Storia e Critica. La posizione Zeviana
di Marcello Guido
- 25/6/2001

Sono passati pochi mesi dalla scomparsa di Bruno
Zevi ed una serie di incontri, interviste ed articoli apparsi su varie
riviste impongono una riflessione su alcuni punti emersi nel recente dibattito
riguardo all'idea zeviana di produrre spazio rapportandolo alla cultura
nazionale ed internazionale.
La sua idea, esplicitata fin dagli anni cinquanta con alcune pubblicazioni
di portata storiografica eccezionale, non ha mai subito alcuna inflessione
ed il suo percorso è rimasto estremamente lineare e sintetizzato
nella necessità di affermare i valori di una modernità che
travalicasse i semplici termini temporali presenti nella sua stessa definizione.
Entra giovanissimo nella cultura italiana con una forza ed una vivacità
incredibile, innescando un processo esplosivo ed irreversibile verso gli
ambienti italiani che apparivano immobili ed arroccati intorno ad assurde
ipotesi derivanti dalle impostazioni accademiche delle scuole di belle
arti degli inizi del secolo.
La sua nuova prospettiva era lo studio della storia nei termini essenziali
della operatività: questa non veniva più indagata sotto
i soli aspetti filologici, non veniva esaminata come un corpo morto senza
legami interdisciplinari, ma come un tessuto vivo dove arte, architettura,
storia, società ed iniziative per una società diversa diventavano
un tutt'uno. Questo nuovo modo di guardare la storia diventa essenziale
perché la stessa diventa strumento, può essere letta in
termini trasversali, si possono trovare le analogie linguistiche e capire
infine i termini di una modernità sovrastorica.
L'idea zeviana era quella di avere un rapporto aperto con la storia, annullare
le vischiosità filologiche ed una impostazione unidirezionata,
rivolta a se stessa oppure ad i soli aspetti tipologici, per sfociare
in una sorta di Bauhaus storicizzato, laboratorio unico all'interno del
quale dovevano confluire non solo la storia dell'architettura ma anche
la progettazione, la scienza delle costruzioni, l'urbanistica e tutto
quanto altro occorre alla produzione dello spazio fisico. In tale ottica
si comprende immediatamente come la storia diventa strumento,può
essere letta in termini trasversali e si possono trovare quelle analogie
linguistiche che riescono a sintetizzare in una esperienza unica architetture
che se da una parte sembrerebbero lontanissime nel tempo viceversa si
collocano all'interno di un unico ambito linguistico.
La sua eredità deve essere vista come lascito aperto, disponibile
per tutti coloro che riusciranno a scrollarsi di dosso tutte quelle impostazioni
accademiche ed accademizzanti per attingere alla storia attraverso visioni
emancipate da qualsiasi valore sovrastrutturale.
Le recenti iniziative che si sono svolte in Italia sull'opera di Zevi
impongono però una riflessione ed in molte di queste si riscontra
la necessità di sistematizzare un pensiero ed una azione che viceversa
è sempre sfuggita agli storicismi ed agli impianti accademici in
cui si trova oggi impelagata la cultura italiana.
Si ha l'impressione di assistere ad un tentativo di incorporare, al fine
di accademizzarlo, un lascito culturale che viceversa attraverso gli azzeramenti
continui tendeva alla emancipazione di una cultura, quella italiana, che
risulta fortemente sottomessa alle rigide regole del classicismo.
Da molte parti si avverte il messaggio: Bruno Zevi è stato un critico
eccezionale, di statura gigantesca, si può senza alcun dubbio affermare
che ha spostato gli studi sulla storia dell'architettura verso una operatività
vicina agli architetti, ma dopotutto neanche lui sfuggiva alle regole
di una cultura intrisa di valori storici ed accademici. I suoi scritti
sono eccezionali ed incisivi però, dopotutto, con le sette invarianti
anche lui, se da una parte non amava le regole, attraverso questa elencazione
cadeva in una volontà sistematizzatrice e regolatrice.
Tutto questo non è nuovo e possiamo senza dubbio affermare che
è storicamente accertato il tentativo da parte delle "accademie"
di incamerare tutto quello che sfugge al controllo, e con il termine "accademia"
si intendono tutti quei comportamenti rivolti a frenare le libertà
di linguaggio.
