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Ci sono 18 commenti relativi a questo articolo

Commento 9129 di Antonino Saggio del 08/11/2010


Leggiamo, anche se non proprio tutto, quest'articolo. Ma bisogna guardare dritti dritti e davanti. Se volete qui http://antoninosaggio.blogspot.com/2009... se ne era discusso

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Commento 9130 di vilma torselli del 08/11/2010


Questo http://dailymotion.virgilio.it/video... un divertente Sgarbi-show che forse sfuggito a Ugo Rosa.

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Commento 9134 di vilma torselli del 10/11/2010


Per Antonino Saggio.
Premettendo che condivido ci che scrive nellarticolo da lei stesso citato, mi pare vadano aggiunte alcune considerazioni:

Lidea di un museo autosostenibile, che si autofinanzi con introiti propri mi pare assolutamente normale per quei musei americani, circa ventimila, la quasi totalit dei musei sul territorio, che non sono statali, ma sono stati pensati, costruiti e riempiti da privati: dal Getty Museum al Whitney Museum ai vari Guggenheim, che hanno dato casa ai transfughi surrealisti europei monopolizzandone le opere e creando da zero lespressionismo astratto americano, ai vari Rothschild, che ne hanno esposto nelle loro sedi bancarie 2500 esemplari, ai Castelli ecc.

Cito dalla rete www.sindromedistendhal.com/LaLente... I nostri musei hanno ben poco in comune con quelli americani. Sia da un punto di vista istituzionale, gestionale ed amministrativo, sia sotto lottica pi strettamente legata alla funzione culturale del museo. Negli ultimi anni si deve al noto studioso e direttore della Normale di Pisa Salvatore Settis un impegno attento e appassionato sullargomento. Ne sono testimonianza due importanti libri (Italia S.pa. pubblicato da Einaudi nel 2003 e Battaglia senza eroi. I beni culturali tra istituzioni e profitto, una raccolta di articoli e interviste, edizione Electa -2005), numerosi interventi su giornali e riviste specializzate ed infine la recente nomina a presidente del Consiglio Superiore per i Beni Culturali.
Settis impegnato a dimostrare, innanzitutto, che primo ostacolo allapplicazione del modello americano in Italia una profonda differenza ontologica tra musei italiani e statunitensi.

Personalmente, forse perch non sono americana, penso che la cultura, come la scuola, debba/possa essere gratuita o anche onerosa, penso che i musei non dovrebbero far pagare il biglietto dingresso, che i depliant e il materiale divulgativo sulle iniziative in corso dovrebbero essere regalati ed offerti gratis ai visitatori perch meglio comprendano (un catalogo che costa 50 euro non alla portata di tutti, delle orrende tazzine con su scritto Tamara de Lempika sono inutili, portano soldi allorganizzazione ma non diffondono cultura).
Oggi Guggenheim una griffe come Prada e Armani, un marchio diffuso nel mondo, a New York a Bilbao a Venezia a Berlino (dove in joint-venture con Deutsche Bank), una vera e propria multinazionale dellarte che gestisce la totalit delle opere del 900, dal Surrealismo al Cubismo, all'Astrattismo alla Pop Art.
Parallelamente gestisce anche un enorme bilancio per ci che riguarda lindotto, vendita di cataloghi, di riproduzioni, gadget firmati, shop museum, guggenheim store, caf museum ecc.
Una recente invenzione, che ottimizza la gestione economica e si inquadra in un crescente processo di McDonaldizzazione della cultura cosiddetta globale (nel senso che offre tutto a tutti in modo indifferenziato) quella delle mostre itineranti (mostra sulla Bauhaus che passa da Berlino a New York, di Tiffany tra Parigi e Montreal, di Hopper da Milano a Roma a Losanna, della mostra sul Futurismo, quella su Hans Hartung ecc.), un unico pacchetto preconfezionato che si sposta da Milano a Roma, dalla Francia alla Germania, con unorganizzazione controllata, efficiente, prevedibile, asservita alla logica di mercato che governa oggi molti fenomeni sociali e culturali (dall'alimentazione al lavoro al tempo libero) .
Sarebbe pensabile e possibile un tale sistema in Italia? Una famiglia ricca e potente che fa incetta di opere e gestisce una catena di musei senza chiedere finanziamenti statali e proponendo una sua libera offerta culturale? Non so se auspicabile, ma forse, e il MAXXI potrebbe esserne l'occasione, non da escludere, confidando nel fatto che il supermanager Mario Resca, consigliere del ministro dei Beni Culturali Sandro Bondi, anche lex presidente di McDonalds Italia. Non ci resta che aspettare.

