’essere solo un alibi
per celare intrecci e traffici ben radicati nel vasto continente della rendita
culturale, che va dall’editoria all’università, passando
per gli Ordini professionali.
Terzo punto: “Fare gli architetti significa fare politica e cultura”.
Quest’affermazione è vera quanto confusa e rischiosa. Fa supporre,
infatti, che ci sia un’architettura di destra e una di sinistra, un’architettura
conservatrice e una progressista. Il che è evidentemente molto vero.
Ma si dà il caso che molti intellettuali di sinistra ragionino come architetti
di destra e che architetti di destra, a dire il vero pochi, propongano progetti
molto di sinistra. L’architettura è una bestia strana che tiene
insieme conservatori di destra e di sinistra, per cui molti progetti di destra
vengono promossi da eminenti personalità della sinistra.
Sull’indole democratica dell’architettura moderna si è detto
e scritto molto, non sempre adeguatamente. Tuttavia non è così
arduo comprendere che un’architettura composta dall’esterno, posata
e monumentale, oppure pittoresca ma con tutte le sue finestrelle in armonia
col prospetto, costringa chi ci abita a subirne l’ordine e la disciplina;
mentre un’architettura apparentemente disordinata e casuale sicuramente
concede a chi l’abita di vedere secondo desiderio e necessità,
senza destinare nulla all’arbitrio del prospetto. La prima è evidentemente
un’architettura imposta, quindi di destra; la seconda, più libera,
di sinistra. L’architettura popolare spontanea, tipica delle Alpi soprattutto
occidentali, sintesi tra necessità interne e risultato esterno, è
una sublime architettura di sinistra, oggi paradossalmente difesa da accaniti
conservatori di destra che in maggioranza votano a sinistra. I palazzotti neoclassici
dell’ottocento, sorta di esperanto architettonico presente in ogni luogo
della terra, come le multinazionali, tanto cari a molti intellettuali di sinistra,
sono architetture di destra. Il dialetto, in architettura, è sicuramente
di sinistra, l’esperanto di destra. Ma il dialetto è tale perché
strumentale alla cultura e alle necessità di un luogo. Se cambia la
sua finalità, se da strumento diviene riferimento formale, inevitabilmente
si scivola nel balbettio del tradizionalismo, perché senza adeguare il
linguaggio, senza l’introduzione di neologismi si finisce nell’impossibilità
di dare risposte ad una cultura che inevitabilmente cambia. E il balbettio è
profondamente di destra, nella sua pretesa di conservare ad ogni costo l’identità
dentro un barattolo impermeabile, come se fosse marmellata.
Ma torniamo all’incontro.
Seguono gli interventi di Enrico Giacopelli che richiama l’attenzione
degli architetti sulla necessità di allargare il proprio campo d’azione,
in un mondo che diviene sempre più accessibile grazie alle tecnologie
della comunicazione.
Graziano Pelagatti apre il dibattito tra i presenti. Sconforto, preoccupazione,
per una situazione difficile anche per la crisi economica in atto. Disillusione,
comunque; e voglia di novità per uscire da una situazione ormai insostenibile
professionalmente.
(Sandro Lazier
- 12/11/2009)
Per condividere l'articolo:
![]() |
Altri articoli di Sandro Lazier |
![]() |
Invia un commento all'articolo |
![]() |
Stampa: "Architetti, crisi e architettura.pdf" |
Commento 7599 di pietro pagliardini del 13/11/2009
Devo dire che i convegni, salvo rari casi, sono una sicurezza, nel senso che non producendo novità di sorta ci concedono un rassicurante senso di tranquillità. Anche questo non sfugge alla regola, salvo su un punto che, devo ammettere, è raro ascoltare. Ma procedo con ordine.
