Storia e Critica 3 - Il destino
di Sandro Lazier
- 15/8/2001

Negli articoli precedenti ho sostenuto che il senso della
storia sta nella trama che intesse i fatti e nel nesso che li dà
a intendere. Lo stesso senso è rintracciabile in ciò che
definiamo comunemente destino.
Quando leggiamo un libro di storia - e conosciamo a priori i fatti essenziali
- cerchiamo nel racconto il preciso motivo per cui le cose sono andate
in certo modo e non in altro, come se queste fossero predestinate o guidate
da una ragione superiore. Tutte le azioni descritte, infatti, sembrano
seguire una traccia che mira ad un fine noto, quando il fine è
noto.
L'idea di destino sembra essere il solo strumento capace di dare significato
alla casualità degli eventi e di organizzare gli accadimenti in
relazione al loro epilogo. Ma tutto questo, in sostanza, è anche
la base di ciò che in letteratura chiamiamo racconto, espresso
in forma di romanzo (e la Storia non ne è esclusa).
Il romanzo è la forma letteraria che ha avuto il suo culmine nel
milleottocento e, nel bene e nel male, si è trascinata fino ai
nostri giorni. La sua struttura è relativamente semplice: una genesi
ben definita nel tempo e nello spazio, una trama fitta e intrigante, un
epilogo tragico o fortunato. L'idea di predestinazione è sempre
presente e tutto l'intreccio appare compatto, coerente e rigorosamente
costruito. Praticamente l'esatto contrario della moderna e meno nobile
"telenovela" dove non sono gli eventi a seguire una trama ma
l'opposto,e dove, soprattutto, non c'è predestinazione perché
nemmeno l'autore sa dove si andrà a finire.
Stringendo il concetto, il romanzo più breve è senz'altro
questo: nacque, visse, morì.
Descrive la vicenda di tutti gli uomini i quali di questo destino, a differenza
degli altri esseri viventi, hanno consapevolezza. Il fine è noto,
tragicamente noto: la scomparsa. Un finale talmente forte che tutto ciò
che accade durante la vita pare scritto in funzione di drammatica conclusione
(tragedia) o di cinica beffa (commedia). Tutta la vita, e l'arte che ne
esprime i segni, in sintesi, sono questo. Sembra molto poco, è
vero, ma questo abbiamo.
Nel 1998 sono andato a vedere la mostra di un giovane pittore
precocemente scomparso. Le tele più recenti, a differenza delle
più lontane che erano dipinte con coerenza e che mostravano maniera
nella tecnica e nella figura, stavano abbandonando ogni riferimento fedele
al realismo della rappresentazione. Le figure non stavano più in
relazione con loro e con il tutto. Non c'era più né scala
né prospettiva, gli oggetti vicini erano senza proporzione rispetto
a quelli più lontani, come se il tempo e la percorrenza fra gli
stessi fosse annullata dal loro essere tutti contemporaneamente presenti
e la loro dimensione fosse determinata soltanto dalla forza con la quale
questi dichiaravano di voler esistere. La tecnica svaniva in pochi segni
colorati quasi infantili, addirittura caricaturali, volutamente sporchi.
Lungo il percorso museale era esposta una lettera dell'autore. Mi colpì
molto un paragrafo nel quale, con fredda osservazione, egli spiegava la
sua volontà di lasciare tracce dappertutto con la necessità
di segnare una presenza che la prematura morte avrebbe presto cancellato.
Un destino certo, imminente, lo costringeva a marcare ogni cosa che potesse
testimoniare il suo passaggio. Non la tecnica, non la retorica del sapere
o dell'utilità o della ragione. Solo un segno, tanto inutile in
pratica quanto indispensabile alla coscienza. Un segno liberato di ogni
incrostazione ideologica e intellettuale, essenziale e non finito, paradossalmente
sporco perché ripulito nel setaccio di un destino imminente.
A ognuno di noi tocca la stessa sorte, anche se qualcuno, più fortunato,
riesce a vivere più a lungo. Conosciamo la presenza di chi ci ha
preceduto perché ne troviamo le tracce, anche se pochi queste tracce
hanno lasciato con la coscienza del nostro amico pittore scomparso. Solitamente
siamo così presi dai traguardi (che la vita ci pone come necessari)
che il tempo che impieghiamo per raggiungerli lo consideriamo come una
pausa senza particolare significato. Importante è raggiungere la
meta; importante è risolvere problemi, importante è passare
da un piano all'altro nel più breve tempo possibile. Corriamo da
una stanza all'altra attraversando banali corridoi dritti e predestinati
perché lo scopo di chi è in camera da letto è raggiungere
il soggiorno senza perdere tempo nel tragitto. Troppo spesso dimentichiamo
che l'ultima stanza che dobbiamo raggiungere è tragicamente vuota
e, per questo, il percorso che facciamo non deve e non può essere
ridotto alla banale condizione di una pausa. Perché è tutta
la nostra vita. La nostra vita è transito da un piano all'altro,
è stare in corridoio, lasciando impronte e segni che raccontino
con nobiltà e bellezza l'esperienza di esser vissuti.
Tornando alla storia, che nel suo delirio finalistico e
utilitaristico di spiegare gli eventi come serie di successi o sconfitte,
raramente ci racconta di scale e corridoi. Soprattutto, riprendendo il
senso che cogliamo leggendone il racconto, ci costringe ad ignorare pause
e silenzi poco convenienti all'aspirazione dello scrittore di romanzi.
(Sandro Lazier
- 15/8/2001)
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