Il 3 giugno 2009 viene inaugurato a Venezia il museo Vedova, modesto, piccolo, costa solo 1,5 milioni di euro, il primo museo in movimento dedicato a trenta tele di un solo artista italiano, dove le tele del grande artista veneziano vengono esposte per mezzo di una struttura meccanica che con un movimento circolare le trasporta dal magazzino, in cui sono conservate, nella sala dove gli spettatori possono ammirarle mentre galleggiano nellaria.
www.veneziasi.it/it/musei-gallerie-venezia...
E una novit, anche dal punto dello sfruttamento ottimale degli spazi, la tecnologia semplice ma efficace, bellidea, forse Elizabeth Diller lavrebbe o lha apprezzata, qui in Italia nessuno ha fatto una piega.

Voglio dire, per chi vive nella realt di un paese come lItalia, dove, ahim, ha trovato casa il MAXXI, Elizabeth Diller ha inventato lacqua calda.

cordiali saluti

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Commento 9137 di maurizio zappal del 17/11/2010


x Ugo.
La generazione dei tiralinee di cui io e Ugo facciamo parte quella che, secondo me, ha subito uno shock antropotecnologico senza precedente! Ora, sarebbe sicuramente noioso ed inutile ribattere lamico Ugo sui massimi sistemi di pensiero, perch non ne verremmo a capo. E ovvio che, non si possa fare a meno di sottolineare la nostra (mia e di Ugo!) divergenza sull'idea di Rivoluzione tecnologica. Non so e non voglio derimere sullarchitettura ma sulle emozioni che questa imprime, si. Laccanimento sui formalismi architettonici mi sembra molto riduttivo e anacronistico, ad un Ugo terragnomi offro come alternativo "acquifero"! Sai Ugo, da tempo ho smesso gli abiti degli avi come i pantaloni a zampa di elefante o peggio, leskimo! Devo confessarti che non mi emozionano pi e vesto da molto tempo alla matrix, molto pi tecnologico e figlio dei nostri tempi e forse anche demod, perch gi pronto il tessuto nanotecnologico che rende palombari. Su questo credo sia venuto il momento di mettersi daccordo! C un tempo in cui si debba fare i conti con ci che non capiamo ma viviamo! E se non si capisce che la statica tettonica cambiata riporteremo sempre i pesi a terra. Ora piacciano o no le cose che fanno moltissimi architetti che si cimentano con la nuova architettura, fondamentalmente ci che mi pare cogliere in taglio a questo argomento questo: emoziona il Guggenheim di Frank Gehry tanto quello di Frank Lloyd Wright, costi quel che costi? Il costo lasciamolo allalta scienza dei ragionieri! A me pare che il nostro tempo sia talmente pervaso dalla tecnica che linnovazione antropologica del secolo scorso, incanti e meravigli gli intelligenti e preoccupi gli insegnanti che non hanno confidenza con la materia. La simultaneit delle informazioni (oggi), fa s che dal mondo ci appaia larretratezza delle novit culturali; tuttavia, difficile negare che le nuove tecnologie abbiano innescato potenzialit creative equivalenti a una sorta di mixer alimentato simultaneamente dalle attivit di una bottega artistica quasi rinascimentale e dalle progettualit di un movimento che potremmo definire davanguardia. Nonostante ci, si ha limpressione che davanti non ci sia pi spazio e che si possa lavorare solo sul passato, sulleredit o sulle rovine di quanto rimasto dopo le trasformazioni subite dalle regole dei giochi della scienza, della letteratura, dellarchitettura e delle arti dalla fine del XIX secolo come gi (o appena) trentanni fa ebbe a scrivere Lyotard per introdurre la condition postmoderne. E cos che, alle metafore architettoniche (di Ugo!), per loro natura statiche, un certo Hegel, contrapponeva quelle nautiche o comunque relative a percorsi tormentati. Oggi come ieri e domani, larchitettura un viaggio di scoperta (memore di Le Corb o di Khan!) con un appeal contemporaneo che non pu essere quello di mio nonno!Non pi unapplicazione di regole o stilemi, di norme e falso naturismo, di dilemma forma/funzione! Lapparente omologazione che rintraccia Ugo mi sembra debole, della debolezza di colui che vuole mantenere a tutti i costi il suo arroccamento, sbrizziato qua e la di novelle cultura protoanticonformista. Di quelli che Libeskind fa cose storte che potrebbero essere benissimo dritte! Certo che anche il Colosseo avrebbero potuto farlo, i Romani, rotondo! Insomma, rintraccio un pressappochismo micidiale e rigido a cogliere il cambiamento, proponendo modelli vintage come conforto dellanimo/specchio! Cosa c in giro, un virus deformante o una considerazione nana della possibilit di sdoganare la triade Vitruviana? Quando pensano, i neolitici che accadr il grande passaggio allera futura? Quando, abbandoneranno la convinzione di poter controllare lo strumento fino a determinare il processo di trasfigurazione? Stare dalla parte della contemporaneit non vuol dire omologarsi o compiacersi di ogni cagata di Zaha, di Gehry o che so io, di Siza, di Moneo! Che da domani, i tiralinee, progetteranno come i sopracitati, mi sembra molto improbabile! Perch un fattore decisivo in gioco proprio quel rapporto tra produzione e ricezione, kantianamente tra gusto e genio, che definisce la dimensione estetica come un ambito in cui qualcosa come la coscienza entra in relazione necessaria con lopera, quel segno, copia di unorigine, che resta fenomeno presente, apparente. In cui la relazione tra il segno e lintelligenza del segno passa per leco provocata dallurto della sensazione: il fantasma dellopera. Lambito tecnico-produttivo d infatti origine, imitando la potenza generativa della natura, ad immagini; nel far questo rimette lapparenza alla sua costitutiva ambiguit, la rende fenomeno da salvare. Di questo mi pare qualcuno abbia una paura spaventosa e torna sempre allovvio e scontato, al vetusto argomento dellidentit perduta che gli toccano la tasca, tutto un po social/gatto/comunista! Cosa posso dire altro, caro Ugo, mi sono emozionato dentro/fuori Wright pensando al passato altrettanto mi sono emozionato dentro/fuori Gehry, pensando al futuro. Non mi sono emozionato dentro/fuori la Hadid, dove la manifattura (general-contract italiano!) fa schifo e la progettazione della luce scadentissima! Ah, siccome darchitettura non se ne parla, di Adorno musicologo insigne, poche cose mi rimangono in mente Una che era sempre sotto scopa di Benjamin; due che non amava il jazz e lo definiva espressione di moda ! Insopportabile.