Sulla “formazione” sono d’accordo con Sandro Lazier, anche se con motivazioni diverse: non è nemmeno da ipotizzare in regime ordinistico. Se la professione fosse organizzata con un sistema associativo nel quale ogni architetto potesse “scegliere” se e a quale organizzazione aderire, allora la “formazione” sarebbe una libera scelta e niente da dire. Ma essendo impossibile non essere iscritti all’ordine se si intende esercitare la professione di architetto, la formazione diverrebbe obbligatoria e, tenuta dagli ordini stessi, diventerebbe ipso facto una mera operazione burocratica, economica e di auto alimentazione del potere dell’ordine sull’iscritto. Si dica allora che non esiste la libera professione, come ad esempio i medici di base cui poco è rimasto di libero, e che diventiamo tutti funzionari convenzionati con lo stato, se non dipendenti. Potrebbe essere comodo di questi tempi diventare “architetti condotti”, con relativo stipendio, ma non ci fa fare un passo avanti.
Non sono invece affatto d’accordo sui timori di Lazier che fonda la professione di architetto su basi “creative” ma questo è un altro discorso che sarebbe lungo affrontare, anche se concordo sul fatto che una disciplina (che non esiste in verità e ce ne sarebbe bisogno) non può essere affidata, al solito, ad un organismo obbligatorio come è l’ordine. Comincio a credere che anche la scuola obbligatoria, anche se fondata su motivazioni nobili, sia una violazione della libertà individuale e delle famiglie, figuriamoci se posso essere d’accordo con l’obbligo dell’educazione permanente per gli adulti e gli anziani!
Vorrei poi ricordare a Lazier che la “formazone” non è figlia dell’ultimo anno del “governo conservatore”, ma è un cavallo di battaglia della sinistra che, con le sue varie organizzazioni, sindacati in prima linea, ha fatto di questa uno dei business del secolo. E anche l’Europa non scherza quanto a contributi economici in tal senso. Dunque mi permetta di dire che la sua analisi in questo punto è profondamente sbagliata. Purtroppo il governo non è sufficientemente “conservatore” e ha il difetto di avere assimilato molti dei vizi di quello “progressista”, dato che il business evidentemente non ha partito.
Il punto veramente nuovo è quello del confronto e della competizione. Sentir dire: ”Essere rivali nella ricerca della qualità, essere rivali nel confronto culturale e delle idee, confrontarsi sui risultati e sui successi significa essere attori di un mondo di valori positivi. In quel mondo a cui a volte guardiamo persino con dolore non sono più bravi di noi. Lo sono diventati, perché hanno scelto di sfidarsi sul terreno delle idee e non sul terreno dei fatturati o addirittura su quello delle vanità che rappresentano il gradino più basso della dignità umana perduta”. Perfetto ma, non per volere a tutti i costi fare distinguo, anche il fatturato conta, eccome. Non riconoscere un valore economico al nostro lavoro, e quindi non confrontarsi anche su di esso in una logica di leale concorrenza, significa condannarci a guardare agli altri ancora con dolore. Significa non riconoscere le differenza tra uno studio e l’altro e quindi ritornare all’assurda concezione insita nel sistema ordini stico che tutti siamo uguali. Non è così. C’è chi può fare ottimi progetti a costi inferiori di altri; è una condizione di assoluta normalità in un sistema economico come il nostro. Continuare nel lamento delle tariffe (tranquilli, le stanno reintroducendo) significa restare nell’ambito di un sistema corporativo e protetto fuori dalla realtà. Diverso è il caso di porre limiti ai ribassi, ma la parola ribasso non ci può fare paura.
Dove invece non seguo affatto Lazier è in quella lunga e artificiosa definizione di ciò che è di destra e ciò che è di sinistra. E’ come la metropolitana che sarebbe di destra e la tramvia di sinistra. A Firenze posso dire che la tramvia è venuta proprio male e pare che anche l’alta velocità interrata non prometta bene: sono di sinistra ma le hanno sbagliate proprio tutte.
Oppure “L’architettura è una bestia strana che tiene insieme conservatori di destra e di sinistra, per cui molti progetti di destra vengono promossi da eminenti personalità della sinistra” è ovviamente reversibile e varrebbe lo stesso. Meglio evitare queste schematizzazioni.
Saluti
Pietro
Commento 7643 di Renzo Marrucci del 05/12/2009
UNA PATRIA PIù LARGA E PIù GRANDE?
