Terragni ibernato?
di Paolo G.L. Ferrara
- 6/4/2004

Chi è stato a Poggioreale ha di certo visto Piazza Elimo. Parlo di Poggioreale
nuova, ricostruita interamente dopo il terremoto del 1968, a valle rispetto
al sito originario del XVII secolo.
Qualche sparuto cultore di architettura, inoltratosi nella fondovalle Sciacca-Palermo
alla ricerca di Gibellina Nuova, passa anche da qui per visitare l’opera
di Paolo Portoghesi, datata 1986, nel pieno del suo delirio post modernista.
Realizzata nel 1990, essa rappresenta la spasmodica voglia di auto celebrazione
dell’architetto romano, istericamente proiettato nell’intento di riaffermare
la teoria illustrata in “Dopo l’architettura moderna”, libro
edito nel 1980, anno della Strada Novissima, evento oramai storicizzato quale
momento cardine dell’ufficializzazione del Post Modern architettonico nella
versione “variante italiana”.
E l’opera di Poggioreale ne è l’emblema in cui si materializza
l’inutile sforzo di ricercare nella memoria di archi, capitelli, cariatidi
e trabeazioni la rinascita dell’architettura oltre l’ “...ideologia
del Movimento Moderno”, quella che per affermarsi attraverso lo statuto
funzionalista, come dice Portoghesi, doveva necessariamente postulare “il
primato del tempo sul luogo, questo sradicamento totale di una disciplina dalle
sue condizioni materiali di origine e di sviluppo”, rinnegando così
qualsiasi rapporto con la storia.
Costatato che, visto che la struttura urbana del vecchio insediamento si sviluppava
attraverso una scacchiera che aveva comunque un impianto orografico assolutamente
dinamico, l’intervento architettonico di Poggioreale nulla ha a che fare
con l’impianto originario del paese distrutto dal terremoto, ci si chiede
che senso abbia la presenza di Paolo Portoghesi quale membro del comitato scientifico
dell’organizzazione dell’anno dedicato al centenario della nascita
di Giuseppe Terragni (GT04).
Cosa centra Poggioreale con Terragni? Appunto, che centra? Che significato può
avere che il massimo esponente italiano della restaurazione accademica sia l’anfitrione
del mondo di Terragni, ovvero il massimo esponente italiano della lotta all’accademia?
Soprattutto, risulta assolutamente fuori luogo che sia proprio Portoghesi ad
inaugurare le celebrazioni con la conferenza "Terragni, italianità
di un architetto europeo". Il perché è chiaro se solo
si legge quello che è l’obiettivo della conferenza,e cioè
“...affrontare il problema del rapporto tra Terragni e il Fascismo e
la difficile scelta dell’architetto comasco di conciliare la sua adesione
al movimento moderno, come si era configurato in Europa negli anni venti, con
la volontà di esprimere in quell’ambito una specificità italiana
legata ad una idea di tradizione come innovazione nella continuità”.
Si tratta di un’operazione assolutamente pericolosa, soprattutto se la
si inquadra nell’ottica portoghesiana di volere continuare l’opera
demolitrice del Movimento Moderno, stavolta usando a pretesto Giuseppe Terragni
così come risulta chiaramente dai temi della conferenza quando se ne
parla quale uomo/architetto costretto ad affrontare la difficile scelta di conciliare
l’adesione al MM senza, al contempo, trascurare la tradizione, il tutto
nel pieno del regime fascista.
Stupisce non poco che nel libro “Dopo l’architettura moderna”,
capitolo settimo, allorquando parla proprio del periodo fascista, Portoghesi
accenni assolutamente superficialmente all’architetto comasco, limitandosi
a sottolineare che la morte di Terragni (e di Pagano) “aveva lasciato
il fronte dei razionalisti sostanzialmente acefalo”. Invece di riannodare
la revisione del Movimento Moderno al lavoro di erosione che Terragni ne aveva
iniziato in tempo reale, il fine di Portoghesi è esclusivamente quello
di sottolineare la sostanziale differenza tra i razionalisti italiani e quelli
europei, rintracciandola in una più attenta volontà di recuperare
il rapporto con la tradizione da parte dei nostri, piuttosto riottosi a sposare
“l’astrazione pura e assoluta” di Oud, Gropius, Mies e
Le Corbusier, che non contemplava alcun rimando alla storia. Eppure, da quanto
risulta dagli scritti del Gruppo 7 su "Rassegna Italiana" sembra
proprio che Terragni, pur non rinnegando il lavoro dei neoclassici, avesse le
idee molto chiare sulla nuova architettura italiana rispetto alle influenze
provenienti dall’estero, cercando di equilibrare il continuo fermento intorno
all’architettura quale arte di Stato con quello direttamente riferito all’architettura
quale fatto sociale direttamente derivato dalle ricerche estere.
