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commenti all'articolo: Hopeless Monster (Night at the museum) di Ugo Rosa
Attenzione! I commenti sono in ordine discendente, dall'ultimo al primo.


Commento 9241 di --->Salvatore D'Agostino
15/1/2011


Ugo Rosa,
leggo solo adesso la tua risposta.
Condivido questo tuo pensiero: Funziona, dunque, ci che risponde al compito per cui stato messo in atto e vi risponde nel modo pi adeguato.

Qual il compito di un museo darte contemporanea di una capitale non solo europea ma mondiale?

Tre appunti:

CAPITALISMO TRANSNAZIONALE
Per Leslie Sklair non possiamo trascurare linfluenza della classe capitalistica transnazionale sullarte e larchitettura contemporanea.
Classe capitalistica che abita le citt globali.
In suo articolo apparso su Lotus (n.138) concludeva con una riflessione:Oggi anche utile riflettere su come la nuova architettura iconica nei quartieri e nelle citt possa incontrare i bisogni di coloro che vivono senza assecondare semplicemente la cultura-ideologia consumistica. Ma ci implicherebbe la fine della globalizzazione capitalistica che noi conosciamo.

LARTE RELAZIONALE
Nicolas Bourriaud nel suo saggio (ora libro anche in Italia) Estetica relazionale dice: Per inventare strumenti pi efficaci e punti di vista pi corretti, importante capire ci che cambiato e ci che continua a cambiare. Come si possono comprendere i comportamenti artistici manifestati dalle mostre degli anni Novanta e le modalit di pensiero che li animano se non si parte dalla stessa situazione degli artisti?
Per Bourriaud larte di oggi uno stato dincontro.

OGGETTI DARTE
Joseph Kosuth ---> http://www.globartmag.com/wp-content/uploads/2009/10/joseph-kosuth.jpg
Kateřina ed ---> http://www.exibart.com/foto/78514.jpg
Chris Marker ---> http://journals.dartmouth.edu/cgi-bin/WebObjects/Journals.woa/2/xmlpage/4/article/289/immemory18.jpg

Il tuo articolo ha due pecche (non unaccusa):

la prima, comune alla critica degli ultimi ventanni (quella che ha amato pi la filosofia che la sostanza), la lettura dellimmagine (costi, politica, analogie visive arca-sarcofago, ) pi che la sintassi dellarchitettura.
Conosco tre architetti che lavorano per Zaha Hadid che parlano solo di sintassi. Sintassi che, personalmente non condivido (ma questo non importa);

la seconda, lincapacit, della stessa critica di parlare con la stessa veemenza, della continua devastazione a opera del popolo del cemento del nostro paesaggio. Troppo poco cool, non da happy hours.

Per questo motivo trovo inutile e troppo semplice parlare di questo museo, totalmente devastato (poich mozzato) dalle revisioni dei tecnici comunali (per ricordarci che siamo in Italia).

Detto tra noi, io apprezzo le analisi sullarte di Mario Perniola nel suo "L'arte e la sua ombra ma ho altre necessit (ma anche questo non importa).

Io partirei da un critico eteronomico, che apprezzo secondo la maschera che indossa.
Si chiama UGO ROSA.
Il 19 ottobre del 2008 su archit, ha scritto un articolo, geniale direi perfetto, dal titolo GIUSEPPE DI VITA. Complesso parrocchiale a San Cataldo.
Ti passo il link: http://architettura.it/architetture/20081019/index.htm

Ripeto perfetto, perch LEGGE LA SINTASSI DELLARCHITETTURA E NON LA SUA IMMAGINE.

Essendo pedestre, non sopporto i critici 'incazzati' cool da divano come Ugo Rosa preferisco Ugo Rosa.