Difficile chiedere ai giovani di non lasciare l’Italia…
Come possono i giovani non andare via?
Cosa dovrebbero fare?! Rimanere a fare i bamboccioni, come un ministro della Repubblica li definì, con una punta di cinismo pseudo borghese di inizio novecento?
Chi studia e vuole affrontare la vita sui propri valori se ne va altrove, qui non trova che porte chiuse e la speranza è senza opportunità e, se qualche speranza esiste, la trova solo nello stare in famiglia. E in quale tipo di famiglia? Non certo in una famiglia normale che oggi fatica a vivere… Non certo in questa società le cui crepe in cui infilarsi sono ormai ben sigillate..Non solo dalla precauzione di scelta, di accesso limitato e preconfezionato da partiti e società, secondo crismi che possono essere definiti come minimo fuori misura… In una realtà in cui l’accesso alle Università è diventato un problema per gli studenti e non è più possibile studiare ciò che vorrebbero, se non attraverso peripezie ecc…
Dopo anni di sacrifici nello studio anche i giovani più impegnati trovano vita difficile in Italia e la ricerca del lavoro è sempre più frustrante…
Siamo sinceri: che cosa ha preparato a questi giovani il sistema sociale e politico ? Per quale tipo di sacrificio si preparano ? Capisco bene lo spirito del Presidente della Repubblica Napolitano, ma come si fa a chiedere ai giovani di rimanere in Italia ? A quale costo? Un genitore che vuole il bene del figlio che deve fare: invitarlo al sacrificio in patria, oggi che la patria diventa più larga e più grande?
Chi non ha un riparo nella famiglia dove deve trovarlo ? Perché signor Presidente o signor ministro…non formare delle case parcheggio per giovani cervelli come ultima possibilità prima dell’espatrio? Almeno avremmo l’occasione di vergognarci e non nascondere sotto al tappeto le nostre inadempienze, non trova?
E chi ha invece un cervello normale ed è animato dalla più umile idea di trovare un lavoro e farsi una casa e avere un futuro come deve fare ? Se poi è uno che possiede altre capacità che deve fare? Formiamo anche qui una cassa per i giovani perché le banche pensano ad altro… non trovate? Sarebbe davvero interessante uno specifico impegno…
Si parla di cervelli, ma anche solo chi vuole lavorare se ne và… come una volta, ma questa volta in patria larga, l’Europa…e per chi non vuole passare una sorta di umiliante eterno servizio presso Baroni e baronetti, capi e capetti di ogni specie e misura …che fare?
Non sarà il caso di osservare meglio la realtà e navigarci dentro ai problemi di oggi,con più realismo ?Lo domando anche a me stesso, ma io non ho che delle preoccupazioni…
Come si può chiedere ai giovani di sacrificarsi per la stupidità o l’impotenza dei padri... senza un aiuto che non li condanni a seguire concorsi con la sporca abitudine di esser predestinati?...
Bisogna operare affinchè in Italia ci sia giustizia e nella società si recuperi il senso del valore... perchè è questo di cui non solo i giovani hanno bisogno più di ogni altra cosa, per trovare e ritrovare un terreno in cui sia possibile sperare e lottare e non solo umiliarsi senza fine, nello sperare in una astratta e fatalistica idea dopo aver fatto il proprio dovere !
Commento 7646 di Flavio Casgnola del 07/12/2009
“Fare gli architetti significa fare politica e cultura”.
Non sono daccordo, o meglio, lo sono solo in parte.
L’Architettura in quanto tale è una forma dell’espressività e creatività umana che prescinde dalla politica, se non per le implicazioni deboli legate alla pianificazione territoriale e, di contro dovrebbe influenzare la cultura, intesa come costume, ma solo per gli aspetti più profondi legati alla sensibilità estetica.
Tutto il resto è pura demagogia o, peggio, retorica.
