Architettura (lezioni 21-25)
di Sandro Lazier
- 13/11/2020

Architettura, lezione numero 21
La cultura, quella alta, è una sola: quella umana, che ha un principio
fondamentale inviolabile: tutto ciò che può e vuole vivere deve poterlo
fare.
Il verbo 'vuole' distingue l'uomo dagli altri viventi, perché solo l'uomo ha
coscienza e conoscenza della propria condizione, e solo lui può agire
decidendo.
Ma proprio tutti devono vivere?
È possibile fare eccezioni?
Ecco, quando ci si pone questa domanda, che impone distinzione tra esseri
con gli stessi diritti, si comincia a costruire una sottocultura a cui
appendere le più fantasiose teorie che sempre, nella storia, sono approdate
infine nel razzismo (più o meno mascherato), nella prevaricazione e nella
violenza omicida. Poi guerra e catastrofi.
Ma in questo modo si esce dalla sfera del principio generale che, essendo
tale, sta al di sopra di tutto e lo governa.
Semplice.
Perché?
Perché la morte per la natura non è un problema, perché non esiste, è solo
un cambio di relazioni, e pensare di poterla gestire con l’interruttore
della ragione è pura illusione. Non è gestibile, non è attraversabile
nemmeno col pensiero. A dirla tutta non è nemmeno concepibile, come
dimostrano le varie allegorie popolari nate per rappresentarla.
Ve lo posso garantire perché ci ho provato ad attraversarla, avendone avuto
recentemente la necessità per capire.
Quando si ha un problema serio, infatti, molto serio, non lo si può
semplicemente saltare, scartare o sorpassare. Per risolverlo e superarlo lo
si deve attraversare, bisogna passarci dentro e, quando ci si trova
dall’altra parte, se ne esce in piedi e sulle proprie gambe, più forti e
attrezzati di prima.
Ma questa volta non ce l'ho fatta.
Impossibile.
Non essendo credente, senza neanche il conforto del buon Dio, sono rimasto
coinvolto in un viaggio verso niente, un buco nero che assorbe ogni minima
energia.
Però dopo si capisce molto.
Si guarda da una prospettiva diversa, dal basso, di traverso, mai centrali -
ho detto ‘si guarda’ non ‘si vede’ che fa un’enorme differenza. Si
guarda dal fondo della fossa - perché mentalmente ci si è stati - e si
guardano tutte le sottoculture che sono proliferate per riempire in qualche
modo questo infinito niente.
Sottoculture piccole e grandi, come sono rispettivamente il localismo o le
religioni, tutte pronte a occupare uno spazio che non esiste e rivendicare
una qualche superiorità etica rispetto ai propri simili. Ma le differenze
tra culture religiose, o altre semplicemente polari, non stanno in un
contenitore etico, ma molto più banalmente estetico. Nessuna di queste
vivrebbe senza liturgia, senza costumi, senza danze e cori, mentre la
cultura vera, i principi, non hanno bisogno di rappresentazione alcuna.
Due considerazioni da fare, quindi.
Prima: se una figura culturale a cui ci riferiamo non ha necessità di
immagini allegoriche, vuol dire che sta ai piani alti dell’etica e governa
(o dovrebbe) governare tutti gli altri.
Seconda: se quella che noi chiamiamo estetica, che è l’arte, seduzione dei
sentimenti, ha un potere così forte da portare sul piano dei principi anche
solo piccole comunità locali - spesso con l’appoggio di importanti e forbiti
intellettuali - bisogna riconoscere che, rimesse le cose al loro posto
nell’armadio dell’esistenza, questa virtù può essere uno strumento efficace
e straordinario per dare alle coscienze quella che è l’unica ragione di vita
della comunità umana: vivere.
L’arte ha proprio questa funzione.
L’architettura è arte in questo senso.
Non importa se deve chiedere aiuto alle scienze tecniche e umanistiche tutte
insieme, lo chieda anche nei posti dimenticati, perché ha uno scopo più alto
che si rivolge direttamente al principio generale della vita.