In realtà, lo sforzo di Terragni sembra essere quello di mediare le richieste
del Regime con le personali convinzioni sulla nuova poetica architettonica,
e ciò risulta assolutamente chiaro a proposito del concetto di “simmetria”
che il Gruppo 7 prende a prestito quale riferimento alla tradizione italiana,
ma che cerca di spogliare dalle implicazioni classiciste: “...lo spirito
della tradizione è così profondo in noi che, necessariamente e
quasi meccanicamente, la nuova architettura non potrà non conservare
un’impronta tipicamente nostra [...]Questo prova quanto siano infondati
i timori di un’eccessiva influenza estera: per esempio, una delle caratteristiche
delle più recenti architetture tedesche e olandesi è un’assoluta
asimmetria, tanto nelle masse che negli elementi; ora, mentre non possiamo negare
che da questo partito traggono risorse notevolissime e interessanti risultati,
tuttavia dobbiamo riconoscere che esso non finisce di accontentare l’estetica
italiana”.
Per l’appunto: si parla di estetica, non di spazialità;
e che sia un tentativo di conciliare le parti rispetto alla semplice riconduzione
a riferimenti estetici lo conferma la conclusione dello scritto: “Il substrato
classico che è in noi richiede, se non una simmetria assoluta, per lo
meno un gioco di compensazioni che equilibri le varie parti. Ecco, fra le altre,
una sicura garanzia d’indipendenza per l’architettura italiana, e
una ragione di profonda originalità.” (da: Gruppo 7, Architettura
-IV - 1927)
Portoghesi, come suo solito, tira di fioretto: sfruttando la questione dei riferimenti
alla tradizione italiana tenta di smontare l’impeto di Terragni nell’introiettare
l’insegnamento di Le Corbusier, così da alienare i concetti del
rapporto con la tradizione al di fuori di quelle che ne erano le vere basi,
ovvero quelle della ricerca spaziale. E a poco serve citare Michelangelo e Borromini
se poi si stagna nell’effimero riferimento ad una tradizione che nulla
ha a che fare con quella che lo stesso Portoghesi ha tentato, sino ad ossessionarci,
di riproporre, che è poi la stessa a cui si riferisce quando ironicamente
parla dell’ E 42 (oggi EUR) dove “...sotto la regia di Piacentini
erano stati frettolosamente rimessi in auge archi e colonne”.
Di fatto, la continuità con la tradizione di cui attraverso le sue architetture
ci parla Terragni non poteva che essere spaziale, dunque tutt’altra rispetto
a quanto ha invece fatto Portoghesi negli anni ’80 del secolo scorso.
Ed è proprio lo stesso Portoghesi (presumibilmente involontariamente)
a rimarcare la netta differenza tra la sua posizione e quella di Terragni rispetto
al recupero della tradizione: “Che Terragni non abbia mai fatto compromessi
è evidente; egli è un uomo del suo tempo e quindi, per lui, la
tradizione non è un problema di rispetto per la continuità formale
o di un certo repertorio linguistico” . (da: I grandi architetti del
Novecento, Newton & Compton 1998). Precisamente, e infatti Terragni evita
sempre di scadere nella retorica monumentale, Portoghesi invece ci sguazza,
ed è altresì del tutto improponibile cercare di ridurre l’opera
di Terragni al "raro uso dello spazio antiprospettico" così
come fa Portoghesi prendendo a prestito la Casa del fascio: “Questo
è un punto su cui l’opera di Terragni è molto chiara: solo
raramente egli è antiprospettico, mentre c’è sempre un forte
residuo di ricerca della profondità che si esprime magistralmente nella
facciata principale della Casa del fascio.”
Passi pure la "ricerca della profondità" ma solo se
la si considera dal punto di vista della trasformazione del muro pieno in diaframma
di trasparenza, concetto che non può essere disgiunto da quello della
continuità interno/esterno, avvalorato dal vuoto spaziale dell’atrio.