Sandro Lazier nel dire che quest’affermazione è vera quanto confusa e rischiosa, a mio giudizio, in un certo senso, rischia di ridurre il concetto a considerazioni del tutto legate a visioni “ingessate” della questione, ed allora...:”. Fa supporre, infatti, che ci sia un’architettura di destra e una di sinistra, un’architettura conservatrice e una progressista. Il che è evidentemente molto vero. Ma si dà il caso che molti intellettuali di sinistra ragionino come architetti di destra e che architetti di destra, a dire il vero pochi, propongano progetti molto di sinistra. L’architettura è una bestia strana che tiene insieme conservatori di destra e di sinistra, per cui molti progetti di destra vengono promossi da eminenti personalità della sinistra. Sull’indole democratica dell’architettura moderna si è detto e scritto molto, non sempre adeguatamente. Tuttavia non è così arduo comprendere che un’architettura composta dall’esterno, posata e monumentale, oppure pittoresca ma con tutte le sue finestrelle in armonia col prospetto, costringa chi ci abita a subirne l’ordine e la disciplina; mentre un’architettura apparentemente disordinata e casuale sicuramente concede a chi l’abita di vedere secondo desiderio e necessità, senza destinare nulla all’arbitrio del prospetto. La prima è evidentemente un’architettura imposta, quindi di destra; la seconda, più libera, di sinistra. L’architettura popolare spontanea, tipica delle Alpi soprattutto occidentali, sintesi tra necessità interne e risultato esterno, è una sublime architettura di sinistra, oggi paradossalmente difesa da accaniti conservatori di destra che in maggioranza votano a sinistra. I palazzotti neoclassici dell’ottocento, sorta di esperanto architettonico presente in ogni luogo della terra, come le multinazionali, tanto cari a molti intellettuali di sinistra, sono architetture di destra. Il dialetto, in architettura, è sicuramente di sinistra, l’esperanto di destra. Ma il dialetto è tale perché strumentale alla cultura e alle necessità di un luogo. Se cambia la sua finalità, se da strumento diviene riferimento formale, inevitabilmente si scivola nel balbettio del tradizionalismo, perché senza adeguare il linguaggio, senza l’introduzione di neologismi si finisce nell’impossibilità di dare risposte ad una cultura che inevitabilmente cambia. E il balbettio è profondamente di destra, nella sua pretesa di conservare ad ogni costo l’identità dentro un barattolo impermeabile, come se fosse marmellata.”
Sembra quasi scritto da Giorgio Gaber.
Caro Lazier, ti faccio troppo intelligente e profondo per non ritenere che la tua sia solo un’acuta provocazione e, in questo mi trovo assolutamente d’accordo, di provocazioni, in una Cultura Ufficiale così tanto conformista e banale come la nostra, ne abbiamo sempre assoluto bisogno.
Commento 7655 di andrea pacciani del 14/12/2009
Ma quanti convegni ci vogliono per sfatare il tabù della giuria popolare nei concorsi di architettura? In rappresentanza o a sorteggio tra quelli che dovranno vivere in quell'oggetto di concorso.
Dalla magistratura impariamo che per i delitti con pene sopra i 24 anni,mi sembra, e i progetti di architettura sono ad essi comparabili per lunghezza della pena a cui i cittadini sono spesso sottomessi, decidono in nove: un presidente di giuria - un architetto togato, universitario (?) , due giudici a latere - due architetti laureati, 6 giudici popolari con minimo licenza media.
Salvo smentite dai più esperti (non mi intendo della materia) tutti hanno parità di voto e quindi i giudici popolari possono a maggioranza smentire i giudici togati.
Aspettiamo il coraggio degli architetti a giudicare come in magistratura
Commento 7656 di Vilma Torselli del 14/12/2009
A Flavio Casgnola:
“L’Architettura in quanto tale è una forma dell’espressività e creatività umana che prescinde dalla politica, se non per le implicazioni deboli legate alla pianificazione territoriale e, di contro dovrebbe influenzare la cultura, intesa come costume, ma solo per gli aspetti più profondi legati alla sensibilità estetica.
Tutto il resto è pura demagogia o, peggio, retorica.”
