Duemila e più mode
di Ferruccio Giromini
- 21/10/2005

Nei meandri della progettazione visiva contemporanea
Da sempre le mode, non solo
estetiche, non solo figurative, si diffondono in maniere repentine e
assolutamente capricciose, obbedendo a leggi quanto mai imperscrutabili. In
particolare dal Novecento in poi, per gli intuibili motivi di maggiore e sempre
più veloce comunicazione, la situazione generale si è evoluta verso un esteso
relativismo, sull’intero pianeta, fino a delineare questo che ormai viene
chiamato l’impero della complessità. Oggi, per di più, la complessità culturale
si articola nelle due direzioni global e glocal, una centripeta e le altre
centrifughe, in un ribollente melting pot di immaginari che risulta
definitivamente arduo da analizzare e descrivere.
Eppure qualche piccola regola generale resta ancora valida, pur nel marasma.
Intanto, non va dimenticato che la situazione complessiva del sistema delle mode
è sempre frutto di un momentaneo equilibrio – formato su una catena di ancor più
momentanei squilibri, in via di perenne ricomposizione – tra opposti.
L’innovazione e la conservazione formano la prima coppia in conflitto, la più
evidente. Viene poi una divergenza sostanziale di metodo: se operare per
sottrazione o per accumulo. O, psicologicamente fondamentale, la scelta tra
l’uso espressivo delle asprezze o delle dolcezze.
Da un punto di vista sociologico, inoltre, la vitalità delle culture “basse”
risulta regolarmente vincente, su distanze sempre più brevi, nei confronti di
quelle “alte”; è la ricorrente rivincita delle periferie sul centro: basti
pensare a come e quanto si intacchino ciclicamente le scelte estetiche felpate
delle culture dominanti, che, in quanto ricche, possono coltivare e concedersi
l’understatement dei colori pastello e i più raffinati arredi black & white,
ogni volta che viceversa cedono al richiamo irresistibile dell’ultima
sguaiatezza aggressiva inventata da spettinate ragazzotte di slum. Formalità
contenuta e rigore restano lussi, non c’è che dire; mentre la tendenza naturale,
inevitabile, entropica, va verso la destrutturazione e l’informale. Fortuna che
– come ripetono saggiamente, e non banalmente, i vecchi – il mondo è bello
proprio perché è vario.
Nel nostro tempo presente, tale esemplificazione di deriva estetica si incarna
bene nel rapporto, a tratti anche molto conflittuale, tra paesi industrializzati
da un lato e Asia, Africa, Sudamerica e Oceania dall’altro. E non è solo
questione di contrapposizione tra pulito minimalismo giapponese e vibranti
fantasie ipercromatiche tropicaliste. Entrano in ballo anche filosofie politiche
ed economiche che parlano di sostenibilità e sviluppo responsabile; e in qualche
modo, con l’irruzione e la diffusione di new age, olistica, feng shui, ayurveda,
shiatsu, reggae, negli ultimi anni in Occidente si è imposta una logica
post-tecnologica cui non basta più un generico ritorno al primitivismo e ai
materiali poveri, ma che esige una revisione complessiva del rapporto umano –
individuale e sociale – con la realtà naturale del pianeta.
Lo vediamo confermato nell’arte, nel design, nell’architettura,
nell’abbigliamento, in tutta la “comunicazione visiva” contemporanea. Da un lato
gli stili di vita tendenzialmente più “umanistici” e “naturalistici” hanno
riportato l’interesse sui fondamentali, ovvero sugli archetipi immortali: il
calore sicuro della terra, la viva energia del fuoco, il relax rigenerante
dell’acqua, la danzante vitalità dell’aria; e sulle forme della natura, che si
conformano ora a logiche frattali d’apparenza irregolare, ora a sfilanti
linearità vegetali; e sulle materie prime naturali, che presentano superfici
scabre e discontinue e colori più assorbenti la luce (in genere non primari, né
secondari, ma terziari); e pure sui materiali e gli elementi leggeri, facilmente
trasportabili e combinabili. Da qui, è solo un passo alla riscoperta
dell’espressione “primitivista” a base di segni essenziali ed icastici; e appena
più in là possono pure arrivare le nuove straordinarie sculture (per esempio di
Olafur Eliasson) composte di getti d’acqua vaporizzata.
Sul lato opposto, avanza trionfalmente la new wave dell’artificiale.