Ogni architetto ha quindi il dovere di lottare per questo scopo, mettendosi
in gioco per liberarsi del giogo delle parcelle sempre più addomesticate da
una concorrenza in cui la qualità professionale sta diventando sempre più
tecnica e legale. L’architettura, dimenticata, e riservata solo a chi la sa
donare col piglio del maestro di cerimonie del Re Sole, così muore e con
essa la meravigliosa società che ha costruito.
Nella foto: Arazzo di Eugenio Tibaldi - 2016
Lezione numero 22
Ora veniamo alla ragione chiave, secondo me, di tutto il disastro
urbanistico contemporaneo, realizzato con una visione solo legale e
utilitaristica del costruito. Manca del tutto l'architettura, mai citata,
che dovrebbe, invece, essere l’artefice principale di ciò che si costruisce.
Voglio chiarire che sto parlando di architettura e non di architetti.
L'architettura la fa chi la sa fare e non solo chi crede di averne i
requisiti e l'esclusiva. Quell’architettura che insiste a chiedere una legge
apposita per favorire lo sviluppo e la crescita culturale e sociale del
paese, ma infine non può fare nulla contro questo principio assoluto e
generale che, anche recentemente, la Corte di Cassazione ha dichiarato
prioritario su tutte le altre norme, inderogabile, al punto che sembra
valere più del diritto a non annegare in mare.
Al diritto alla vita, e viverla come si vuole, si possono opporre eccezioni,
anche le più fantasiose o volgarmente egoistiche o meschine, ma questo
principio non tollera eccezioni.
Credo quindi che ci debbano essere robuste ragioni ideali e fondate su
solide basi scientifiche per rivendicare, fino alla corte più alta, la
propria autorità giuridica.
Ebbene, non si tratta nemmeno di una legge ma di un articolo di un decreto
ministeriale, che avrebbe dovuto essere solo provvisorio: l'art. 9 del D.M.
n. 1444 del 1968, ma che, dopo aver devastato mezzo paese, resiste
inossidabilmente da 62 anni, tanto da diventare monumento di un pensiero
ormai dato per scontato: concernr la distanza che occorre tenere tra pareti
che contengano finestre, anche una sola, e non importa dove. La ragione di
tale imposizione sta nella insalubrità degli edifici che anfratti, cavedi o
altre composizioni planimetriche potrebbero determinare. Per questa norma,
Genova e tutti i centri storici italiani andrebbero demoliti e sostituiti
con un ‘plan Voisin’ nazionale. I tempi del decreto sono più o meno quelli
nei quali Le Corbusier - architetto immenso ma urbanista da arresto -
pontificava teorie oscene.
In quegli anni, nei centri storici - ora chiamati tecnicamente zone A - ci
vivevano gli immigrati del sud del paese, in edifici senza bagni, umidi,
inadeguati, e la gente del posto scappava nella prima periferia in alloggi
nuovi, con grandi finestre e balconi al sole. Risulta perciò legittimo che
teorie che favorissero il rinnovamento delle proprie vite fossero favorite.
Poi le situazioni cominciarono a cambiare.
Tutti noi, oggi, possiamo sperimentare che girare a piedi in una contorta
strada larga 3 metri dà sensazioni ben diverse dal frequentare vialoni
paralleli e percorsi da automobili veloci.
Tutti noi abbiamo ormai conoscenza d’aver sviluppato tecnologie per il
restauro ed il recupero degli edifici - in Italia siamo i primi al mondo - e
che se le abitazioni, dopo il restauro, fossero ancora umide e dannose per
la salute, molti nuovi immigrati starebbero al posto di molte persone
facoltose che, invece, le hanno scelte per andarci a vivere, mandando il
valore del mercato immobiliare a livelli vergognosamente ostili. Di fatto le
zone A sono escluse dagli effetti di tale provvedimento, ma rappresentano
l’esempio di come sia falsa e vecchia teoria affidare al solo distanziamento
tra i fabbricati la salubrità di un isolato. Teoria sul distanziamento che
funziona, pare, solo in tempi di ‘pandemie’, che sono tempi e situazioni di
emergenza, ma che dura da 62 anni ormai completamente fuori da ogni realtà
immaginabile.