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Commento 9141 di alessio lenzarini del 26/11/2010


Prescindendo dall'articolo di Ugo Rosa (ironico e simpatico fin che si vuole ma irrimediabilmente nichilista e reazionario) e parlando invece di architettura, colgo l'occasione per sollevare una domanda: perch quando si parla e si scrive del Maxxi, per celebrarlo o per stroncarlo, nessuno ricorda mai che si tratta di un progetto di cui stata realizzata soltanto una parte e che rimane pertanto palesemente mozzato e incompiuto? Questo aspetto mi sembra imprescindibile per qualsivoglia lettura critica del progetto, almeno per tre motivi:

- rispetto a tanti altri progetti di Hadid, magari pi oggettualmente scultorei, il progetto del Maxxi propone il suggestivo tema dei flussi spaziali: tema che tuttavia necessita di un sufficiente grado di reiterazione-proliferazione altrimenti rimane depotenziato. Tutto l'interesse dovrebbe nascere dall'esperienza della complessit spaziale e della circolazione intrecciata, dalla percezione labirintica dei flussi spaziali. Era un tema rigorosamente quantitativo che, realizzato a met, perde met del suo interesse nel solo sfoggio qualitativo: meno flussi = meno complessit. Per non parlare della presenza di un flusso-percorso che si interrompe bruscamente perch manca la parte di progetto in cui doveva proseguire...

- il tema dei flussi spaziali poteva avere una grande valenza urbana: il Maxxi non voleva essere un edificio volumetricamente circoscritto bens la saturazione interstiziale di un'area urbana con flussi spaziali di percorrenza, che tali potevano e dovevano rimanere anche a livello strada. Realizzare met edificio gli ha tolto ogni carattere di brulicante densit, perdendo il valore di saturazione interstiziale a favore di una semplice esibizione di volumetria: volumetria, peraltro, nemmeno tanto interessante, perch pensata per essere altro. Recintare l'area del Maxxi, ha poi definitivamente tolto ai flussi ogni implicazione di attraversamento urbano.

- il tema dei flussi spaziali vuole instaurare una affascinante corrispondenza spazio-fruitiva con le modalit dell'allestimento museografico: lungi ovviamente dal proporsi come contenitore neutrale e quindi facilmente allestibile, il Maxxi pretende di interagire costruttivamente con l'attivit museografica che si svolger al suo interno. I flussi spaziali chiedono di essere reinterpretati al variare delle esigenze espositive: un evento per ogni flusso, gli snodi tra i flussi come snodi tematici fra diversi eventi correlati, l'intrecciarsi dei flussi come diramazioni tematicamente diversificate dello stesso evento etc etc. Il Maxxi ambirebbe a divenire un interessante esempio di connubio interattivo tra contenitore e contenuto, da reinventare concettualmente ad ogni mostra: purtroppo, anche sotto il profilo museografico, la minore reiterazione-proliferazione dei flussi irrigidisce le potenzialit di interazione espositiva.