Saluti,
Salvatore DAgostino


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Commento 9235 di --->domenico cogliandro
9/1/2011


Ho gi detto ad Ugo qualcosa intorno al testo. Mi trovo nella difficile situazione dell'innamorato che non pu fare a meno di amare, perch quella la sua condizione o la sua pena. Vorrei essere frainteso ma non posso esserlo, fuor di dubbio. Ecco: amo Ugo Rosa. Come a suo tempo ho amato Raymond Chandler, follemente, o disperatamente Peter Handke. Come ho odiato (amando) il notabile Umberto Eco nella descrizione minuziosa delle eresie o la terribile attesa che accadesse qualcosa tra una nave in secca e la penna di Joseph Conrad. Mi sono dichiarato, dunque: non sono obiettivo. Ecco perch penso che Ugo abbia sbagliato passo, nel senso di cammino, percorso, trazzra. Ha scritto per alcuni naufraghi che pensano ancora di vedere la zattera che han detto loro di notare se si parla di isole, mare e orizzonti. Nostalgici del dito, non della luna. Pi prosaicamente: vera architettura quella che resiste al tempo e che ha come dannazione l'incomprensione del proprio, tempo. In questo affresco Ugo somiglia al redivivo Isidro Parodi, vive nel luogo (assente) da cui possibile sbrogliare i nodi non essendovi imbrigliato. Io faccio cos quando mi trovo per mano dei fili imbrogliati: chiudo gli occhi, e sbroglio. Per questo lo amo. Ma tra il dito e la luna non c' solo una distanza astratta, c' il mondo intero.

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Commento 9214 di --->maurizio zappal
24/12/2010


E certamente non avevo intenzione e capacit di risolvere alcun problema sui massimi sistemi di pensieri. E certamente qualcuno prende appunti e saccentemente crede di specificare o interpretare meglio, con complementi di specificazione "professorali". Insomma incontri sempre professori che presumono la sappiano meglio e pi di te! E, cacchio, le scuole ce l'ho anch'io...sembrano dire!Comunque cercando di andare avanti e non so se ne valga la pena, un tale Loos scrisse di "come vestirsi, di come arredare la propria casa, di come mangiare, di come comportarsi in societ e di come stare al mondo, architettando" e il suo amico Kraus lo aiutava a ridicolarizzare con ogni minuzia, la vita quotidiana, suggerendogli di volta in volta qualche aforisma per sdrammatizzare la miseria della societ, di quei tempi(sici!). E certamente dobbiamo sempre udire quale sono le richieste dei nostri committenti ma sembra altrettantanto banale e semplice che non avendo in testa un manuale tipologico che sforni funzionalit a go-go al centimetro quadrato, esploda la voglia di prendere per il lato B l'architettura.E che noia stare l a prendere sempre appunti per capire se meglio mettere la "pila" a destra o la "lavatrice" a sinistra! La claustrofobia della funzionalit, credo, abbia prodotto generazioni di "impotenti"...spaziali che ancora si chiedono come viene fuori altro, senza il controllo della funzione!Insomma non mi spostate le carte o i mobili che entro in confusione! Mi preoccupo quando tutto funziona demiurgicamente, perche l vuol dire che passato Mastro Lindo o Mister Muscolo che ha spazzato via la crosta tattile, per me , fondamentale del fare architettura! Che megalomane quel Loos!

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Commento 9212 di --->pietro pagliardini
19/12/2010


Leggo oggi, contemporaneamente, i due commenti di Maurizio e Vilma.
Mi avete preso in castagna, inutile negarlo.
In questo momento non so cosa rispondere altrimenti non esiterei un attimo a farlo.
Non ho capito, davvero, se i vostri sono giochi di parole, ma l'etimologia non mai casuale anche se non spiega tutto, oppure se abbiate risolto l'arcano.
Il nesso tra abito e abitare indiscutibile, non solo per l'origine della parole.
Per cui mi fermo qui, accuso il colpo e, fino a che non sar riuscito a cogliere se c' e dove sta la differenza, soprattutto in relazione al consumo, non replicher a vanvera e senza convinzione.
A presto (spero)
Pietro


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Commento 9211 di --->vilma torselli
19/12/2010


Pietro, larchitettura, nata per rispondere a necessit primarie quali la difesa dai pericoli esterni e dai rigori climatici, riparo ed involucro protettivo per il corpo delluomo con la stessa funzione di un 'abito' vero e proprio, secondo Gottfried Semper, architetto e teorico tedesco dellottocento, si sarebbe poi sviluppata come architettura abitata, con etimo appunto nella parola abito, grazie alla pratica della tessitura, tutta femminile, attraverso la quale veniva costruito labito per il corpo. Da l avrebbero infatti preso spunto le costruzioni arcaiche fatte di strutture intrecciate (tende e capanne), materiali tessuti sullesempio di quanto facevano le donne della trib.
Al di l della curiosit della teoria, stupisce gi a met dellottocento questo approccio antropologico allo studio dellarchitettura, che evolve con luomo sulla base delle sue esigenze sociali.