E’ proprio nella Casa del fascio che Terragni applica palesemente i significati
del substrato classico della tradizione italiana negandone però la simmetria
assoluta e lavorando alla scomposizione del cubo razionalista attraverso la
preservazione della sua continuità volumetrica, il che significa proprio
compensare gli equilibri tra le varie parti.
Terragni raggiunge qui la piena maturità rispetto alle concezioni del
purismo di Le Corbusier. E se maturità significa porsi in senso critico,
Terragni lo fa iniettando nella casa del Fascio la volontà di scardinare
la perfezione stereometrica senza eliminarla ma coniugandola con la volontà
di esprimere il dinamismo spaziale: le quattro facciate ne sono il momento esplicativo
perché è in esse che confluisce e defluisce lo spazio. Non esiste
un solo fronte in cui gli elementi vuoti siano posizionati simmetricamente,
rimandando così agli angoli, vero elemento base della composizione. La
fluenza spaziale tra interno ed esterno è marcata dalla stessa struttura
puntiforme che fuoriesce solo nel fronte d’ingresso: sono infatti i pilastri
a dettare la variazione di profondità, sia orizzontalmente che verticalmente.
L’interpretazione del fascismo quale “casa di vetro” raggiunge
la massima espressione, se è vero che la casa vuole esprimere lo stretto
legame tra gerarchia fascista e popolo e così il salone delle riunioni
si apre grazie ad una grande vetrata verso la corte interna, a sua volta legata
alla piazza antistante attraverso l’apertura delle vetrate continue poste
al piano terra. Non vi è soluzione di continuità rispetto alle
fluenze spaziali e ciò innesca un dinamismo che coinvolge anche l’impianto
strutturale: entrando nella corte interna i pilastri sul lato sinistro, raggiunto
il ballatoio, si piegano nello scatto orizzontale delle travi che, a loro volta,
vanno ad aggredire il muro/lastra che delimita il salone delle riunioni. Il
ballatoio diventa elemento spazialmente vuoto che si coglie in tutta la sua
espressività nel momento in cui vi si sbarca dalla scala principale,
dando la possibilità, visiva e fisica, a tre possibili direzioni: a sinistra,
verso l’accesso al ballatoio esterno sul fronte principale; frontalmente,
verso l’ufficio del gerarca, la cui porta è un elemento smaterializzato,
visto che si tratta di una paratia completamente vetrata che si stacca dai muri;
verso destra, con la scala secondaria che si staglia in verticale e la cui parete
di fondo completamente vetrata sembra proiettarci al di fuori dell’edificio.
Se la profondità prospettica di cui parla Portoghesi è ridotta
alla visione bidimensionale della facciata principale ecco che il contenuto
espressivo della Casa del fascio si perde del tutto, lasciando per strada la
sostanza dei riferimenti a Michelangelo e a Borromini, ovvero l’elemento
che permette a Terragni di andare oltre la classicità (e non indietro
nell’accademismo classico) rispetto agli schematismi dell’astrazione
purista. Al contrario di quanto affermato da Portoghesi rispetto ai significati
del riferimento alla tradizione, nelle opere di Terragni non vi è traccia
della chiara volontà di recuperare l’aspetto figurativo e simbolico
dell’architettura ma, piuttosto, di riproporre secondo un lessico contemporaneo
le ricerche del passato sullo spazio dinamico, lessico che per sua stessa genesi
aveva eliminato qualsivoglia elemento stilistico riconducibile alla tradizione.
E se Terragni impara qualcosa dal passato, è proprio sulla capacità
di Michelangelo e Borromini di erodere le impostazioni classiche che va posta
l’attenzione: nell’Edicola funeraria Pirovano 1930-1931 i muri si
spogliano dalle modanature e la scatola stereometrica è scavata e sezionata,
ma i suoi lati restano evidenti. Quello dell’erosione è un tema
che Terragni non tralascerà mai nelle sue opere.
Leggere Terragni significa eliminare a priori la ricerca nelle sue opere della
simmetria poiché una tale impostazione è fuorviante rispetto alle
finalità che esse avevano. Valga per tutti l’esempio del Novocomum,
di cui Portoghesi, pur di rinnegare la presenza di riferimenti spaziali al Costruttivismo,
cerca in tutti i modi di costringerci a leggere l’edificio in tutt’altro
modo da quello che dovremmo: “Nel Novocomum è presente certamente
la lettura costruttivista che si può facilmente amplificare fotografando
l’edificio dall’angolo e non facendo vedere che la facciata principale
è rigorosamente simmetrica”.