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Commento 9142 di pietro pagliardini del 29/11/2010


Non ho letto l'articolo. Ho letto per il commento di Maurizio Zappal, sempre da superuomo, sempre sotto effetto di stimoli forti, sempre appassionato, sincero e, appunto, stimolante.
Vorrei fare una domanda, semplice semplice a Maurizio, appartenendo io alla categoria dei neolitici, secondo la sua divertente definizione. Ma chiss se vale la pena rispondere ai neolitici?
Tu dici Maurizio: "Quando pensano, i neolitici che accadr il grande passaggio allera futura?".
La mia domanda questa: perch DEVE accadere questo passaggio?
Tutto qui.
Ciao
Pietro

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Commento 9143 di vilma torselli del 30/11/2010


Egregio Lenzarini, mi permetto una breve replica.
Anche se qualcuno si ricordasse che il progetto del Maxxi incompiuto, ci non cambierebbe le eventuali critiche, specie quelle negative: un progetto incompiuto e mozzato un progetto fallito, indipendentemente da chi si possa caricare della colpa, o dellinavvedutezza, o dellincapacit alla base del risultato. Voglio dire, riusciamo ad immaginarci il colonnato del Bernini realizzato per met? Colpa del progettista, del papa o di chiunque altro, sarebbe una scempiaggine e basta!
La lettura diagrammatica (cos la chiamano) del progetto secondo i flussi di espansione dei fluidi, (http://www.plancton.com/genart/inarch04/Ciclo_acqua.pdf) con tanto di restringimenti, deviazioni e pozzanghere (cos le chiamano) informative senzaltro affascinante, quasi romantica: come non ricordare Zygmunt Bauman e la sua societ liquida, dove anche la modernit liquida, un tipo di modernit individualizzato, privatizzato, in cui l'onere di tesserne l'ordito e la responsabilit del fallimento ricadono principalmente sulle spalle dell'individuo" (Z. Bauman, Modernit liquida, 2002)?
E una condizione storica, culturale e soprattutto umana, la liquidit, quella stessa che permette di incanalare in flussi sia i fluidi che le persone, entrambi incapaci di mantenere una forma in mancanza di coesione propria. Vite di scarto, persone di scarto, arte di scarto, musei di scarto, mutevoli, effimeri, senza domani .

Ma tornando al Maxxi e alla sua affascinante corrispondenza spazio-fruitiva con le modalit dell'allestimento museografico: lungi ovviamente dal proporsi come contenitore neutrale e quindi facilmente allestibile, il Maxxi pretende di interagire costruttivamente con l'attivit museografica che si svolger al suo interno.

Compito non facile, a giudicare dallallestimento iniziale, dove sculture, dipinti e installazioni dispiegano la loro bulimia a muoversi e a rapportarsi con la nuova liquidit territoriale del comunicare architettonico. Affidate attraverso la mano dei curatori ad un nuovo continente senza confini tradizionali vagano e perdono ogni ancoraggio. Sono fantasmi dispersi e sconcertati che si scontrano e si sovrappongono senza una logica, perch nel mondo della rete aperta e dei flussi dinamici non sussiste n storia n tema. Cos il tentativo di isolare gruppi di lavori d'arte, raccogliendoli sotto titoli [] risulta astratto e inutile. Rende superficiali certi insiemi [..] oppure scardina l'impatto mitico di certi interventi [..]. Di fatto questa riduzione di prestazione artistica il risultato di una contraddizione. Contrappone la fluidit architettonica ad una pratica statica e passiva, decisamente storica: quella del museo, dove conta l'accumulo, cronologico e linguistico, non la comunicazione. Una schizofrenia tra il compito di collezionare il passato e di proiettarsi nel futuro che produce un procedere ibrido su cui riflettere al fine di non rovinare la funzione dell'istituzione. [] Avendo progettato un'architettura senza confini n territori privilegiati, un corpo quasi sferico in cui tanto le irradiazioni quanto le prospettive non sono riferimento, ma indici erranti di una superficie totale, Hadid ha sollecitato l'affermazione di un'estetica pluralista, che volge lo sguardo a tutti i possibili stimoli dall'Asia all'Africa, dalle Americhe all'India: un invito alla rimozione del locale e nazionale, per un'apertura alla mondializzazione. E qui si concretizza un'altra dicotomia del nuovo museo che manifesta intenti globali, ma sollecitato a rivolgere la sua attenzione alla dimensione interiore, quella dell'arte italiana, augurandosi una sua potenzialit internazionale. Cos Germano Celant, Maxxi caos sullEspresso e La repubblica del 3 giugno 2010.
Larticolo di Celant smonta facilmente alcune non scontate prese di posizione:
- che larte moderna debba necessariamente essere esposta in un museo moderno
- che lagibilit per flussi sia automaticamente pi intelligente di quella per percorsi
- che i flussi spaziali possano essere reinterpretati al variare delle esigenze espositive secondo una flessibilit parallela tra contenente e contenuto che non pare cos agevolmente attuabile, come dimostra linsoddisfacente esposizione di apertura.