In realt, ci dice la grammatica che il latino habitare un verbo frequentativo (o intensivo) di habere (avere). Esso significa, innanzitutto, avere continuamente o ripetutamente. Abitare rimanda quindi allavere con continuit. Labitante, allora, ha il luogo in cui abita" (Sebastiano Ghisu, Essere, abitare, costruire, vedere), e lo ha tanto pi quanto pi lo personalizza, lo rende unico e rispondente allidea che ha di s ..
Anche secondo questa derivazione, lidea di abitare strettamente legata allabitante/possessore, alla sua vita, al suo tempo, alle sue esigenze peculiari e transitorie. In questo senso larchitettura un bene di consumo, che muta, o dovrebbe mutare, a seconda delle necessit e delle richieste. Come gli abiti.

Partendo da Walter Benjamin (Parigi capitale del XIX secolo appunti incompiuti del 1925: Moda e architettura appartengono all'oscurit dell'attimo vissuto, alla coscienza onirica del collettivo .. architetture, moda, anzi persino il tempo atmosferico, sono, all'interno del collettivo, ci che i processi organici, i sintomi della malattia o della salute, sono all'interno dell'individuo), Patrizia Calefato, che si interessa di sociolinguistica, scrive: C' un profondo intreccio - poetico, semiotico, testuale - tra la moda e la citt, un intreccio che si avviluppa sul nucleo della "strada", per riprendere l'immagine di Benjamin, intesa come il luogo dove il gusto sperimenta l'atmosfera del tempo, come zona di incrocio tra culture e tensioni, come spazio fisico e metaforico entro cui la citt acquisisce il suo senso in virt di pratiche sociali condivise. Dalla "strada", concepita in questo modo, possibile guardare ai flussi che moda e architettura veicolano e moltiplicano.
E poi, basta pensare agli edifici e agli abiti del barocco, del rinascimento, del neoclassicismo per rilevare a colpo docchio profonde analogie tra moda e architettura. Pi o meno consapevolmente, la moda si caratterizzata nel tempo in senso concettuale, assecondando sempre di pi la fluidit (passami il termine abusato) del corpo anzich lesibizione di esteriorit, per giungere oggi ad una disinvolta ibridazione di forme e materiali grazie alla quale moda e architettura si integrano come stili di vita e forme di estetizzazione del quotidiano.
E non un caso che famose archistar firmino i punti vendita di famosi marchi di fashion.


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Commento 9207 di --->maurizio zappal
17/12/2010


for Pietro.

Rispondo o non rispondo?
Motivo o non motivo?
Leggo o non sono letto?
Consumo o non consumo?
Abitare o abito?

E da qui partiamo...Si, ribadisco che l'architettura, a mio avviso, non la menata che ci hanno propinato a scuola: funzione o forma?
E' fondamentalmente emozione!Viaggio!
Per cui, arte/architettura /cinema/ abbigliamento sono manifestazioni aptiche (et.: capacit di entrare in contatto con...)senza alcuna nostalgia del passato/passatista che non mi ha dato nulla e che quindi, cerco emozioni, soltanto, al futuro! Consumando e consumandomi fino ad arrivare, forse, quando morir alla mia vera identit!La tua nostalgia per la "casa immobile" nel tempo, il mio transito al futuro!Pietro, non vorrei annoiarti e ti dispenso dal ribattermi, se vuoi, pensa semplicemente che "habitus" e "habitare" hanno un legame semantico. "Abito" un elemento della loro connessione, poich ne condivide la radice latina. Visto che l'habitus inscritto nell'abitare perch non ampliare il paradigma aggiungendo all'equazione anche l'elemento moda?Dare riparo al corpo e vestirlo sono collegati da un vincolo stretto che ti perdi strada facendo stando tu,"immobile"! "Abito" non soltanto un vestito ma anche la prima persona singolare dell'indicativo presente del verbo abitare, usato per indicare il proprio indirizzo che per te via Palladiana n.1. Insomma, anche affascinante pensare nei termini inglesi, address e dress, come fossero i due lati di un tessuto double-face, in una interazione di habitus e habere che tanto definiscono la moda e l'architettura quanto naturalmente il cinema, poich tutti hanno a che fare con il C O N S U M O!