Significa forse che la lettura di un’opera va fatta per parti, sezionata
e ricondotta pezzo per pezzo a determinati stili? No, Portoghesi vuole arrivare
a ben altro, ovvero a dirci che “... il disegno di Terragni fa capire
che c’è anche un altro tipo di interpretazione, un’interpretazione
plastica di gusto classico che non ha assolutamente nulla a che fare con la
poetica del costruttivismo sovietico, di cui si è servito solo in superficie”.
A dirla tutta, è vero proprio il contrario, visto e considerato che è
l’impianto simmetrico è chiaro solo bidimensionalmente (piante):
se è innegabile che una stecca sembra raccordarsi al corpo retrostante
tramite elementi circolari, altrettanto vero è che Terragni capovolge
il concetto nel momento in cui alza l’edificio tridimensionalmente. La
stereometria pura è aggredita tramite lo scavo e l’aggetto angolari
e con l’uso del colore, che marca rientranze ed aggetti. Il corpo cilindrico
vetrato posto agli angoli trova continuità nella fascia in muratura che
si slancia in orizzontale sulla facciata, dando così continuità
ai diversi elementi. Le scale d’accesso non sono in asse con gli ingressi
e, proiettandosi oltre l’ambito dell’edificato, legano l’architettura
alla città. L’ultimo piano aggetta l’angolo a spigolo vivo
direzionando il punto di vista in diagonale rispetto ai fronti. E’ la prima
architettura in cui Terragni esprime pienamente l’attenzione verso la cultura
che era già storia dello sviluppo del pensiero architettonico in Europa,
da Le Corbusier a Oud, da Gropius a Mendelsohn, al costruttivismo. Ma è
d certo un’attenzione che va oltre il semplice seguire precetti.
Chissà perchè in Italia non si riesce a dire “no!”.
Chissà perché le celebrazioni del centenario debbano avere quale
deus ex machina un personaggio che non ha deliberatamente apprezzato chi ha
realmente cercato di dare continuità e contemporaneità alla inestimabile
opera culturale di Terragni: Peter Eisenman e Bruno Zevi in testa, che dal 1968
in poi diedero nuova linfa vitale all’opera del comasco, riattualizzandola.
Il lavoro di Peter Eisenman su Terragni è infatti ascritto da Portoghesi
nella sfera della “autoreferenzialità”: “Il
suo itinerario inizia con le celebri case numerate da 1 a 11 come le opere di
un musicista. Il punto dichiarato di partenza è Terragni e due sue opere
in modo particolare: la Casa del fascio di Como e la casa ad appartamenti Giuliani-Frigerio.
Su questi prototipi Eisenman conduce indagini critiche soggettive che lo guidano
nella sua avanzata verso l’astrazione, considerata obiettivo supremo. Che
Terragni sia solo un pretesto lo riconosce lo stesso architetto che, a detta
di Antonino Saggio, in una conferenza dichiara: 'Terragni non esiste, Terragni
l’ho inventato io, Terragni sono io".
Sarà pure stato un pretesto, ma il fatto che Eisenman abbia scelto Terragni
vorrà pur dire qualcosa, soprattutto se relazioniamo la ricerca di Terragni
alla volontà di andare oltre l’astrazione purista, mettendola in
discussione e con essa tutti i pericoli di codificazione di un linguaggio in
stile. Eisenman individua in Terragni la potenzialità inespressa del
Movimento Moderno e nella House I e House II i riferimenti alla ricerca del
comasco nella Casa del fascio e nella casa Giuliani-Frigerio sono assolutamente
evidenti, così come mette in evidenza Antonino Saggio: “Sempre
interessato alle differenze, alle frizioni, alle opposizioni, egli [Eisenman]
è attratto da due opere del comasco in contrasto l’una con l’altra.