Su queste scelte di fondo lincompiutezza della struttura ha scarsa rilevanza, anzi, la compiutezza forse accentuerebbe le incongruenze.







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Commento 9144 di maurizio zappal del 30/11/2010


Pietro, quanti Flintstones vedi per la strada?Stai progettando comode "caverne", insieme a Krier? Mi sembra che la vita non sia un "fermo immagine"! Ti pare?
mah!

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Commento 9147 di pietro pagliardini del 04/12/2010


No Maurizio, mi spiace ma questa non una risposta. Non a me, che non ha alcuna importanza, ma al perch della cosa, alle motivazioni vere.
la relazione auto-casa, abiti-casa non regge, per molti motivi, uno ad esempio che i beni di consumo seguono solo le legge del consumo, del mercato. Tra le auto di oggi e quelle di un anno fa non c' alcuna differenza sostanziale, solo optional di nessuna utilit reale ma utilissimi a vendere.
Per gli abiti poi, se fai bene attenzione, non cambiato quasi niente, nella sostanza da secoli.
Ma la casa non bene di consumo. A meno che tu non pensi che lo sia, nel qual caso la tua una risposta, da me non condivisa, ma una motivazione.
Ciao
Pietro

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Commento 9149 di salvatore d'agostino del 07/12/2010


Ugo,
condivido il 20% di ci che dici.
Prima di disarticolare i miei pensieri, vorrei farti una domanda: Che cosa significa funzione per un museo darte contemporanea (non minteressano le tue considerazioni sullarte)? Qual la funzione (parola che hai ripetuto dieci volte)? Che cos la funzione (tecnicamente in questo caso)?
Saluti,
Salvatore DAgostino

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Commento 9152 di Ugo Rosa del 10/12/2010


Ugo Rosa risponde a S. D'Agostino

Funzionare, v. intr. (funziono ecc.; aus. Avere)
1. Essere in grado o nell’atto di corrispondere alle esigenze specifiche determinanti della propria struttura od organizzazione: la macchina ha cessato di f. ; l’ufficio non funziona più come prima | Rendere in modo soddisfacente: occorre sempre un po’ di tempo perché un nuovo metodo cominci a f.
2. Esercitare una funzione, fungere: f. da segretario | Celebrare (in ambito liturgico): oggi funziona il vescovo.
Così il Devoto-Oli.
Quanto all’etimologia ci si attesta comunemente su quella che fa derivare la parola da functus, participio passato di fungi (fungor, eris, functus sum fungi): conduco a termine; adempio, eseguo, compio, sopporto.