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Commento 9153 di --->vilma torselli
10/12/2010


solo una breve intromissione in una tenzone che promette di essere interessante: Ugo dice "provate ora a immaginare un padiglione per malati terminali di cancro progettato la Gehry".
Non occorre immaginare, guardate qua
http://www.mrflock.com/eventi/lou-ruvo-center-incredibile-architettura-di-frank-gehry.html
un centro di salute mentale (si fa per dire) specializzato nella cura di malattie come lAlzheimer, il Parkinson, la SLA, progettato da Gehry.
Ogni commento superfluo.


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Commento 9152 di --->Ugo Rosa
10/12/2010


Ugo Rosa risponde a S. D'Agostino

Funzionare, v. intr. (funziono ecc.; aus. Avere)
1. Essere in grado o nell’atto di corrispondere alle esigenze specifiche determinanti della propria struttura od organizzazione: la macchina ha cessato di f. ; l’ufficio non funziona più come prima | Rendere in modo soddisfacente: occorre sempre un po’ di tempo perché un nuovo metodo cominci a f.
2. Esercitare una funzione, fungere: f. da segretario | Celebrare (in ambito liturgico): oggi funziona il vescovo.
Così il Devoto-Oli.
Quanto all’etimologia ci si attesta comunemente su quella che fa derivare la parola da functus, participio passato di fungi (fungor, eris, functus sum fungi): conduco a termine; adempio, eseguo, compio, sopporto.