Ma soprattutto dimostra quando la progettazione dovrebbe favorire la
riduzione degli spazi sprecati, senza abuso e spreco di suolo, come
insegnano i vecchi centri che, suggerendo il loro impianto planimetrico,
oggi non si potrebbero realizzare.
Questa balorda, inconsapevole e potente limitazione ha guidato la mano di
ogni progettista che ha svolto attività produttiva, costringendolo in
infinite scacchiere che costituiscono tutto il costruito dopo tale norma.
Prima comandava il Codice Civile, con prescrizioni ben collaudate che
arrivano dagli antichi romani, e che allora furono giudicate inadeguate al
nuovo tempo e superate.
Ma ora, non sono decisamente inadeguate?
Dove sarebbe questo robusto principio che dovrebbe tenere in piedi una
stupidaggine simile?
La desolazione delle periferie, la frustrazione di vivere intruppati in
scacchiere impersonali, non ha bisogno di sartoria, rammendi o altri
artifici retorici concilianti, ma di gomma arabica per cancellare una
stupidità urbanistica che giudici - che non sanno nulla di progettazione - e
funzionari - che probabilmente non hanno mai progettato - non riescono a
riconoscere sotto il loro naso.
Lezione numero 23
Ora una riflessione sulla differenza tra l’architettura e gli
architetti.
Ho ripreso un articolo da una rivista cilena che dice e si chiede perché un
bel numero di personaggi del passato, tra cui i più noti, non avessero
titolo accademico specifico per progettare l’architettura (che è il modo
ufficiale di certificare una formazione; ma quale, trattandosi sempre di
teorie in conflitto tra loro?). Eppure ne son diventati maestri.
Il caso più noto in Italia riguarda Carlo Scarpa, dal talento immenso e una
determinazione pari, mai certificata con bolli e titoli, tanto da dover
difendersi più volte in tribunale dall'accusa di abusare della professione.
Non tutti i paesi civili hanno però un elenco coi nomi di chi può lavorare o
meno.
Noi, vergognosamente, portiamo avanti quello nato dalle leggi
razziali/fasciste del 1939, ma pare che nessuno se ne faccia un problema,
convinto com’è che per progettare sia sufficiente un pezzo di carta
autentico per salvarci dalla catastrofe ambientale. Un modo di ragionare che
lo Stato pratica giornalmente, per concedere o proibire, infischiandosene
altamente del resto e delegando ad un’unica chiesa le tante
professioni ideali a cui il confronto, che viene proibito per
deontologia, farebbe solo bene.
Nel nord Europa la professione è veramente libera e, nei paesi anglosassoni,
chiede solo di appartenere ad un organismo autonomo senza la benedizione
dello stato padrone.
Più si scende a sud, più aumenta la preoccupazione per la felicità
dell’architetto e meno quello per l’architettura. E si vede benissimo quanto
conti il valore della progettazione al nord e quanto poco al sud.
La verità è che per fare architettura ci vuole un architetto, vero, capace,
ma se non certificato, come suggerisce l’articolo, forse meglio. Poi
possiamo parlare di professioni tecniche, ma quello è un altro discorso.
Il link all'articolo tradotto è:
Lezione numero 24
Nella lezione 22 precedente abbiamo scoperto con quanta inconscia
irresponsabilità la norma sulla distanza tra ‘fabbricati con finestre’ abbia
rivelato il suo diritto di elevarsi a categoria di principio, incontestabile
e insormontabile. Ma non ne conosciamo più la ragione che, se effettivamente
rimane quella dichiarata all’epoca della sua emanazione, risulta sbagliata,
arcaica, superata, illogica ma soprattutto estremamente dannosa per la
composizione dei progetti d architettura.
Questo fatto, tra l’altro, rimane sintomatico della pretesa della scienza
urbanistica di prevalere e governare l’architettura, assumendone il comando
(ma senza mai la responsabilità conseguente), la direzione e la condotta per
costringerla a rincorrere la banalità delle norme dentro a schemi sempre più
rigidi e soffocanti.