Funziona, dunque, ciò che risponde al compito per cui è stato messo in atto e vi risponde nel modo più adeguato.
Una penna deve scrivere. Ma non basta ancora che scriva perché “funzioni”. E’ necessario, per esempio, che la sua scrittura non richieda, per essere messa in atto, l’uso di sangue umano, di oro liquido o di inchiostri a base di uranio impoverito, che non pesi sei chili e che abbia dimensioni inferiori a quelle di un missile terra-aria.
Quando chiunque disponga delle mani e sia in grado di usarle potrà scrivere a costi economici e in maniera agevole, potremo dire di avere una penna che, effettivamente, funziona.
Poi, naturalmente, avremo penne più o meno belle e, anche, più o meno costose, ma affinché la penna continui a “funzionare” dovremo rimanere sempre dentro un paradigma che sappia declinare bellezza, costo e capacità di servire in termini tra loro adeguati.
Se una penna costa un miliardo sarà, forse, una curiosità da baraccone, ma perde una delle caratteristiche che ne fanno uno strumento di scrittura utilizzabile.
Per gli edifici le cose non stanno diversamente.
Un edificio funziona quando risponde al compito per cui è stato costruito e vi risponde nel modo più adeguato e a costi complessivi (di costruzione e di gestione) sensati.
Ciò che non funziona soltanto ma “ha da funzionare” (un artefatto, cioè, qualcosa che non funziona “solo per caso”) viene infatti progettato e costruito “in funzione”.
Un ospedale è pensato e costruito “in funzione” dei malati che dovrà ospitare, un’abitazione “in funzione” degli abitatori ecc; una sala espositiva deve esserlo “in funzione” delle opere che vi saranno esposte o, più precisamente, “in funzione” del migliore dei rapporti possibili tra l’opera e chi la contempla.
Noto, per inciso, che un museo nato per esporre l’arte del XX secolo risponde ad un’esigenza che proprio l’arte del secolo scorso ha avanzato per la prima volta: quella di un luogo fruibile a piacimento (spesso a pagamento) e votato ad ospitarla e a metterla “in mostra”.
Prima della nascita dell’arte moderna questa esigenza non esisteva.
Né Giotto, né Raffaello, né Leonardo hanno dipinto per far mostre pubbliche e sarebbe divertente immaginare la reazione di Andrej Rublev se gli avessero predetto che l’icona della Trinità, un giorno, sarebbe diventata un poster per pubblicizzare il panettone, Picasso, Modigliani, Van Gogh e Matisse, invece, puntavano, fin dalla prima pennellata, alla galleria d’arte e all’esposizione e quello auspicavano.
Ma ciò non è importante se non per sottolineare che, se qualche opera mai si dovesse trovare a sua agio in un museo (cosa della quale ho sempre dubitato e continuo a dubitare) quella sarebbe proprio un’opera di arte moderna, l’altra infatti ci sta, per definizione, malgré elle.
Parlare dunque di un “museo d’arte moderna” non è dunque trattare di un raro caso specialistico bisognoso di raffinatissime alchimie tecnico-mentali ma è quasi una tautologia giacché è proprio questo il solo caso in cui il museo ospita opere che sono nate esattamente per esservi ospitate.
Definizioni come sala espositiva, museo ecc. racchiudono, com’è noto, un significato che, in qualche modo, si pone a metà strada tra quello della parola “obitorio” e quello della parola “bordello”: vi si reca a pagamento per provare piacere e vi si trovano oggetti (o corpi) che, presumibilmente sottratti a quelle che dovevano essere le loro precedenti condizioni, vanno immagazzinati in condizioni adeguate alla loro conservazione.
Un museo, come un obitorio, dovrà far sì che i corpi vengano preservati almeno nelle condizioni in cui si trovavano al momento di essere immagazzinati ma, come un bordello, dovrà altresì esporre tali corpi nella maniera più avvenente e redditizia.
Bisognerà tuttavia convenire che la modalità di fruizione dell’oggetto esposto in un museo è differente da quella dell’oggetto esposto in un bordello.
Nel primo caso “si contempla”, nel secondo (in genere) non si contempla soltanto … ma anche nel caso in cui il fruitore desideri esclusivamente contemplare (de gustibus…) sarebbe lo stesso esplicarsi di tale contemplazione che presenterebbe esigenze differenti.
Nel bordello il contemplatore è, comunque ,un caso limite, nel museo è la norma.
Dunque, contrariamente a quanto avviene al bordello, occorre che il museo, per funzionare, offra in primo luogo condizioni contemplative adeguate all’oggetto in mostra e non intese come mero passaggio verso altri tipi di rapporto.
Proprio le esigenze “di pura contemplazione” del museo, infatti, richiedono che essa avvenga in condizioni assolutamente ottimali e che l’oggetto contemplato (non avendo altre possibilità di relazionarsi al fruitore che non può intrattenere con esso altro genere di “commercio”) si offra interamente e nel migliore dei modi.
Non è il caso di entrare nei dettagli di questo tipo di relazione (definita dagli esperti “estetica”) ma si può dire che è universalmente accettato il fatto che essa possa esplicarsi nel migliore dei modi soltanto in condizioni di raccoglimento e in situazioni tali da fornire il minimo possibile di disturbi ambientali.
Controllo dell’illuminazione e dei rumori sono, fondamentali. Va evitato l’inquinamento acustico e quello luminoso ma, ancora più importante è che sia accuratamente evitato ogni inquinamento “visivo”, dal momento che il museo è votato ad opere che proprio al senso della vista si rivolgono.
Un museo dunque “funziona” quando tali condizioni sono rispettate e si dispongono, tutte insieme e appassionatamente, a far si che tra il visitatore e l’opera si stabilisca un rapporto quanto più intenso e “raccolto” possibile.
La radice della parola Musa è indo-germanica: man (pensare) da cui mens ma anche mania (cioè turbamento della mente). Il museo è perciò un luogo nel quale si pensa (talvolta fino alla mania…) e nel quale il nucleo di tale pensare è costituito dall’opera d’arte della quale il visitatore si trova in presenza.
Nessun museo, come dicevo, funziona se tale rapporto è inquinato da elementi visivi o uditivi estranei. Non importa se questo elemento inquinante sia il comunicato commerciale e il jingle pubblicitario diffuso dall’altoparlante oppure l’ego dell’architetto che si sovrappone scioccamente e chiassosamente al rapporto tra l’opera e il visitatore.
Peggio ancora se l’ego dell’architetto assume connotati inequivocabilmente pubblicitari e diventa firma o, meglio, logo.
Questo, dunque, per quanto riguarda la funzione e il funzionare.
A parte un invito.
Albert Einstein amava quelli che definiva “esperimenti mentali” e che sono, per l’appunto, dei piccoli esperimenti diretti a confermare o falsificare una certa ipotesi.
Essi hanno il vantaggio di non costar nulla e di non richiedere altro che un pochino di immaginazione.
Io, a conferma di quanto ho appena scritto, invito tutti a questo piccolo esperimento.
1) Postulato: l’architetto non fa quello che vuole, quando vuole, come vuole e dove vuole ma solo quello che può, quando può, come può e dove può.
2) Conseguenza: l’architetto esegue i desiderata della committenza e, se è degno di essere definito tale, deve essere in grado di progettare con uguale sensibilità e competenza qualsiasi tema “funzionale” la committenza gli richieda, dal canile alla città.
3) Esperimento: provate ora a immaginare un padiglione per malati terminali di cancro progettato “à la Gehry” ( oppure à la Hadid, o, meglio ancora, à la Libeskind…insomma una cosa divertente, spigliata, avventurosa, firmat