Non sono d’accordo, neanche in parte, e confesso che è una delle poche volte, se non l’unica (non è uno scherzo, vero?), in cui sento affermare da un architetto che ciò che fa vuole avere come risultato prioritario di influenzare “gli aspetti più profondi legati alla sensibilità estetica”, (tutto il resto è optional).
Dire che “Fare gli architetti significa fare politica e cultura” non vuol dire che l’architetto debba piattamente aderire alla pianificazioni (politiche) di chicchessia, mi sembrerebbe una lettura piuttosto semplicistica dell’affermazione di Sandro, così come mi sembra oltremodo riduttivo dire che l’architettura sia un fenomeno di costume legato alla “sensibilità estetica” dei destinatari.
C’è un innegabile legame tra etica ed estetica (tra bene e bellezza) in base al quale
l’architettura che sollecita ed appaga la ‘sensibilità estetica’ del maggior numero possibile di fruitori (dato che ogni architettura è patrimonio collettivo), acquisisce automaticamente una valenza etica, altro che ‘prescindere’!.
(Se vogliamo discutere del rapporto etica-politica dobbiamo probabilmente spostarci su un altro blog).
Edoardo Boncinelli (‘Come nascono le idee’, 2008) mette in risalto il “carattere fortemente sociale della creatività” , mezzo per soddisfare, in termini di novità e fruibilità, bisogni condivisi, e proprio la soddisfazione di bisogni, o se vogliamo, l’assolvimento di una funzione, è da sempre uno dei temi caldi se si parla di architettura. Soddisfare i bisogni dei fruitori vuol dire fare ‘politica’, direttamente o indirettamente, quando quei bisogni siano determinanti per il buon andamento della convivenza civile, sociale e comunitaria.
Voglio fare anch’io un po’ di retorica e citare una frase di William Morris: "L'architettura abbraccia l'intero ambiente della vita, e rappresenta l'insieme delle trasformazioni operate sulla superficie terrestre in vista delle necessità umane" dove il fare architettura ha proprio il senso dell’operare in vista dell’assolvimento di bisogni (necessità umane) e funzioni.
In epoca di bipolarismo, anch'io trovo divertenti, oltre che provocatorie, le divisioni proposte da Sandro tra destra e sinistra dell’architettura (ci manca solo un’indagine per sapere se l’architetto con la canotta è di sinistra e quello con la T-shirt di destra), divisioni che comunque sono paradigma di una situazione assolutamente realistica.
Commento 7657 di Flavio Casgnola del 14/12/2009
A Vilma Torselli:
Tutto nasce dal significato delle parole, o meglio, dal significato che vi vogliamo dare.
L'estetica, in quanto disciplina filosofica rivolta alla conoscenza del bello naturale e artistico, ovvero di giudizio del gusto è, tra le sensibilità umane forse la più trascendente.
Volendo scomodare Immanuel Kant, nella Critica della ragion pura, la tratta come teoria della conoscenza basata, appunto, sulle sue proprie funzioni trascendentali per poi riprendere il concetto nella Critica del giudizio dove a proposito del "giudizio estetico" espone la sua teoria sul bello soggettivo e su quello naturale (oggettivo) che si esprime nel sentimento del sublime.
Cara Vilma, io volevo semplicemente dire che fare l’Architetto è qualcosa di più sottile e indefinibile di tutto ciò che ovviamente automaticamente comporta.
Come scrive Pierluigi Panza: “Il paradosso della società della bellezza sopra ogni cosa e ad ogni costo (la nostra) è quello di essere senza bellezza o, almeno, di averne smarrito i significati.”
L’etica è legata al tempo, l’estetica vi prescinde.
In tutti i casi ho apprezzato molto la tua “difesa giacobina” del valore etico del fare Architettura.
14/12/2009 - Sandro Lazier risponde a Flavio Casgnola
Lei dice: “L’etica è legata al tempo, l’estetica vi prescinde.”
Ebbene no! Questa non può passare indenne.