Fra la casa del fascio e la Giuliani-Frigerio (le uniche su cui pubblica dei
saggi) l’opposizione si basa sul diverso meccanismo di 'stratificazione'
che le ha generate. Nella Casa del fascio è un processo che parte dall’esterno
(la stereometria del prisma) verso l’interno. L’esito è noto:
pur conservando la purezza della forma primaria, Terragni riesce a conferirle
una tensione astratta (con partiture a tutta altezza che si alternano asimmetricamente
nei fronti) e dinamica (perchè i diversi spessori delle stratificazioni
sul volume invitano continuamente a un’esplorazione dell’edificio.
In una parola, è un processo di estrazione.
La casa Giuliani-Frigerio, invece, è basata su un processo di esplosione.
La stratificazione non si muove da fuori a dentro, ma all’inverso. L’esito
è lo slancio dinamico dei piani e dei volumi, che non vengono più
trattenuti da una virtualità originaria, ma invadono lo spazio. Il problema,
per un ricercatore di nuove tensioni quale Eisenman, è quello di lavorare
dentro questa differenza, dentro questa tensione fra estrazione ed esplosione”.
Detto ciò, è alquanto pretestuoso che Portoghesi (usando, tra
l’altro, proprio una frase di Saggio) cerchi di ridurre il tutto alla volontà
di Eisenman di volere annullare qualsivoglia riferimento alla storia . Dice
infatti Portoghesi: “La tradizione dell’architettura moderna, da
Gropius a Mies a Wright, non giunge mai a negare la forza degli archetipi architettonici,
anzi li invera sottraendoli alle incrostazioni eclettiche che li avevano omologati.
Per Eisenman, come sottolinea correttamente Antonino Saggio, 'non esistono più
figure date a priori (il tetto, la finestra, l’edicola, il portico) ma
segni astratti, senza significato proprio, che vengono, come nei quadri dei
pittori, accostati in nuove dinamiche composizioni'. L’amnesia volontaria
quindi, che nella stagione alta del Moderno fu più un’intenzione
che un risultato raggiunto, dovrebbe, secondo questa teoria, non soltanto rimuovere
o rendere inconscia la memoria, ma estirparla come si estirpa un cancro. Va
da sé che nella sostanza, più che di continuità rispetto
alla tradizione moderna, si tratta in questo caso di una radicale revisione
[...] Eisenman va nella direzione della autoreferenzialità del segno
architettonico e quindi della sterilizzazione assoluta di un linguaggio che
delle sue molteplici valenze, quella civile, quella religiosa, quella artistica,
conserva la valenza puramente artistica, attribuitagli nel clima estetizzante
della fine del secolo scorso”.
Al di là di qualsivoglia elucubrazione, credo sia assolutamente chiaro
che Portoghesi non riconosca alcun merito alla ricerca di Eisenman su Terragni.
In merito al lavoro di Bruno Zevi c’è poco da dire: Portoghesi,
affermando che “...non abbiamo visto una storia che riconosca in pieno
il valore di Terragni” ne disconosce la validità, disconoscendo
il peso culturale delle celebrazioni del 1968 (25° anno dalla morte).
Rileggendo quanto Zevi scrisse presentando l’evento non possono sfuggire
le sue preoccupazioni sul futuro dell’architettura che negli anni ’70
e ‘80, e con Portoghesi quale protagonista, si sarebbero verificate: “L’anniversario
di Terragni deve costituire un richiamo alla tensione razionale, forse decisivo
per gli architetti italiani che la società del benessere e la psicologia
di un mondo affluente e insicuro hanno indotto ad evadere in ricerche di natura
affettiva, per non dire umorale. Nei venticinque anni che ci separano dalla
morte di Terragni, il loro linguaggio si è notevolmente arricchito, la
volgarità monumentalistica è stata debellata, mentre il parametro
urbanistico veniva assimilato. Ma, proprio nell’ora della sua vittoria,
il movimento moderno si è infiacchito producendo nel suo stesso grembo
i germi della corruzione: le preoccupazioni cosiddette 'ambientistiche', le
citazioni 'della memoria', le vene storicistiche , il ritorno ad impianti bloccati,
classici, statici, anche se se configurati secondo le formule delle finestre
a nastro e dei prismi di cristallo. Urge riesaminare questo confuso cammino
vagliandolo sulla bilancia dell’empito razionalista degli anni trenta,
per individuarne le carenze e i tarli. [...] Il Novocomum, l’asilo infantile
del rione Sant’Elia, gli appartamenti Giuliani-Frigerio e, perchè
no?, la casa del Fascio, che di fascista non ha neppure una remota impronta,
sono opere tuttora incalzanti nel loro messaggio; anziché oggetti del
passato da ammirare passivamente, offrono stimoli sferzanti all’attuale
inerzia creativa”. (da: Cronache di architettura, n.692, 31.12.1967).