Al riguardo possiamo affermare che il Italia tutti coloro che dal rinascimento
in poi hanno optato per la modernità hanno pagato a caro prezzo
la loro scelta e molte volte con la loro stessa vita.
La Lezione brunelleschiana fu immediatamente annullata dai suoi stessi
discepoli, Ser Filippo fu celebrato come "padre del rinascimento"
però non sopportando il fatto di essere eccessivamente liberi,
da lui, suo malgrado, nasceva la cultura della proporzione, dello spazio
progettato, composto, regolamentato, nasceva la "cultura del disegno".
Così mentre lui tracciò il profilo della sua cupola sulle
rive dell'Arno in scala reale, i suoi allievi, che non capirono nulla
di quella esperienza, indugiarono sul disegno, sulla carta, sul segno,
sulle proporzione e non sulla materia, sullo spazio, sul metodo……,
i suoi discepoli ci lasciarono ciò che del maestro a noi non è
mai arrivato (lui inventore della prospettiva), ciò che non ha
mai considerato come mera speculazione correttiva della realtà,
che non ha mai usato in termini di controllo, bensì di metodo e
di ricerca spaziale.
La poesia Michelangiolesca fu celebrata come qualcosa di eccelso ma immediatamente
posta come atto irraggiungibile dai suoi contemporanei e si avvertirono
tutti di non continuarne il messaggio perché non erano ammesse
ad altri le deroghe concesse al genio. Basta analizzare i contenuti linguistici
delle modanature nella laurenziana oppure dei bastioni fiorentini, architetture
informali ed inedite tanto da apparire acroniche rispetto al rinascimento,
per capire come il maestro aveva messo in atto una visione spaziale cosi
nuova e travolgente rispetto ai canoni rinascimentali tanto da mettere
in ridicolo tutti coloro che volevano esercitare il controllo geometrico
dello spazio fisico. Le opere michelangiolesche furono reinterpretate,
si pensò ad esse in termini puramente mitici, le sregolatezze furono
viste come qualcosa che apparteneva al genio cosi da essere totalmente
riportato all'interno del razionalismo classico rinascimentale.
Per Andrea Palladio il copione fu molto simile: il michelangiolismo di
Palladio fu "tradotto" dalle accademie ottocentesche in termini
di purezza e di "mito", si guardò al maestro veneto in
modo metafisico così che da cancellarne gli "abusi",
"le offese al buon senso" ed i "tanti capricci ed errori"
registrati dallo stesso Francesco Milizia a fine settecento. Dopo di che
"Palladio falsificato" poteva essere architetto da celebrare
negli ideali classicisti.
Francesco Borromini fu portato al suicidio da una cultura attenta alla
celebrazione ed alla autorappresentazione, e se in un primo momento si
cercò di cancellarne la memoria, in seguito si tentò di
accademizzarlo ponendo alla base delle sue architetture la "geometria
come verifica", la tradizione romana come genesi linguistica e l'Opus
Architectonicum come elemento per far capire che dopotutto anche lui cercava
un "sistema generale". Un Borromini cosi tradotto e devitalizzato
resta più funzionale alla tradizione accademica, l'architetto ribelle,
sovvertitore dei ritmi classici, creatore di inauditi scontri spaziali
può essere cosi dimenticato.
Le similitudini storiche nel dibattito sviluppatosi sulle posizioni critiche
di Bruno Zevi ed aperto con la sua improvvisa scomparsa confermano la
volontà da parte di un apparato culturale, quello italiano, di
continuare nell' opera di normalizzazione settecentesca ed ottocentesca
al fine di potere gestire in termini accademici un pensiero che viceversa
si è sempre schierato a favore di una modernità atemporale.
In tutti i dibattiti si pone l'attenzione sulle sette invarianti del linguaggio
moderno formulate da Zevi e si sentenzia: E' stato un grande critico,
uno storico eccezionale, ma dopotutto anche se portava avanti un approccio
libertario e senza regole col le sette invarianti alla fine proponeva
regole e quindi un codice al quale ci si deve riferire se si vuole essere
effettivamente moderni.