Funziona, dunque, ciò che risponde al compito per cui è stato messo in atto e vi risponde nel modo più adeguato.
Una penna deve scrivere. Ma non basta ancora che scriva perché “funzioni”. E’ necessario, per esempio, che la sua scrittura non richieda, per essere messa in atto, l’uso di sangue umano, di oro liquido o di inchiostri a base di uranio impoverito, che non pesi sei chili e che abbia dimensioni inferiori a quelle di un missile terra-aria.
Quando chiunque disponga delle mani e sia in grado di usarle potrà scrivere a costi economici e in maniera agevole, potremo dire di avere una penna che, effettivamente, funziona.
Poi, naturalmente, avremo penne più o meno belle e, anche, più o meno costose, ma affinché la penna continui a “funzionare” dovremo rimanere sempre dentro un paradigma che sappia declinare bellezza, costo e capacità di servire in termini tra loro adeguati.
Se una penna costa un miliardo sarà, forse, una curiosità da baraccone, ma perde una delle caratteristiche che ne fanno uno strumento di scrittura utilizzabile.
Per gli edifici le cose non stanno diversamente.
Un edificio funziona quando risponde al compito per cui è stato costruito e vi risponde nel modo più adeguato e a costi complessivi (di costruzione e di gestione) sensati.
Ciò che non funziona soltanto ma “ha da funzionare” (un artefatto, cioè, qualcosa che non funziona “solo per caso”) viene infatti progettato e costruito “in funzione”.
Un ospedale è pensato e costruito “in funzione” dei malati che dovrà ospitare, un’abitazione “in funzione” degli abitatori ecc; una sala espositiva deve esserlo “in funzione” delle opere che vi saranno esposte o, più precisamente, “in funzione” del migliore dei rapporti possibili tra l’opera e chi la contempla.
Noto, per inciso, che un museo nato per esporre l’arte del XX secolo risponde ad un’esigenza che proprio l’arte del secolo scorso ha avanzato per la prima volta: quella di un luogo fruibile a piacimento (spesso a pagamento) e votato ad ospitarla e a metterla “in mostra”.
Prima della nascita dell’arte moderna questa esigenza non esisteva.
Né Giotto, né Raffaello, né Leonardo hanno dipinto per far mostre pubbliche e sarebbe divertente immaginare la reazione di Andrej Rublev se gli avessero predetto che l’icona della Trinità, un giorno, sarebbe diventata un poster per pubblicizzare il panettone, Picasso, Modigliani, Van Gogh e Matisse, invece, puntavano, fin dalla prima pennellata, alla galleria d’arte e all’esposizione e quello auspicavano.
Ma ciò non è importante se non per sottolineare che, se qualche opera mai si dovesse trovare a sua agio in un museo (cosa della quale ho sempre dubitato e continuo a dubitare) quella sarebbe proprio un’opera di arte moderna, l’altra infatti ci sta, per definizione, malgré elle.
Parlare dunque di un “museo d’arte moderna” non è dunque trattare di un raro caso specialistico bisognoso di raffinatissime alchimie tecnico-mentali ma è quasi una tautologia giacché è proprio questo il solo caso in cui il museo ospita opere che sono nate esattamente per esservi ospitate.
Definizioni come sala espositiva, museo ecc. racchiudono, com’è noto, un significato che, in qualche modo, si pone a metà strada tra quello della parola “obitorio” e quello della parola “bordello”: vi si reca a pagamento per provare piacere e vi si trovano oggetti (o corpi) che, presumibilmente sottratti a quelle che dovevano essere le loro precedenti condizioni, vanno immagazzinati in condizioni adeguate alla loro conservazione.
Un museo, come un obitorio, dovrà far sì che i corpi vengano preservati almeno nelle condizioni in cui si trovavano al momento di essere immagazzinati ma, come un bordello, dovrà altresì esporre tali corpi nella maniera più avvenente e redditizia.
Bisognerà tuttavia convenire che la modalità di fruizione dell’oggetto esposto in un museo è differente da quella dell’oggetto esposto in un bordello.
Nel primo caso “si contempla”, nel secondo (in genere) non si contempla soltanto … ma anche nel caso in cui il fruitore desideri esclusivamente contemplare (de gustibus…) sarebbe lo stesso esplicarsi di tale contemplazione che presenterebbe esigenze differenti.
Nel bordello il contemplatore è, comunque ,un caso limite, nel museo è la norma.
Dunque, contrariamente a quanto avviene al bordello, occorre che il museo, per funzionare, offra in primo luogo condizioni contemplative adeguate all’oggetto in mostra e non intese come mero passaggio verso altri tipi di rapporto.
Proprio le esigenze “di pura contemplazione” del museo, infatti, richiedono che essa avvenga in condizioni assolutamente ottimali e che l’oggetto contemplato (non avendo altre possibilità di relazionarsi al fruitore che non può intrattenere con esso altro genere di “commercio”) si offra interamente e nel migliore dei modi.
Non è il caso di entrare nei dettagli di questo tipo di relazione (definita dagli esperti “estetica”) ma si può dire che è universalmente accettato il fatto che essa possa esplicarsi nel migliore dei modi soltanto in condizioni di raccoglimento e in situazioni tali da fornire il minimo possibile di disturbi ambientali.
Controllo dell’illuminazione e dei rumori sono, fondamentali. Va evitato l’inquinamento acustico e quello luminoso ma, ancora più importante è che sia accuratamente evitato ogni inquinamento “visivo”, dal momento che il museo è votato ad opere che proprio al senso della vista si rivolgono.
Un museo dunque “funziona” quando tali condizioni sono rispettate e si dispongono, tutte insieme e appassionatamente, a far si che tra il visitatore e l’opera si stabilisca un rapporto quanto più intenso e “raccolto” possibile.
La radice della parola Musa è indo-germanica: man (pensare) da cui mens ma anche mania (cioè turbamento della mente). Il museo è perciò un luogo nel quale si pensa (talvolta fino alla mania…) e nel quale il nucleo di tale pensare è costituito dall’opera d’arte della quale il visitatore si trova in presenza.
Nessun museo, come dicevo, funziona se tale rapporto è inquinato da elementi visivi o uditivi estranei. Non importa se questo elemento inquinante sia il comunicato commerciale e il jingle pubblicitario diffuso dall’altoparlante oppure l’ego dell’architetto che si sovrappone scioccamente e chiassosamente al rapporto tra l’opera e il visitatore.
Peggio ancora se l’ego dell’architetto assume connotati inequivocabilmente pubblicitari e diventa firma o, meglio, logo.
Questo, dunque, per quanto riguarda la funzione e il funzionare.
A parte un invito.
Albert Einstein amava quelli che definiva “esperimenti mentali” e che sono, per l’appunto, dei piccoli esperimenti diretti a confermare o falsificare una certa ipotesi.
Essi hanno il vantaggio di non costar nulla e di non richiedere altro che un pochino di immaginazione.
Io, a conferma di quanto ho appena scritto, invito tutti a questo piccolo esperimento.
1) Postulato: l’architetto non fa quello che vuole, quando vuole, come vuole e dove vuole ma solo quello che può, quando può, come può e dove può.
2) Conseguenza: l’architetto esegue i desiderata della committenza e, se è degno di essere definito tale, deve essere in grado di progettare con uguale sensibilità e competenza qualsiasi tema “funzionale” la committenza gli richieda, dal canile alla città.
3) Esperimento: provate ora a immaginare un padiglione per malati terminali di cancro progettato “à la Gehry” ( oppure à la Hadid, o, meglio ancora, à la Libeskind…insomma una cosa divertente, spigliata, avventurosa, firmata ed esportabile in tutti i mercati dell’impero…una cosa iperattuale).
Buona fortuna.

