Fundamentals
di Sandro Lazier
- 26/1/2013

La XIV° biennale
d’architettura di Venezia, diretta da Rem
Koolhaas, parte male.
Parte male perché, secondo me, è sbagliata nei
suoi presupposti che lo stesso
Koolhaas ci comunica: “Nel
1914
aveva senso parlare di architettura “cinese”,
architettura “svizzera”,
architettura “indiana”. Cent'anni dopo, sotto la
pressione di guerre, regimi
politici diversi, molteplici condizioni di sviluppo, movimenti
architettonici
nazionali e internazionali, talenti individuali, amicizie, traiettorie
personali casuali e sviluppi tecnologici, le architetture che un tempo
erano specifiche
e locali sono diventate intercambiabili e globali. Sembra che
l'identità
nazionale sia stata sacrificata sull'altare della modernità.”.
Nel 1914 era vero il contrario.
Le avanguardie storiche (1905-1930) stavano mettendo sottosopra un
mondo talmente
incoerente che dal neoclassico ottocentesco - questo sì vero
movimento globale
perché lo si ritrova ovunque, Svizzera, Cina o India che
sia, nelle varie sfumature
dell’imperialismo occidentale- era finito
nell’eclettismo più insolente e
popolare. Non è il caso di ricordare la sfilza di neo stili,
dal neoegizio al
neogotico passando per tutta la storia dell’architettura, che
s'incontrano in
processione nelle nostre città storiche di fine ottocento.
Non è nemmeno il
caso di ricordare come la stessa nascita del nuovo stile, liberty o art
nouveau, abbia di fatto cambiato nome nei diversi paesi molto
più della propria
connotazione stilistica.
Nel 1914 non aveva proprio nessun senso parlare di architetture
nazionali, nemmeno
nella loro accezione etnica. Di guerre nazionali alle porte
sì, ma di
architetture assolutamente no!
Tema, invece, che fu affrontato criticamente solo molti anni
più tardi, dopo la
seconda guerra mondiale, da una successiva avanguardia che
s’era posto il
problema di ricostruire sulle rovine del conflitto, oltre le case,
anche un po’
di memoria. Il che avvenne senza rendersi conto della pericolosa
duttilità
dei ricordi.
Ed è proprio questo, secondo me, il punto chiave.
Gli storici sanno bene che l’aspetto più delicato
del loro lavoro consiste nel
proteggere i fatti dagli assalti dei ricordi. I fatti sono fatti, sono
quel che
sono. I ricordi, invece, per essere espressi hanno necessità
di stare a cavallo
d’un racconto. I racconti, a loro volta, per essere efficaci
hanno bisogno
d’una trama, verosimile sempre, vera non lo sappiamo. Tenere
distinti i fatti
dalla forma del loro racconto è sempre operazione difficile
e delicata.
Questione che conoscono bene anche i tribunali, ma non voglio
dilungarmi troppo
su questo argomento.
Mi preme, invece, mettere l’accento sulla questione per me
fondamentale che,
quando si ha a che fare con la memoria nazionale,
l’identità d’un popolo, o tutto
quello che
quest’identità pretende d’esprimere
artisticamente, provo un’istintiva diffidenza.
Intanto, nella mia concezione rigorosamente laica e moderna dello
stato, un
popolo è poco più che
un’entità statistica definita geograficamente e
soggetta
ad un ordinamento circoscritto. Detto questo, che mi pone al riparo da
ogni
metafisica dell’appartenenza, non credo possa esistere uno
spirito di popolo in
grado di catalizzare un comune sentimento verso una particolare forma
d’architettura piuttosto che un’altra. Se nella
storia, ma sono casi rari che
riguardano periodi relativamente brevi, la diffusione di alcune
architetture coerenti
ha caratterizzato parti di territorio, lo si deve più alla
concomitanza di
contingenze economiche, politiche, teoriche e tecniche costruttive che
ad una
trascendente identità di popolo. L’architettura
vernacolare, caratteristica di
gran parte d’Italia, rientra pienamente in questa
considerazione, nella quale prevalgono
necessità contingenti e abitudini edilizie.
Purtroppo, proprio grazie ad una concezione miope dello storicismo, alcuni intellettuali, orfani d’un’autentica indole creativa, hanno riscritto una parte della narrazione storica forzandola all’interno d’una trama preconcetta, manipolando teleologicamente i fatti architettonici, sciogliendone le particolarità dentro il contenitore d’un comune senso nazionale garantito dalla storia. Il neorazionalismo sconfitto, di Aldo Rossi, di Oswald Mathias Ungers – ricordo che è stato maestro del nostro Koolhaas – di Giorgio Grassi, di Vittorio Gregotti, di Paolo Portoghesi – e sicuramente ne dimentico molti - ha occultato per decenni la propria incapacità creativa, la propria inadeguatezza teorica, nelle rughe del peggiore storicismo trascendente.
Io credo che l’architettura
non abbia necessità di ritirare
in ballo né il nazionalismo di comodo di questi personaggi,
né il vernacolo
dello strapaese - fonte d’ispirazione della quasi
totalità dei piccolo comuni
italiani, i cui amministratori paiono più preoccupati di
perdere un’identità piuttosto
che trovarne una nuova – né quello che Rem
Koolhaas intende proporci come
tracciato d’un processo d’emancipazione
architettonica da riscattare sul
cadavere di fantomatiche architetture nazionali.
Un’ultima considerazione.