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Commento 9153 di vilma torselli del 10/12/2010


solo una breve intromissione in una tenzone che promette di essere interessante: Ugo dice "provate ora a immaginare un padiglione per malati terminali di cancro progettato la Gehry".
Non occorre immaginare, guardate qua
http://www.mrflock.com/eventi/lou-ruvo-center-incredibile-architettura-di-frank-gehry.html
un centro di salute mentale (si fa per dire) specializzato nella cura di malattie come lAlzheimer, il Parkinson, la SLA, progettato da Gehry.
Ogni commento superfluo.

Tutti i commenti di vilma torselli

 

Commento 9207 di maurizio zappal del 17/12/2010


for Pietro.

Rispondo o non rispondo?
Motivo o non motivo?
Leggo o non sono letto?
Consumo o non consumo?
Abitare o abito?

E da qui partiamo...Si, ribadisco che l'architettura, a mio avviso, non la menata che ci hanno propinato a scuola: funzione o forma?
E' fondamentalmente emozione!Viaggio!
Per cui, arte/architettura /cinema/ abbigliamento sono manifestazioni aptiche (et.: capacit di entrare in contatto con...)senza alcuna nostalgia del passato/passatista che non mi ha dato nulla e che quindi, cerco emozioni, soltanto, al futuro! Consumando e consumandomi fino ad arrivare, forse, quando morir alla mia vera identit!La tua nostalgia per la "casa immobile" nel tempo, il mio transito al futuro!Pietro, non vorrei annoiarti e ti dispenso dal ribattermi, se vuoi, pensa semplicemente che "habitus" e "habitare" hanno un legame semantico. "Abito" un elemento della loro connessione, poich ne condivide la radice latina. Visto che l'habitus inscritto nell'abitare perch non ampliare il paradigma aggiungendo all'equazione anche l'elemento moda?Dare riparo al corpo e vestirlo sono collegati da un vincolo stretto che ti perdi strada facendo stando tu,"immobile"! "Abito" non soltanto un vestito ma anche la prima persona singolare dell'indicativo presente del verbo abitare, usato per indicare il proprio indirizzo che per te via Palladiana n.1. Insomma, anche affascinante pensare nei termini inglesi, address e dress, come fossero i due lati di un tessuto double-face, in una interazione di habitus e habere che tanto definiscono la moda e l'architettura quanto naturalmente il cinema, poich tutti hanno a che fare con il C O N S U M O!


Tutti i commenti di maurizio zappal

 

Commento 9211 di vilma torselli del 19/12/2010


Pietro, larchitettura, nata per rispondere a necessit primarie quali la difesa dai pericoli esterni e dai rigori climatici, riparo ed involucro protettivo per il corpo delluomo con la stessa funzione di un 'abito' vero e proprio, secondo Gottfried Semper, architetto e teorico tedesco dellottocento, si sarebbe poi sviluppata come architettura abitata, con etimo appunto nella parola abito, grazie alla pratica della tessitura, tutta femminile, attraverso la quale veniva costruito labito per il corpo. Da l avrebbero infatti preso spunto le costruzioni arcaiche fatte di strutture intrecciate (tende e capanne), materiali tessuti sullesempio di quanto facevano le donne della trib.
Al di l della curiosit della teoria, stupisce gi a met dellottocento questo approccio antropologico allo studio dellarchitettura, che evolve con luomo sulla base delle sue esigenze sociali.

In realt, ci dice la grammatica che il latino habitare un verbo frequentativo (o intensivo) di habere (avere). Esso significa, innanzitutto, avere continuamente o ripetutamente. Abitare rimanda quindi allavere con continuit. Labitante, allora, ha il luogo in cui abita" (Sebastiano Ghisu, Essere, abitare, costruire, vedere), e lo ha tanto pi quanto pi lo personalizza, lo rende unico e rispondente allidea che ha di s ..
Anche secondo questa derivazione, lidea di abitare strettamente legata allabitante/possessore, alla sua vita, al suo tempo, alle sue esigenze peculiari e transitorie. In questo senso larchitettura un bene di consumo, che muta, o dovrebbe mutare, a seconda delle necessit e delle richieste. Come gli abiti.