L’esteticità, se vuole, è caratteristica senza tempo. Ma ha poco a che vedere con l’estetica. La bella calligrafia piace a tutti in ogni tempo, ma non determina la qualità estetica di un testo. Credo sia ormai concetto assodato che l’estetica, intesa come filosofia dell’arte, abbia a che fare con la “forma” del sentire, indipendentemente dall’aderenza di questa ad un concetto universalmente condiviso di bellezza. L’arte contemporanea non ha pretesa d’esser bella né brutta. Deve sedurre, qui e ora. Altro che prescindere dal tempo. Può piacere o meno, ma è così.
Altra cosa è la scrittura (di un testo letterario, di un dipinto, di una scultura, di un’opera d’arte in genere) che rinasce ogni volta che incontriamo. Converrà che i canoni estetici di una modella del rinascimento divergano notevolmente da quelli di una modella contemporanea. Apprezziamo pertanto un quadro rinascimentale per la sua scrittura e non per la bellezza del soggetto rappresentato.
E se la scrittura continua a valere negli anni non è per via della sua imprescindibilità dal tempo, ma per la nostra capacità di rileggere e rigenerare di volta in volta un sentire che si è formato anche grazie ad essa.
A differenza dei suoi contemporanei, oggi apprezziamo Van Gogh perché appartiene al nostro patrimonio genetico formale. Se l’estetica di Van Gogh avesse avuto caratteri oggettivi imprescindibili dal tempo, perché non è stata apprezzata anche prima? Anche se i nostri “canoni estetici” – passatemi i termini – sono mutati, nella sua scrittura riconosciamo segni capaci di mettere in moto sentimenti culturalmente sedimentati. Il nostro mondo culturale, creato dal nostro rapporto (conflitto) con le cose di natura, in fondo è quello che abbiamo voluto perché frutto di scelte successive e collettive. Arte ed estetica comprese.
Cos’è più etico e politico di questo?
Commento 7660 di Flavio Casgnola del 15/12/2009
Carissimo Sandro Lazier,
Credo proprio che, seppur su piani diversi, diciamo cose non così distanti da come possono apparire a prima vista, evidentemente sono stato io poco chiaro.
Il tempo è una variabile fisica solo e in quanto noi lo possiamo misurare in rapporto alla spazialità a noi comprensibile. In quanto tale, il tempo, senza collegamenti con il mondo fisico non esisterebbe. Mi voglio spiegare meglio; siamo noi a classificare la nostra storia secondo ere, fasi, periodi, epoche ed a determinare un percorso lineare dal passato al presente, ipotizzando il futuro, cercando di dare, quindi, un senso alla nostra precarietà, appunto, temporale.
La Bellezza no.
La Bellezza è qualcosa di assoluto ed infatti, non al suo tempo ma, pur sempre, nel tempo, apprezziamo l’estetica di Van Gogh e non credo che sia solo perchè “i nostri canoni estetici sono mutati e nella sua scrittura riconosciamo segni capaci di mettere in moto sentimenti culturalmente sedimentati” ma, anche, ed io credo soprattutto, perchè l’estetica di Van Gogh già conteneva un valore assoluto e, come nelle scoperte scientifiche, solo oggi siamo in grado di decodificarlo compiutamente. É Van Gogh che ha anticipato i tempi ed è proprio per questo che oggi lo comprendiamo.
"La bellezza salverà il mondo" afferma il principe Miškin nell'Idiota di Dostoevskij, “in fondo l'umanità è stata capace di una sola grande idea": distogliere la mente dal dubbio che il caos assoluto sia legge universale.Ed in questo senso lo ha già salvato. È esattamente quello che l'arte ha fatto nel corso del tempo. Da Stonehenge, a Tikal, dal Partenone a Ronchamp dalla sesta sinfonia di Beethoven alla n. 40 di Mozart, misura e armonia convivono in una dimensione, per molti aspetti, trascendente ed in ogni caso, oltre il tempo. "Potenza dello spirito e della parola, che regnano sorridendo sulla vita inconsapevole e muta", diceva Thomas Mann.
In tutti i casi sono lieto di aver avuto modo di confrontare queste mie idee sull’argomento con il suo pensiero che continuo a trovare sempre ricco di stimoli e acute riflessioni, anche se non sempre condivise.
