Moderno trascurato?
di Sandro Lazier
- 22/1/2002
Su Arch’it, nella sezione file,
Carmen Andriani ci propone “Un'anticipazione di quanto, in modo più
ampio ed integrato, sarà illustrato nel libro edito da METAPOLIS Press,
di prossima pubblicazione” relativo al Convegno Internazionale di studi dal
titolo "Il moderno trascurato: temi figure ed opere 1950/1960" tenuto
presso la facoltà di Architettura di Pescara.
Due frasi del breve testo mi hanno parecchio irritato perché utilizzano
presupposti falsi a sostegno di argomentazioni apparentemente vere.
La prima dice: ”La scelta dei due decenni, anni
Cinquanta e Sessanta, discende da una ragione evidente: in diverse parti del mondo
ed in modo quasi contemporaneo si avvia in quegli anni quel processo di revisione
critica del moderno che comporterà una graduale ma implacabile frantumazione
dei suoi codici.”
Frantumazione dei suoi codici? Ma quali? La sostanza stessa della modernità
è rinuncia di ogni codice arbitrario, è rifiuto della scrittura
stilistica, della retorica e delle sue regole. E’, soprattutto, coscienza
della propria condizione critica in assenza di regole necessarie. Quale crisi
può dunque sorprendere chi della stessa ha fatto il suo destino? La modernità
di crisi si è nutrita e continua a nutrirsi dentro una relazione simbiotica
che nega qualsiasi ingerenza categorica. Chi non ha compreso questa semplice relazione
ne è rimasto vittima, oppure se ne è allontanato rifugiandosi nel
conforto della tradizione, trasfigurando la storia in leggenda, l’autenticità
popolare in folclore, il gergo in vernacolo, giungendo all’assurdo di dichiarare
estinto chi invece lo ha escluso e umiliato. Tutta la storia della modernità
è storia di crisi. Gli anni cinquanta e sessanta ne sono prova, senza necessariamente
dover ricorrere al balbettio del quotidiano. Perché si insiste a non comprendere
le ragioni della modernità riducendone l’immagine a controfigura da
irridere e canzonare?
La seconda dice:” In Italia i tracciati maestri
della storiografia si scrivono nella storia di Bruno Zevi ed in quella di Leonardo
Benevolo e sulle pagine della Casabella di Rogers che condurrà dal 53 al
65. La lente spessa dell’ideologia offusca il giudizio critico; il recupero
delle valenze lasciate libere ha un prezzo: pur esplorando nuovi territori linguistici,
deve essere garantita la continuità con il moderno; quello che non è
sopportabile è l’idea di un suo fallimento e di una crisi che metta
su una strada di non ritorno.”
Credo che parlare di Zevi con su gli occhiali spessi dell’ideologia sia davvero
troppo, anche per il più sprovveduto dei detrattori. L’uomo che ha
esaltato l’organicismo e l’individualismo wrigthiano, che sono l’antitesi
di un’idea meccanica, che ha subito l’ideologia – in forma critica
e fisica - e l’ha combattuta su tutti i fronti, oggi, molto disinvoltamente,
viene liquidato con la retorica postmoderna del sorpasso.
Probabilmente Carmen Andriani non conosce Zevi e dovrebbe astenersi dal citarlo
a sproposito. Ne gioverebbe la cultura architettonica italiana che in queste condizioni
veramente rischia la strada del fallimento e del non ritorno.
La storiografia zeviana, critica al punto da fondersi sintatticamente nella scrittura architettonica di trentamila anni di storia dell’umanità, può essere condivisa o meno ma non può essere ridotta a baluardo di una piccola modernità a misura dei post-pensanti. Siamo stanchi di semplificazioni esegetiche, di verdetti grossolani che hanno il solo scopo di avallare il nulla.
(Sandro Lazier
- 22/1/2002)
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