Una lettura evolutiva della storia dell’architettura, come
quella che Koolhaas
ci sottopone, non è più attuale.
Nel nostro paese, per esempio, oggi convivono tendenze
tradizionaliste, neorazionaliste, vernacolari, moderniste, per usare un
termine
che ne raccolga grossolanamente lo spirito, e anche passatiste. Tutte
coesistono, nel bene e nel male, in un territorio comune che chiamiamo
Italia.
Tutte coabitano, addirittura, nello stesso ordine professionale.
Nessuna di
loro è scomparsa sopraffatta dai tempi. Tutto convive e
sopravvive.
Il web, che per sua natura scavalca le gerarchie
epistemologiche tradizionali, concreta con la massima evidenza
ciò che ho
appena sostenuto. Non lo so se questo sia un bene o un male, ma la
biennale del
nostro nuovo direttore, a quanto pare, non darà risposta a
questa domanda,
semplicemente eludendola. Una risposta evidentemente politica che
vorrei
approfondire in un articolo successivo.
(Sandro Lazier - 26/1/2013)
Per condividere l'articolo:
Commento 12110 di isabella guarini del 27/01/2013
Non condivido tutto quanto ha scritto Sandro Lazier sul rapporto storia e architettura, identità culturale e altro, perché penso che l'architettura "moderna", al di là di divisioni sistematiche, non ha mai reciso il rapporto con la storia dei luoghi in cui si è manifestata. Condivido, invece, il suo giudizio su Rem Koohlaas e la scelta per la Biennale che finirà con l'esser la mostra dell'architettura globale, monotona e uguale a se stessa per cui sarebbe persino inutile invitare tanti esponenti di varia nazionalità. Inoltre mi sembra che sia una operazione di marketing, del progetto per il progetto dei Koohlaas del Fondaco dei Tedeschi in venezia,m dopo tante polmiche. Comunque, il poliedrico Rem non rinuncia a un rapporto, privo di prossimità spaziale, con la storia "moderna" dell'architettura. Infatti con il progetto dell'auditorium di Porto, esibisce tagli alla base della base del parallelepipedo, lanciando l'amo della memoria al Club Rusakov 1927-29 di Konstantin Melnikov. Ma quelle di Mielnikov erano ali!
http://architettura.it/artland/20100413/09C.jpg
27/1/2013 - Sandro Lazier risponde a isabella guarini
La storia, c'è chi la fa e chi più semplicemente la usa
Commento 12114 di marco del 28/01/2013
Sulla parte dedicata alla scelta di Koolhaas condivido. Meno su quanto scrive Lazier a proposito di popoli (e quindi culture) e territorio e anche di conseguenza architettura. L'architettura di un territorio (e quindi di un popolo) è ben riconoscibile e radicata in ogni parte del pianeta. E non si ricominci con la storia che nessuno ha radici e siamo semplicemente figli del mondo (cito Lerner) perchè ognuno di noi le ha e le deve, a mio modesto parere, tenere ben strette. Il tentativo di codificare un'architettura internazionale priva di radici è a mio modestissimo avviso fallito, le opere di Alvaro Siza o dello stesso Piano, per esempio, lo dimostrano
28/1/2013 - Sandro Lazier risponde a marco
Il problema, secondo me, non è quello d’esser radicati oppure no. Le buone piante si giudicano dai frutti, non dalle radici. Così come le buone architetture. Ergo, se le piante sono buone daranno buoni frutti. Dipenderà, ovviamente, da dove le coltivi.
In un terreno idealmente fertile, delle radici quasi si potrebbe fare a meno. È in un terreno cattivo che avrò bisogno di radici particolarmente robuste e profonde. Ma da un terreno cattivo è difficile ricavare buoni frutti.
Deduco: tante radici -> posti peggiori -> frutti peggiori.
Qualche anno fa si parlava di villaggio globale, un’idea che oggi pare scomparsa. Un’idea che esplicitava al senso comune la rivoluzione del web. Grazie alla possibilità di comunicare in tempo reale con tutto il pianeta, si poteva assimilare il mondo della rete ad un antico villaggio dove , giorno per giorno, potevi conoscere tutto ciò che succedeva al suo interno. Non si trattava di contrapporre globale e locale, ma di rendere il locale grande come il globale, di farli, in pratica, coincidere. Ora, solo chi ha paura di crescere e mettere in comune esperienze e cultura può provare avversione al villaggio globale e al suo linguaggio. Paura soprattutto di perdere un’identità e restare senza nessuna cultura cui riferirsi. Il che non è possibile perché se si perde un’identità se ne trova simultaneamente una nuova, probabilmente migliore della precedente perché frutto di una rinnovata condizione.
Non mi pare che R. Piano rinunci alla comunicazione globale. Altra cosa è essere architetti organici dove è la specificità del luogo che genera l’architettura che dovrà modificarlo. Ma si parla di luogo fisico, non culturale.
Commento 12113 di giuseppe Mongelli del 28/01/2013
Sarebbe interessante capire quanto dell'architettura contemporanea sia prodotto del progettista oppure dei condizionamenti normativi:
Sopraintendenze, Comuni, Regioni, Assessori ecc...
Personalmente ho visto "sorci verdi" per fare un progetto in Maremma.
28/1/2013 - Sandro Lazier risponde a giuseppe Mongelli
Questo è l'enorme tema politico dell'architettura che nessuno vuole affrontare. Un vero tabù.
Spero di poterlo fare presto su questo giornale
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