Con stima e simpatia,
Flavio Casgnola
15/12/2009 - Sandro Lazier risponde a Flavio Casgnola
Casgnola, mi creda. Il "bello assoluto" appartiene al passato. Lo lasci dove sta.
Commento 7667 di renzo marrucci del 20/12/2009
Forse l'epoca del bello molto relativo sta riproponendo qualche cosa che ci fa sentire non dico nostalgia ma la mancanza di qualche cosa di profondo, o almeno di sensato che sta evaporando dalla vita di tutti i giorni...
Commento 7668 di Vilma Torselli del 20/12/2009
Il concetto del bello (e del brutto) ha subìto e subisce continue trasformazioni nel tempo, legato com’è ad un excursus storico-critico che parte dalla concezione platonica e classica di bellezza basata su proporzione ed armonia fino a giungere, oggi, al predominio di una voluta, provocatoria dissonanza formale che pare il linguaggio più adatto ad esprimere la crisi della cultura contemporanea. Tanto che chi si occupa di comunicazione visiva si chiede se nell’estetica moderna sia il brutto ad essere diventato la vera bellezza.
Umberto Eco ha scritto una interessante “Storia della bellezza” (2004) , a cui ha fatto seguito, per par condicio, una altrettanto interessante "Storia della Bruttezza”(2007) partendo proprio dal presupposto che la Bellezza non sia mai stata, nel corso dei secoli, un valore assoluto e atemporale: la lettura potrebbe chiarire tante idee, specialmente a Flavio Casgnola.
Commento 7669 di Giannino Cusano del 21/12/2009
Ne va della nostra civiltà: bisogna tenerlo ben fermo. L'arte è indagine e conoscenza che riguarda i nostri stati d'animo e che non vanno confusi con le pure passioni. E' nella natura stessa dell'arte, che non è eticità ma da questa non può prescindere, di riconquistarci all'espressione. Per eticità dell'arte non dobbiamo intendere un insieme di norme e dottrine, ma un più profondo senso di unità psicologica della coscienza.
"Filosofia del linguaggio e scienza dell'espressione" aveva sottotitolato Croce la sua prima Estetica. Il linguaggio, qui, non è quello di De Saussure, dei semiologi e dei linguisti, ma il linguaggio creativo. E non è insieme di norme, Grammatiche e classi grammaticali ma, semplicemente, ciò che le ignora e, quando se le trova contro, le distrugge. Né può fare altrimenti, per liberare nuovamente la propria stessa natura e la nostra capacità espressiva dall'afasia e dalla laconicità e povertà percettiva e concettuale.
Non c'è logico o filologo, per quanto freddo e pedante, che anche nel più astratto ragionamento possa prescindere dall'espressione, perché non esiste concetto vuoto, ma solo espresso in forme. Chiunque voglia esprimere un qualsiasi concetto, per quanto arido, non può fare a meno di avvalersi di parole, suoni forme e particolari simbolismi.
Non c'è aspetto della vita in quanto espressione che non sia in qualche modo legato all'arte, se la vita stessa non vuole ridursi ad atto muto o peggio a meccanica ripetizione all'infinito di ciò che è giunto a noi già confezionato e ripetuto fino alla noia. E' un altro aspetto della funzione liberatrice dell'arte: attraverso l'attività creativa, di scacciare la passività e l'inerzia. Guardiamoci intorno: quanti edifici, quartieri, città si salvano dall'inerte, acritica, fatalistica accettazione dello "statu quo ante"?
G.C.
Commento 7672 di Flavio Casgnola del 21/12/2009
Mi piace citare proprio Umberto Eco che conosco bene, ammiro molto e, spesso, non condivido, quando cita a sua volta: "L'artista non ha convinzioni etiche. Una convinzione etica in un artista è un imperdonabile manierismo dello stile" (Wilde, Prefazione al Dorian Gray).