Niente di più falso! Le invarianti appartengono alla storia e non
ad un codice, sono linguaggio acquisito da tutti coloro che in venticinque
secoli di storia dell'architettura hanno avuto il coraggio di azzerare
qualsiasi impostazione sovrastrutturale per scrivere architettura attraverso
una lingua emancipata da ogni residuo accademizzante e quindi proporre
spazio nato dai contenuti. L'elenco delle funzioni, elemento che contraddistingue
l'intera vicenda del Movimento Moderno, appartiene alla storia perché
appartiene alle ipotesi spaziali, dalle società preromane a quelle
altomedievali, che hanno azzerato i codici ed i linguaggi organizzati
per scrivere architettura attraverso spazialità nate dai contenuti
per essere umanamente fruite. La reintegrazione edificio-città-territorio
, l'urbatettura non appartiene solo alle ultime ipotesi architettoniche
da leggersi a scala territoriale ma condivide l'agglomerato di Barumini
e la villa adrianea a Tivoli.
Tutti questi esempi non possono essere letti in modo semplicistico e le
invarianti non possono così essere interpretate come "regole".
Resta l'indubbio merito di Bruno Zevi di aver selezionato i passaggi principali
compiuti dall'uomo nel suo millenario processo di formazione di spazio
e di averli portati all'attenzione di tutti. Le invarianti del linguaggio
moderno sono antiprescrittive, vogliono essere esempi per indicare una
strada giusta da seguire e per dire che nel percorso della storia l'uomo
è riuscito a sintetizzare momenti eccezionali. Queste possono essere
interpretate come momento essenziale di critico-operativa nei confronti
della storia contro ogni vischiosità filologica di studi indirizzati
solo verso se stessi. Nessuno direbbe mai che i dadaisti dopotutto appartenevano
anch'essi alle accademie per il semplice fatto che nel loro manifesto
affermarono che l'unica regola possibile era quella di non seguirne sistematicamente
nessuna.
Lo studio della storia nel pensiero zeviano è essenziale e la stessa
non può essere intesa in termini di stretta analisi filologica
e la posizione tafuriana su Biagio Rossetti, ripresa da Manuela Morresi
su un numero di Casabella in occasione di un ricordo di Zevi , che lo
indicava come semplice capomastro non è importante ai fini generali
del discorso perché anche un capomastro, che è privo dell'aggettivazione
accademica di maestro, può dire e fare cose geniali. Si può
anche realizzare un'opera eccezionale senza essere necessariamente maestri
riconosciuti dalle accademie. La posizione di Zevi era quella di indicare
il pauroso depauperamento della città rinascimentale con gli ideali
di "città finita", la crisi del piano urbanistico fondato
sullo zoning e la frattura che dal rinascimento in poi vi è stata
tra il territorio, la città e l'architettura. Merito di un "capomastro"
in ogni caso geniale fu quello di avere anticipato una visione moderna
del costruire la città non sulle trame disumanizzanti e disumanizzate
che appartengono alla città idealizzata da disegni peraltro ormai
sfuggiti dalla mano dell'architetto nella nostra specifica epoca, ma su
una visione flessibile del fare urbanistica attraverso l'architettura
fusa nel paesaggio.
Il recente incontro di Reggio Calabria, ben organizzato dalla locale università,
spinge a fare ulteriori considerazioni di natura critica. Tra gli altri
interventi si registra quello di Franco Purini che entra nel dibattito
toccando il tema essenziale che riguarda il fare architettura con il rapporto
tra la modernità e la storia nel nostro paese. La sua tesi è
subito esplicitata: in Italia la modernità deve essere soggetta
ad una mediazione linguistica perché è necessario un continuo
rapportarsi e "subordinarsi" alla storia. Molti architetti italiani
del Movimento Moderno, Persico, Terragni e tanti altri, hanno dovuto mediare
i loro progetti e non possono inserirsi nella modernità europea,
infine anche in alcuni scritti di Zevi si riesce a cogliere il dubbio
finale della legittimità di una modernità estrinseca e tout-court.