Preannunciata via via dal meccanicismo futurista, dall’astrazione geometrica
delle forme pure costruttiviste bianche-nere-rosse, dalla prima era della
plastica industriale, dall’accesa tavolozza pop, dalle stimolazioni retiniche
optical, dalla cultura fantascientifica cyber, è esplosa ora un’altra estetica
d’impatto ipercromatico che inneggia ai materiali sintetici di ultima
generazione. Peraltro anche la nuova scommessa del design punta tutto sulla
multisensorialità. E allora, incrociando tra loro stimoli visivi uditivi tattili
olfattivi (da quando nella preparazione delle materie è addirittura possibile
incorporare microcapsule variamente profumate), nell’inventare o reinventare
l’ultimo (il prossimo) “oggetto” si insegue una percezione “mobile” all’insegna
di un’estetica del cangiante: superfici operate, d’approccio sempre più tattile,
accanto ad altre traslucide, o perlacee, o enfaticamente glossy; colori primari
e saturi, volentieri più gridati che sussurrati, e non più neutri neppure nelle
applicazioni hi-tech; trasparenze, opalescenze, fluorescenze; gusto ludico e
ricerca continua dell’effetto e della sorpresa… Qui è in atto una vera
rivoluzione, che parte da tecnologie di produzione complessa per arrivare a
soluzioni formali altamente innovative. I materiali del design del Duemila sono
tecnopolimeri, ibridi a metà tra la gomma e la plastica: policarbonato,
poliammide, poliestere, poliuretano, ma coniugati in versioni inedite: schiume
di espansi morbidi che mutano forma lentamente, maglie elastiche, tessuti
termosensibili che cambiano colore al contatto col calore corporeo, gelatine un
po’ solide e un po’ liquide e persino un po’ gassose… E c’è il Corian, che
mescola polimeri acrilici a materiali naturali per dare origine a un composto di
straordinaria durezza; o un acciaio alimentato da anidride carbonica solida, che
può ghiacciare a comando la propria superficie…
È evidente quanto il mondo del progetto – e dell’intero nostro immaginario –
possa oggi trovarsi scombussolato da tali innovazioni. L’inizio del terzo
millennio, malgrado tutto oscuramente percepito e soprattutto auspicato come
beneaugurante, ha favorito almeno un momento di rinfrescato entusiasmo
nell’approccio progettuale; e intanto si sono moltiplicati pure gli utilizzi
innovativi di materiali tradizionali. La stessa architettura si applica adesso a
disegnare edifici asimmetrici, cangianti, con parti mobili, in grado di
stimolare più sensi contemporaneamente, teorizzando il “salto percettivo” al
fine dichiarato di “oltrepassare la routine della città-consuetudine” e
mantenere l’attenzione costantemente sveglia, per un rapporto sempre più diretto
con le materie che costituiscono la realtà, con la materia del mondo. Comporre
funzionalità ed estetica: in realtà è questo l’eterno problema – e frattanto
equilibrare il desiderio di novità con il bisogno di sicurezza, due esigenze
addirittura animali.
Dal punto di vista della produzione – pure delle immagini, ma anche delle idee e
delle semplici fantasie – in quest’era economica tutto sommato critica,
anzitutto si impone dunque una solidità progettuale che tenga conto tanto delle
esigenze “alte” di essenzialità e controllo formale quanto del bisogno “giovane”
di innovazione e aggressività percettiva; perciò un rifiuto della
standardizzazione appiattente e invece una politica di attenta diversificazione
dell’offerta (ma sempre nell’alveo di una raggiunta coscienza ambientalista
contraria allo spreco e all’orpello inutile). E l’etica professionale esige di
non dimenticare che l’adozione di qualsiasi stile, anche “commerciale”,
rappresenta sempre – inequivocabilmente – una precisa alternativa linguistica e
una responsabile opzione comunicativa. Viceversa, dall’angolo visuale
dell’utente fiducioso nella progettabilità della realtà, di fronte al
caleidoscopio quasi stordente delle offerte esiste tuttavia una persistente
occasione di “interattività”: la cara vecchia libertà di scelta, che però oggi
molto più di ieri permette di abbracciare volontariamente una moda piuttosto che
un’altra, tra le tante disponibili al contempo sul mercato, e di non essere
succubi di voghe univoche e totalizzanti già decise altrove per tutti.
(Ferruccio Giromini - 21/10/2005)
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