Sono felice di vedere che, almeno, sono riuscito a far riflettere su un argomento che si riteneva del tutto superato... e, come osserva con grande sensibilità Renzo Marrucci, “Forse l'epoca del bello molto relativo sta riproponendo qualche cosa che ci fa sentire non dico nostalgia ma la mancanza di qualche cosa di profondo, o almeno di sensato che sta evaporando dalla vita di tutti i giorni...
É esattamente quello che cercavo di trasmettere!
Commento 7675 di Vilma Torselli del 21/12/2009
In arte non ha senso parlare di buono o cattivo, ma solo di bello o brutto, l’arte può esprimersi liberamente senza autolimitarsi né finalizzarsi, può essere bella e cattiva, brutta e buona, può essere contemporaneamente bella e brutta, buona e cattiva, senza intenzionalità alcuna, senza scopo e senza utilità.
Ha ragione Eco, che per la verità compie un ragionamento più articolato di come sembrerebbe nella citazione di Casgnola: "L'artista non ha convinzioni etiche”, non servirebbero, l’arte è comunque etica, suo malgrado e al di là delle sue stesse intenzioni (l’intenzionalità condurrebbe ad “un imperdonabile manierismo dello stile"): è etica perché ha a che fare con i comportamenti umani, con la società, con i costumi, è etica perché, per tornare ad Eco, essa è "metafora epistemologica di una persuasione culturale assimilata" ed in grado di definire il mondo come qualsiasi altro strumento conoscitivo del sapere del suo tempo.
Commento 7676 di Renzo marrucci del 22/12/2009
Io penso e credo che l'artista debba avere particolari convinzioni etiche e senza queste convinzioni la società si perde nella idea del tutto... Io credo anche che certi studiosi abbiano fatto più male che bene nella loro inconscia volontà di potere...
Avere convinzioni etiche non significa agire secondo una idea precisa e
declamata... significa solo che l'arte è necessaria all'uomo rispetto alla sua condizione di equilibrio che viene espressa nella vita e nella società... come condizione indispensabile dell'individuo rispetto al mondo...
Commento 7761 di luigi nucita del 14/01/2010
Non avendo un pensiero originale mi affido ad un maestro, Carlo Ludovico Ragghianti
“Naturalmente quasi inosservato il volumetto di Tullio de Mauro che ha per titolo Il linguaggio della critica d'arte (Vallecchi Firenze 1965 pp68), e lo esamina sia come linguaggio speciale o uso speciale di lingua, sia nella formazione storica del suo vocabolario, concentrando l'attenzione sulle "radici storiche, complesse e spesso assai profonde, della moderna critica artistica".
(...) l'autore constata che il lessico di derivazione antica è orientato soprattutto verso la definizione di significati denotanti le diverse modalità figurative della loro esteriorità materiale o tecnica (pittura, scultura, architettura, plastica), ovvero denotanti entità elementi o caratteri ritenuti oggettivi (forma, linea, figura, composizione); mentre il lessico moderno "è orientato verso l'individuazione di significati denotanti momenti o qualità della creazione artistica e della comprensione, considerati al di là della diversità di tecniche esecutive (arte, gusto, genio, artistico, espressivo)".
Il lessico riflette cioè "la congiunta scoperta dell'unità delle arti e del primato della personalità creatrice dell'artista" nell'opera compiuta. "Nella conquista di concetti e significati coglienti gli elementi unitari e soggettivi al di là dell'oggettiva diversità delle tecniche esecutive, i motivi platonici hanno probabilmente avuto meno peso di quanto le dispute teoriche rinascimentali potrebbero far credere, come è lecito indurre dall'assenza di loro riflessi sul piano linguistico...Bello per quanto sia parola di grandissima frequenza nel linguaggio corrente, è ai margini del linguaggio critico ...Non bello o bellezza, ma arte, artista, forma sono le parole dominanti nell'uso linguistico della critica d'arte contemporanea: parole che, per i legami di affinità con altre parole delle lingue storiche, per i loro significati anche non estetici, alludono all'arte non in quanto platonica contemplazione o sentimentalistica eccitazione, ma in quanto operatrice e formatrice". (Arti della visione - Il linguaggio artistico 1979 Einaudi)
[Torna su]
[Torna alla PrimaPagina]