La paranoia normativa ha raggiunto un livello tale che occorrono esperti
tecnici e legali per interpretare tutto ciò che qualsiasi amministrazione
riesce a scrivere nei documenti, che siano piani di attuazione o di tutela
indifferentemente. Spesso illeggibili e grammaticalmente contorti perdono di
vista il motivo per cui vengono scritti ma dedicano tutto l’interesse e
l’attenzione alla sola parte ermeneutica e legale della questione,
instaurando una condizione giuridica anomala, goffa, imballata e ormai al
limite.
Nell'impossibilità di poter dialogare con un sistema altamente confuso,
ingessato, ma ben prefigurato e imposto dalle varie amministrazione, non si
trova nessuna possibilità espressiva sufficiente a giustificare una presenza
architettonica importante, non banale. L’unica architettura possibile deve
rivolgersi al proprio interno e diventare contesto di sé medesimo, virando
fatalmente in una condizione autoreferenziale e unica, dotata di forte
personalità, tale da diventare una sorta di attrattore e riqualificare
l’intero sistema urbanistico circostante. L’idea del museo di Bilbao, di
Frank Gehry, costruito in una delle parti meno prestigiose della città,
impone con un atto d’arte inequivocabile questa pretesa riuscita.
Tra l’altro, come tutte le opere pubbliche che possono realizzarsi in deroga
a norme che il diritto vorrebbe uguali per tutti.
Nelle città contemporanee, la moda di affidare a firme note il progetto
degli spazi importanti, se da un lato è sintomo di un provincialismo diffuso
e desideroso di farsi proteggere dal prestigio di un nome, dall’altro almeno
offre esempio per le visioni di un qualche futuro.
Ma la cosa più importante è che questa nuova centralità rimette in cima alla
gerarchia dei valori l’architettura e dimostra quanto l'urbanistica dovrà in
futuro dipendere da essa.
Prima l'architettura perché è soprattutto lei a definire l’urbanistica
altrimenti chiamata alla soluzione di un falso problema.
Lezione numero 25
(Se vuoi un mondo migliore, inventalo - INTERNO14 - Roma - 2017)
Qui propongo tre testi brevi che avevo scritto a mano su fogli appesi ai
muri della galleria, per una mostra che avevo allestito a Roma grazie
all'invito di Luigi Prestinenza Puglisi, nell'aprile 2017.
Li ripropongo perché sono una buona sintesi delle mie idee e principi
sull'architettura. Idee che si possono discutere e cambiare, perché le idee,
con una buona ragione, si possono sempre cambiare, ma i principi mai.
Con questo testo finiscono le prime 25 lezioni che molto presuntuosamente ho
così chiamato. Ognuno, ovviamente, è libero di considerarle quel che vuole.
1 - Questo dipinto non rappresenta e non vuole rappresentare nulla; è un
pensiero espresso e compiuto ma senza nessun significato.
La liberazione dal senso è la conquista più grande dell'arte contemporanea.
Il 'linguaggio zero' è danza di segni nell'assenza di senso.
2 - Come per la musica e la danza, nessuna architettura ha senso fino a che
non glielo si attribuisce.
Le architetture sono generate dai gesti e non dai racconti: per questo
creano spazio. Cosa fare di questo spazio diventa un problema successivo.
Forma e funzione interagiscono, sempre, anche nella nostra indifferenza.
3 - Questo progetto è una danza, un raccontare come travi, pilastri, muri,
vetrate nascano e comincino una loro vita autonoma. Come le persone nel loro
percorso quotidiano, a volte s'incontrano e altre si scontrano. Quando
questo avviene si genera sempre conflitto.
La capacità dell'architetto di risolverlo è la parte più interessante della
vita e, quindi, dell'architettura.
Si dice che il diavolo stia nei dettagli, perché è lì che nascono i
conflitti; perciò i dettagli, per suscitare emozioni, hanno sempre necessità
di una premessa conflittuale. L'architetto, in fondo, si ispira sempre alla
vita.
(Sandro Lazier
- 13/11/2020)
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