Timori, quelli di Zevi, confermati anni dopo nella piazza Elimo di Poggioreale,
dove di Terragni e della sua eredità non c’è proprio nulla.
Comunque sia, Portoghesi è accontentato: la tradizione, almeno quella
del non sapere dire di “no!” a chi gestisce il potere, è sempre
attuale. L’ibernazione dell’architettura italiana è salva,
basta fare credere di essere ancora nel passato, così come Hubert de
Tartas (Louis De Funes) fece con il nonno della moglie, creduto morto e ritrovato
congelato tra i ghiacci polari. D’altronde, sempre di comiche si tratta.
Senza indugi: questo delle celebrazioni su Terragni è forse il momento
in cui, da quattro anni a questa parte, si sente più forte la mancanza
di Bruno Zevi che, ne siamo certi, avrebbe saputo dire “no!” a Portoghesi
anfitrione di Terragni e della sua sofferta e combattuta coerenza. Qualità
che a Portoghesi non appartiene di certo.
(Paolo G.L. Ferrara
- 6/4/2004)
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Commento 738 di Carlo Sarno del 25/05/2004
Zevi scrive di Terragni : "opere tuttora incalzanti nel loro messaggio; anziché oggetti del passato da ammirare passivamente, offrono stimoli sferzanti all’attuale inerzia creativa”. (da: Cronache di architettura, n.692, 31.12.1967).
E Ferrara , autore dell'articolo , scrive : " nelle opere di Terragni non vi è traccia della chiara volontà di recuperare l’aspetto figurativo e simbolico dell’architettura ma, piuttosto, di riproporre secondo un lessico contemporaneo le ricerche del passato sullo spazio dinamico, lessico che per sua stessa genesi aveva eliminato qualsivoglia elemento stilistico riconducibile alla tradizione. E se Terragni impara qualcosa dal passato, è proprio sulla capacità di Michelangelo e Borromini di erodere le impostazioni classiche che va posta l’attenzione.... Quello dell’erosione è un tema che Terragni non tralascerà mai nelle sue opere.
Leggere Terragni significa eliminare a priori la ricerca nelle sue opere della simmetria poiché una tale impostazione è fuorviante rispetto alle finalità che esse avevano... " .
Ringrazio Bruno Zevi e Paolo Ferrara per queste loro precisazioni che colgono un punto essenziale della poetica di Terragni, ed aprono ad una più profonda comprensione del grande architetto poeta-razionalista italiano. Si, poeta-razionalista credo che sia l'unica esatta denominazione di Terragni. In lui, e lo si evince dalle sue opere, il razionalismo viene sublimato nella poesia, ma non con forzature, con una azione appariscente ed eclatante, ma con l'eleganza e la semplcità che è proprio del maestro. E' il suo un linguaggio architettonico che incarna l'ideale democratico del valore della persona e dell'ndividuo, in cui la diversità ed il divenire formale si radicano sulla tradizione senza restarne ingabbiati. Anzi la sua architettura, che potremo definire "razionalismo-poetico", esprime al meglio una istanza creativa originale - per dirla con Zevi - e ancor più - come indica Ferrara - Terragni erode l'impostazione classica, ma non nelle strutture superficiali ma in maniera profonda .
In tal senso, la Casa del Fascio si può ben definire un'opera "cubista" in cui l'imprevedibilità ed il diverso giocano un ruolo essenziale. Occorre girare intorno all'opera del maestro, entrare all'interno, percepirne le trasparenze e continuità sinestetiche per apprezzarne il valore .... ma non è tutto ... occorre spostarsi dal piano del significante al piano linguistico del significato e coglierne - miracolosamente proprio in un'epoca totalitaria - il profondo messaggio di libertà e democrazia, fierezza morale, dignità e valore della persona.
Grazie di cuore Giuseppe Terragni! Tu insegni agli architetti italiani che non ci sono scuse, che non c'è alcuna giustificazione morale per chi non svolge la sua missione di architetto oggi: promuovere creativamente uno spazio per il bene dell'umanità .
Carlo Sarno
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