In tale quadro operare in termini di modernità non è possibile
perché il nostro passato rappresenta un freno e deve necessariamente
intervenire nel processo di formazione dello spazio. Ne viene fuori l'idea
che vede lo stesso Zevi da un lato essere elemento eccentrico, molte volte
polemico e rissoso, contrario a tutte le accademie autolegittimate a detenere
la conoscenza ed il sapere legittimo, dall'altro però consapevole
e cosciente che in Italia la modernità non è possibile e
la stessa deve essere mediata. La mediazione nel caso specifico può
essere riportata all'uso delle sette invarianti come formule attraverso
le quali esercitare un costante controllo dello spazio sia fisico che
intellettuale.
L'interpretazione di Purini risulta errata per molti motivi:primo fra
tutti la rinuncia alla modernità.
E' un fatto consolidatosi nel secolo diciottesimo il porsi di fronte al
passato in una condizione di subalternità, si vuole far capire
che il nostro è un paese particolare, dove basta varcare l'uscio
di casa per avere un confronto continuo con i maestri del passato e da
questo confronto l'architetto contemporaneo non può che porsi in
una condizione di inferiorità culturale con la rinuncia a linguaggi
contemporanei. Gli stessi linguaggi saranno mitigati nella idealizzazione
e nella compiutezza formale imposta da una visione accademica dello spazio.
Il fare architettura diventa cosi opera di mediazione attraverso un passato
posto in condizione di staticità e di acriticità. Le stesse
critiche in fondo vengono rivolte agli stessi maestri del passato, cosi
che alcune opere di Michelangelo devono essere necessariamente obliterate,
cancellate dalla memoria, fatte apparire come deroghe concesse ma sopportate
con estremo disagio. Il caso dei contrafforti fiorentini risulta al riguardo
emblematico, il maestro compie un inaspettato gesto di liberazione linguistica
inventando architetture informali e la risposta fu quella di dimenticare,
tanto che furono obliterati per quattrocento anni, quasi si volesse cosi
esorcizzare un processo incontrollabile, fin quando Charles de Tolnay
non pubblica diciotto disegni nel 1940. Perché questo sperpero
inaudito? Perché le informalità michelangiolesche non hanno
avuto alcun seguito e sono state poste in tempi successivi solo come deroga
concessa al genio? Senza dubbio per volontà specifica della cultura
italiana di operare un controllo generale del produrre spazio attraverso
l'esercizio della geometria come elemento principale del fare architettura.
A tal proposito Franco Purini porta ad ulteriore sostegno di questa interpretazione
il peso che la storia deve necessariamente avere nel processo di formazione
dello spazio come elemento di freno per una modernità che viceversa
al di fuori dei confini della nostra penisola può essere estrinsecata
perché privi della peculiarità tutta italiana di essere
a contatto diretto con il passato.
C'è da registrare subito il fatto che purtroppo nel nostro paese
il confronto non si fa con la storia, confronto che sarebbe senza alcun
dubbio positivo e propositivo, ma si fa con la mitizzazione della storia,
il passato viene letto ed interpretato in termini di miti, nei termini
imbastiti e portati avanti dalle accademie italiane settecentesche ed
ottocentesche tendenti ad idealizzare il processo di formazione artistica.
E la formazione artistica abbraccia tutte le attività umane cosi
che resta accademicamente ingiustificato il non parlare e guardare verso
se stessi. Se si prende ad esempio la musica, con tale interpretazione
diventerebbe impensabile in Germania dopo avere avuto i ritmi armonici
e tonali di J. S. Bach e L. Beethoven avere la scuola elettronica di Colonia
ad opera di H. Eimert e principalmente di K. Stockhausen. Resta il fatto
che l'arte dei rumori di Russolo in Italia non ebbe una consecutività
storica, nel paese di Bellini e Rossini non si poteva "comporre"
con i rumori, ed i successivi tentativi furono spostati e portati avanti
a Parigi ed a Berlino. Il passato in altri termini può essere inteso
come intralcio accademico oppure come stimolo attivo, una interpretazione
storicista e passivizzante attua senza dubbio un recupero del passato
in chiave reazionaria mitizzandone contenuti e risultati.
