New York the Gap
di Gianluca Milesi e Aurelia Duplouich
- 9/1/2004

New York the Gap è una guida per la casa editrice Testo & Immagine,
e quindi il libro è nato con un carattere introduttivo e divulgativo; ciononostante
si è cercato di riprodurre un'immagine, seppur limitata e soggettiva, di
quello che accade a New York in termini di architettura contemporanea.
Crediamo, e non siamo i soli, che le cose più interessanti che al momento
attuale succedono a New York in architettura siano legate al campo della ricerca
e della teoria, spesso collocate all'interno del mondo accademico, e in molti
casi non trovano alcuna fisica rappresentazione nella città o si riducono
a interventi di dimensioni ridotte.
Questa osservazione, nota e per altro altrettanto spesso accettata passivamente,
e l'opportunità di scrivere una guida sulla città, sono state allo
stesso tempo stimolo e motivo di frustrazione, perché più che scrivere
una guida sarebbe stato molto più interessante analizzare la situazione
attuale della città, concentrarsi sui suoi problemi, e insistere su quelli
che sono i pensieri e le posizioni; in più avanzare eventuali soluzioni
ad uno stato di fatto che non è particolarmente soddisfacente.
Cosa realmente segnalare in questo libro? A New York non c'è gran che in
termini di architettura contemporanea, intesa come architettura colta e costruita
e pochi sono i contributi, costruiti, al progresso del pensiero architettonico.
Come si sa, da una parte c'e una continua produzione di architettura da parte
di developers, ovvero degli speculatori edilizi, che si affidano per lo sviluppo
dei progetti a grandi uffici che funzionano come società di servizi; dall'altra
la cultura architettonica che si concentra in ambienti ristretti ed esclusivi,
a volte snob, e gravita intorno a università come Columbia, Cooper Union
e Princeton.
In mezzo c'è una città che necessita di interventi immediati e a
grande scala.
Questa è un'osservazione che può apparire ovvia ma d'altro canto
è la condizione che determina ciò che sta succedendo oggi; fino
a portare, al momento attuale, probabilmente, ad un livello di crisi; fino al
punto di mettere in discussione il valore stesso e l'utilità dell'architettura
e il suo rapporto con una realtà interessata più all'establishment
sociale e commerciale che alla qualità di ciò che viene costruito.
Questo statement è stato il punto di partenza e la linea per lo sviluppo
del libro, per cercare di capire e trasmettere una complessità che può
essere compresa e descritta solo parzialmente.
La prima parte del libro, probabilmente la più interessante, alla luce
di una breve introduzione storica e interpretativa, cerca di dare una forma a
questa situazione reale.
Si è cercato di analizzare i fenomeni che hanno determinato la forma della
città e degli edifici, la sua storia-non storia, il suo ordine-disordine-,
la sua follia endogena, la sua dimensione scalata di quattro terzi almeno rispetto
a quella europea, le sue leggi, il suo pragmatismo senza remissione e l'assenza
o quasi di una pianificazione coerente. Fino ad arrivare allo sviluppo dell'architettura
contemporanea, sottolineando l'importanza della contaminazione europea (e italiana)
a partire da Le Corbusier e dall'edificio per le Nazioni Unite, dalle applicazioni
urbanistiche dell'ideale razionalista di Robert Moses, fino ad arrivare all'influenza
di personaggi contemporanei come Philip Johnson, Peter Eisenman, Herbert Muschamp,
Bernard Tschumi e altri.
È sembrato giusto quindi introdurre in questa parte una serie di flashes
sugli sviluppi ed i punti chiave della storia della città, realizzazioni
che testimoniano una contaminazione culturale internazionale e, a sostegno della
tesi iniziale, riflessioni e progetti che non verranno probabilmente mai realizzati
o visioni intorno alla città che hanno portato o che rappresentano lo sviluppo
della cultura architettonica newyorkese contemporanea.
Insomma si è cercato di mettere in evidenza ciò che è risultato
o risulta significativo nel complesso rapporto tra new York e l'architettura.
Per arrivare a parlare della situazione critica del World Trade Center.
La seconda parte del libro, che comprende le schede informative ai progetti segnalati
(ci scusiamo per il non eccellente risultato grafico, di cui siamo in parte responsabili
e la qualità di alcune immagini, legata al budget limitato), è ovviamente
schematica , anche se si è cercato di descrivere le opere in maniera coerente
alle tesi sostenute.
L'idea è stata quella di introdurre icone dell'immaginario-reale-storico
newyorkese, testimonianze di periodi diversi e significativi, in una interpretazione
retroattiva, e progetti contemporanei, spesso di dimensioni ridotte, considerati
di qualità, testimonianze interstiziali dell'architettura contemporanea
e il suo rapporto con New York, e di omettere progetti in costruzione o costruiti
ma di interesse considerato onestamente modesto, anche se nuovi o recenti e
di grandi dimensioni.
Contributi simbolici da una parte e contemporanei e qualitativi dall'altra;
progetti che hanno ancora o già un sapore storico e un valore imprescindibile
e progetti, o visioni, contemporanei contributi alla cultura architettonica
attuale.
