Questo tradizionalismo è scenografia
di Sandro Lazier
- 2/8/2001

Replica al testo di L. Stein
Tradition§ Modernity in Contemporary Practice
Lucien Steil, da buon neo-storicista della tradizione
"bello-robusto-durevole" ci ripropone i soliti argomenti del
tradizionalismo moralistico-figurativo. Tra le altre cose ci dice: "Il
contemporaneo non può essere ridotto ad una umiliazione permanente
del nostro giudizio morale ed estetico." Ed è tutto dire.
Faccio i miei complimenti a L. Stein perché finalmente anche lui
ha trovato la fonte della saggezza e quindi sa perfettamente dove abitano
moralità ed estetica. Se ce lo volesse comunicare gliene saremmo
grati e potremmo pentirci di cercare qualche forma di poesia - sempre
che questa abbia per lui importanza - in quello che egli definisce nichilismo
decostruttivista.
Certamente gli rimarrà difficile dimostrare come ci sia più
riflessione etica in una casetta raffigurata nella tradizione del colonialismo
schiavista elisabettiano che in una favela improvvisata ed anarchica praticamente
impossibile da disegnare.
Il problema, come sempre, è che non si parla di spazio e del linguaggio
che lo scrive, bensì di una malinconica interpretazione della tradizione
costruttiva. Su una cosa concordo in pieno: la ridefinizione dei termini
con i quali tentiamo di parlare di architettura.
Cosa vogliono dire tradizione, modernità, contemporaneo?
Che significato affidiamo alla parola architettura?
Se diamo retta a Gregotti, che in un recente articolo su Repubblica (Effetto
Guggenheim) parla di azioni relative all'architettura <<…al
di fuori della sua stessa ontologia…>> dobbiamo riconoscerle
un ruolo obiettivo (essendo l'ontologia una qualità oggettiva dell'esistenza)
che, francamente, non riesco a cogliere né nelle cose che stanno
nello stato di natura, né in quelle che stanno nei sistemi formali
generati dalla ragione. L'architettura, purtroppo per i cultori dell'evidenza,
esiste solo perché esistono gli uomini che possono leggerne i segni
e, con essa e con i suoi segni, gli stessi uomini possono esprimere il
loro modo di stare nel mondo comunicandolo ai propri simili. In natura,
ontologicamente, l'architettura è solo pietre, o mattoni o altro,
accatastati in un modo anziché in un altro. La capacità
tutta discutibile di leggere "il modo" traducendolo in segno
è l'unica possibilità che abbiamo per definire ciò
che stiamo osservando "architettura". Non ci sono altri modi
e, per questo, l'architettura, come qualsiasi parola, gesto, suono artificioso,
è comunicazione, linguaggio.
Ora, caro Stein, credo proprio che prima dovremo metterci d'accordo sul
significato delle parole; poi, se vuole, potremo anche affrontare il modo
di mettere queste parole all'interno di una struttura che chiameremo racconto.
Magari narrazione storica.
E qui vengo al punto che più mi interessa.
Quasi tutti coloro che, in modo più o meno raffinato, vogliono
convincerci della verità della tradizione fanno giustamente riferimento
ai fatti storici nella loro oggettività e concretezza. Questi fatti,
però, ce li raccontano all'interno di una trama che a loro conviene.
Di solito si tratta di una bella storia, di un racconto figurato nel quale
il bene trionfa sul male, la bellezza sullo squallore, l'ordine sul disordine,
l'armonia sulla dissonanza e così via. Questo avviene perché
la storia di chi vince è sempre migliore di quella di colui che
ha perduto - anche perché quest'ultimo quasi mai ha avuto la possibilità
di raccontarla - e, di solito, chi vince tiene subito a mettere in chiaro
dove sta il bello e dove il buono.
Il dubbio che nella storia vinca sempre il migliore, quindi, mi pare legittimo.
Inoltre, sappiamo chi ha vinto, ma ci è ignoto il perché.
Probabilmente, qualche volta, ha vinto il peggiore e paradossalmente,
colui che si alimenta nella tradizione, pur nel convincimento di perseguire
un fine nobile, potrebbe reiterare imitando le gesta di un malfattore.
Il tradizionalismo, quindi, oltre a essere stupido è anche rischioso,
in quanto acritico, inerme di fronte alla storia perché nella condizione
di poterla soltanto subire nella coerenza e interezza del tipo di racconto
che la produce.
La posizione di noi "moderni" è diversa, o almeno dovrebbe
essere. La storia è letta criticamente, attualizzata e verificata
con le necessità espressive presenti. Bruno Zevi insegna. Non la
si accetta nella sua interezza e coerenza di racconto figurato, bensì
la si verifica mediante una lettura altra, spaziale, effettivamente produttiva.
Se, ad esempio, si vuole considerare la storia dell'architettura secondo
il racconto della "tradizione costruttiva", quella cara ai tradizionalisti
ma spogliandola di riferimenti iconografici, non è difficile scoprire
che l'avvento di moderne tecnologie strutturali ha permesso di rendere
indipendente lo spazio vissuto rispetto alla struttura portante. Una conquista
di libertà spaziale, e quindi di vita delle persone che abitano,
che il tradizionalismo ha voluto e vuole tuttora negare proprio in virtù
di una stravagante interpretazione scenografica della stessa "tradizione
costruttiva".
Per queste ragioni voglio dire che la condizione acritica di un neostoricista
di fronte alla narrazione storica è quella di doversi immaginare
un passato per imporlo al futuro, mentre quella di un moderno è
quella di immaginarsi un futuro per poi proporlo criticamente alla lettura
del passato.
(Sandro Lazier
- 2/8/2001)
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