Pochi sono in Italia, nella esperienza del Movimento Moderno, gli architetti
che si sono emancipati da questa visione sintonizzandosi con il pensiero
europeo tanto che nella maggior parte dei casi le tesi di W. Gropius,L.
Mies Van Der Rohe e Le Corbusier furono lette in chiave autonoma e storicista.
Tra i pochi realmente moderni senza dubbio E.Persico e G. Terragni, a
torto citati da Purini come mediatori tra italianità ed europeismo
(abbracciando così una tesi in un qual modo pseudo-fascista della
"mediterraneità" del razionalismo italiano, pur rimanendo
il fatto che sono davvero pochi i testi realmente moderni), perché
riuscirono a guardare al passato in termini attivi per recuperare da questo
non "citazioni" storiciste e frustranti teorie idealizzate ma
capire il percorso culturale e gli azzeramenti linguistici operati per
assimilarne i processi. A tal proposito vale per tutti l'esempio della
Casa del Fascio a Como: Terragni in questa specifica architettura si pone
non tanto al di là dei principi lecorbuseriani ma continua l'esperienza
palladiana perché incarna lo "spazio aperto" che Palladio
esplora in palazzo Chiericati e nella villa Foscari a Mira. Se la casa
del Fascio è opera manierista lo è nella misura in cui recupera
il manierismo ed i michelangiolismi palladiani per esplicitarne ed sviscerarne
i contenuti.
Siamo così lontanissimi dai recuperi simbolici di G. Muzio che
guardava la storia in termini di soliloquio oppure dagli orrendi gusti
macabri di marca piacentiniana. La vicenda dell'architettura moderna si
intreccia in Italia con eventi tragici ed in un certo modo resta legata
a problemi di sopravvivenza fisica: Terragni muore dopo la campagna di
Russia, Persico muore a 36 anni, Pagano e Banfi muoiono assassinati in
un campo di sterminio e lasciano tutti una eredità scomodissima
ad un apparato culturale che guardava al fare architettura con una ottica
accademica, storicizzata e legata agli eclettismi di marca neoclassica.
La visione zeviana del fare architettura e del rapporto tra storia e spazio
progettato è sempre rimasta all'interno di una modernità
assoluta, anche quando la quasi totalità dell'apparato culturale
italiano si era schierata a favore delle nauseanti ipotesi post-moderniste.
Il tentativo storicista di riportare l'architettura entro idealizzazioni
ed astratti valori sovrastrutturali è stato ormai sconfitto,il
fronte della modernità ha vinto, resta il fatto però che
persistono nella nostra cultura nazionale valori accademizzanti e si cercano
ad ogni livello alibi, ci si nasconde dietro al falso "mito della
storia" per tacciare di irrealizzabilità tutto quanto si realizza
negli altri posti e si perpetua il tentativo di normalizzare coloro che
si sono schierati a favore della modernità.
Il tentativo di dilapidazione oggi portato avanti con Bruno Zevi sarà
molto difficile perché se in passato la "normalizzazione"
è riuscita nei confronti di Brunelleschi, Michelangelo, Palladio
e tanti altri è stato possibile perché le loro opere sono
state reinterpretate e tradotte in termini accademici. In questo caso
abbiamo una idea di modernità espressa all'interno di un enorme
patrimonio letterario a disposizione di tutti. Resta disponibile per tutti
coloro che avranno il coraggio di abbandonare regole, dogmi, canoni, astratti
valori sovrastrutturali, per portare avanti l'idea di una architettura
espressa nei termini di un progettare "disturbato" che evita
qualsiasi sintesi e recepisca al proprio interno i valori dell'imperfetto
e dello spazio libero ed in movimento. Dovremmo tutti impegnarci a combattere
i maldestri tentativi di continuare nel nostro paese le frustranti tesi
storiciste ed affermare l'architettura come "joie de vivre"
espressa nello spazio che appartiene a tutti coloro che da Arnolfo di
Cambio a Bruno Zevi un "sapere accademico" ha reso eretici.
(Marcello Guido
- 25/6/2001)
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