Naturalmente non senza omissioni, anche involontarie, e un certo grado di soggettività.
Il fine ultimo di queste scelte è risultato quello di scrivere una "guida"
dello "spirito" o di quello che si è ritenuto essere la "parte"
più significativa della città, attraverso i contributi della e
alla cultura architettonica e urbana newyorkese (e internazionale), e i relativi
problemi, individuarne la posizione e la possibile ideologia o la portata culturale
all'interno dell'architettura contemporanea, più che sottolineare l'eccellenza
dei singoli edifici contemporanei, peraltro chiaramente rarefatta.
Alla fine di questo processo il titolo, the gap, risulta chiaro; il buco/il
distacco/la fessura, che sottolinea la frattura cha attualmente condiziona la
città.
Se il titolo è negativo, crediamo che comunque rappresenti quel passo
necessario di individuare i problemi per cercare di risolverli o quantomeno
affrontarli in maniera lucida.
E non in maniera pessimista. Questo non è l'unico significato del gap.
Se il gap è la frattura tra la cultura architettonica e il pragmatismo
commerciale, il gap si riferisce anche al buco reale che esiste sul luogo dove
sorgeva il World Trade Center. Il "come" questo buco, reale, verrà
colmato è critico per il futuro di New York ed è centrale per
comprender "dove" realmente New York si trova.
Il progetto di Daniel Libeskind è il progetto, non costruito, più
noto al mondo; progetto che, con i suoi limiti, è probabilmente un contributo
senza precedenti della e alla cultura architettonica di New York.
In precedenza Max Protech, un gallerista storico di New York, con una indubbia
sensibilità ed esperienza legate nel mondo dell'arte, e anche un po'
di mestiere, aveva messo insieme una mostra di proposte per il sito del WTC;
il livello della mostra non era forse elevatissimo per i tempi limitati dell'operazione,
ma aveva senz'altro colto l'obbiettivo e individuato gli ambiti del discorso
chiamando a collaborare probabilmente le voci più interessanti dell'architettura
contemporanea newyorkese. Anche Herbert Muschamp, sostenuto dal New York Times,
aveva tentato un'operazione simile, più limitata e focalizzata, organizzando
in un piano coordinato da Frederic Schwartz con i progetti di architetti di
indiscusso valore internazionale, in qualche modo legati a New york. Queste
proposte sono rimaste come stimolo e provocazione e non sono mai diventate iniziative
reali o politiche, ma sono state espressioni e contributi critici sintomatici
di una situazione di flesso. Il progetto di Daniel Libeskind al momento è
sviluppato, per volere del proprietario del contratto di affitto dell'area,
in collaborazione con David Child, partner di SOM, un ufficio che talvolta agisce
come società di servizi, noto in tutto il mondo e molto potente.
Non è una sorpresa un tale tipo di collaborazione a New York, e in questo
momento, e in questa nuova situazione, sperimentata in altri termini durante
il concorso vinto da Libeskind da
collaborazioni tra studi come SOM e Kazuyo Sejima e Stan Allen, tra gli altri,
potrebbe rappresentare un modus operandi diffuso e non privo di interesse.
Questo è o sembra essere lo stato dell'arte, ma al momento il gap è
presente, fisicamente e culturalmente.
Parlando della situazione attuale, Peter Eisenman non è ottimista circa
la produzione di architettura di qualità a New York; Bernard
Tschumi, sottolinea la presenza contemporanea di speculazione, regolamenti edilizi
stretti e, allo stesso tempo, di menti più fresche nel campo architettonico;
Ada Tolla dei LOT/EK, faceva notare la necessità di coniugare commercio
e qualità architettonica pensando in termini di cambiamento e di processo.
Che sia questa la via?
info@science-architecture.com
(Gianluca Milesi e Aurelia Duplouich
- 9/1/2004)
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Commento 590 di Ercole del 20/01/2004
Cosa realmente segnalare in questo libro? A New York non c'è gran che in termini di architettura contemporanea, intesa come architettura colta e costruita e pochi sono i contributi, costruiti, al progresso del pensiero architettonico.
?????
Voi siete matti o vivete nella preistoria??? neppure uno degli utlimi dinosauri accademici dell'ultima facoltà italiana riuscirebbe a pronunciare frasi simili...
vergognatevi
20/1/2004 - la Redazione risponde a Ercole
Di cosa dovremmo vergognarci è tutto da scoprire. Piuttosto, dovrebbe essere il firmatario di questo commento a vergognarsi, visto e considerato che non ha il coraggio di firmarsi con nome e cognome. Pubblichiamo il commento solo perché risulti ai lettori quanto inutili siano certi commenti e perché possano avere un esempio di come non si debba "commentare". L'uso improprio del linguaggio per insultare è tipico dei vigliacchi, quale è stato colui/lei che su newitalianblood ha scritto spacciandosi per Maria Luisa Palumbo. "Sapere" criticare è un fatto culturale. Bando agli ignoranti, dunque.
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