* * *
Liquidata l’incombenza linguistica, vorrei dire però che trovo indicativo (e non mi sorprende) che dopo venti anni di iperattualismo due architetti, parlando tra loro, siano costretti a spiegarsi a vicenda cosa vuol dire la parola “funzionale”.
E troverò ugualmente interessante (e per nulla sorprendente) quando, la prossima volta, Salvatore D’Agostino, dopo avere contabilizzato la percentuale di condivisione all’uno virgola cinque per cento mi chiederà che cosa cazzo intendo dire quando parlo di “architettura”. Ed io dovrò (non lo dico a mia discolpa, anzi: me ne faccio carico perché ho il sospetto che dovrei rifiutarmi di farlo, così come ho il timore che non avrei mai dovuto spiegargli cosa vuol dire, per un’architettura, “funzionare” ma, semplicemente, invitarlo a guardare il dizionario) dovrò, dicevo, comunicargli per via scritta che cosa vuol dire “per me” la parola architettura.
Non meno interessanti e divertenti sono, del resto, le altre chiose che il mio articolo, modestamente, ha stimolato.
Dalla prima che invita a “leggere quest’articolo, ma non proprio tutto” (non specifica, tuttavia quale porzione occorre leggere: l’inizio, la parte centrale, quella finale oppure un florilegio a cura del chiosatore) e, a seguire, incita a “guardare dritto e avanti”. Cosa di cui gli sono grato perché mi riporta all’infanzia e al mio paesello, infatti era proprio l’incitamento (“talìa d’avanti e ddriiiittttuuu…”) che, scuotendo le redini, il carrettiere indirizzava all’asino coi paraocchi appena il poveretto provava a deviare dal percorso prescritto.
Fino a quell’altra che, pur chiosando, lo fa, tuttavia (dopo avermi gratificato con due deliziosi epiteti “reazionario e nichilista” che, immagino, non erano diretti a lodarmi) “a prescindere dall’articolo” e si dedica poi anima e corpo nientemeno che a “parlare d’architettura” (ed io avevo certo parlato d’altro, visto che per parlare d’architettura, bisogna assolutamente tirare in ballo i famosissimi “flussi spaziali”).
Passando per la più bella di tutte, che sembra l’epitaffio dello scoliaste pazzo:
Non ho letto l’articolo. Ho letto però il commento…”.



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Commento 9149 di --->salvatore d'agostino
7/12/2010


Ugo,
condivido il 20% di ci che dici.
Prima di disarticolare i miei pensieri, vorrei farti una domanda: Che cosa significa funzione per un museo darte contemporanea (non minteressano le tue considerazioni sullarte)? Qual la funzione (parola che hai ripetuto dieci volte)? Che cos la funzione (tecnicamente in questo caso)?
Saluti,
Salvatore DAgostino


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Commento 9147 di --->pietro pagliardini
4/12/2010


No Maurizio, mi spiace ma questa non una risposta. Non a me, che non ha alcuna importanza, ma al perch della cosa, alle motivazioni vere.
la relazione auto-casa, abiti-casa non regge, per molti motivi, uno ad esempio che i beni di consumo seguono solo le legge del consumo, del mercato. Tra le auto di oggi e quelle di un anno fa non c' alcuna differenza sostanziale, solo optional di nessuna utilit reale ma utilissimi a vendere.
Per gli abiti poi, se fai bene attenzione, non cambiato quasi niente, nella sostanza da secoli.
Ma la casa non bene di consumo. A meno che tu non pensi che lo sia, nel qual caso la tua una risposta, da me non condivisa, ma una motivazione.
Ciao
Pietro


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