Partendo da Walter Benjamin (Parigi capitale del XIX secolo appunti incompiuti del 1925: Moda e architettura appartengono all'oscurit dell'attimo vissuto, alla coscienza onirica del collettivo .. architetture, moda, anzi persino il tempo atmosferico, sono, all'interno del collettivo, ci che i processi organici, i sintomi della malattia o della salute, sono all'interno dell'individuo), Patrizia Calefato, che si interessa di sociolinguistica, scrive: C' un profondo intreccio - poetico, semiotico, testuale - tra la moda e la citt, un intreccio che si avviluppa sul nucleo della "strada", per riprendere l'immagine di Benjamin, intesa come il luogo dove il gusto sperimenta l'atmosfera del tempo, come zona di incrocio tra culture e tensioni, come spazio fisico e metaforico entro cui la citt acquisisce il suo senso in virt di pratiche sociali condivise. Dalla "strada", concepita in questo modo, possibile guardare ai flussi che moda e architettura veicolano e moltiplicano.
E poi, basta pensare agli edifici e agli abiti del barocco, del rinascimento, del neoclassicismo per rilevare a colpo docchio profonde analogie tra moda e architettura. Pi o meno consapevolmente, la moda si caratterizzata nel tempo in senso concettuale, assecondando sempre di pi la fluidit (passami il termine abusato) del corpo anzich lesibizione di esteriorit, per giungere oggi ad una disinvolta ibridazione di forme e materiali grazie alla quale moda e architettura si integrano come stili di vita e forme di estetizzazione del quotidiano.
E non un caso che famose archistar firmino i punti vendita di famosi marchi di fashion.

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Commento 9212 di pietro pagliardini del 19/12/2010


Leggo oggi, contemporaneamente, i due commenti di Maurizio e Vilma.
Mi avete preso in castagna, inutile negarlo.
In questo momento non so cosa rispondere altrimenti non esiterei un attimo a farlo.
Non ho capito, davvero, se i vostri sono giochi di parole, ma l'etimologia non mai casuale anche se non spiega tutto, oppure se abbiate risolto l'arcano.
Il nesso tra abito e abitare indiscutibile, non solo per l'origine della parole.
Per cui mi fermo qui, accuso il colpo e, fino a che non sar riuscito a cogliere se c' e dove sta la differenza, soprattutto in relazione al consumo, non replicher a vanvera e senza convinzione.
A presto (spero)
Pietro

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Commento 9214 di maurizio zappal del 24/12/2010


E certamente non avevo intenzione e capacit di risolvere alcun problema sui massimi sistemi di pensieri. E certamente qualcuno prende appunti e saccentemente crede di specificare o interpretare meglio, con complementi di specificazione "professorali". Insomma incontri sempre professori che presumono la sappiano meglio e pi di te! E, cacchio, le scuole ce l'ho anch'io...sembrano dire!Comunque cercando di andare avanti e non so se ne valga la pena, un tale Loos scrisse di "come vestirsi, di come arredare la propria casa, di come mangiare, di come comportarsi in societ e di come stare al mondo, architettando" e il suo amico Kraus lo aiutava a ridicolarizzare con ogni minuzia, la vita quotidiana, suggerendogli di volta in volta qualche aforisma per sdrammatizzare la miseria della societ, di quei tempi(sici!). E certamente dobbiamo sempre udire quale sono le richieste dei nostri committenti ma sembra altrettantanto banale e semplice che non avendo in testa un manuale tipologico che sforni funzionalit a go-go al centimetro quadrato, esploda la voglia di prendere per il lato B l'architettura.E che noia stare l a prendere sempre appunti per capire se meglio mettere la "pila" a destra o la "lavatrice" a sinistra! La claustrofobia della funzionalit, credo, abbia prodotto generazioni di "impotenti"...spaziali che ancora si chiedono come viene fuori altro, senza il controllo della funzione!Insomma non mi spostate le carte o i mobili che entro in confusione! Mi preoccupo quando tutto funziona demiurgicamente, perche l vuol dire che passato Mastro Lindo o Mister Muscolo che ha spazzato via la crosta tattile, per me , fondamentale del fare architettura! Che megalomane quel Loos!

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Commento 9235 di domenico cogliandro del 09/01/2011


Ho gi detto ad Ugo qualcosa intorno al testo. Mi trovo nella difficile situazione dell'innamorato che non pu fare a meno di amare, perch quella la sua condizione o la sua pena. Vorrei essere frainteso ma non posso esserlo, fuor di dubbio. Ecco: amo Ugo Rosa. Come a suo tempo ho amato Raymond Chandler, follemente, o disperatamente Peter Handke. Come ho odiato (amando) il notabile Umberto Eco nella descrizione minuziosa delle eresie o la terribile attesa che accadesse qualcosa tra una nave in secca e la penna di Joseph Conrad. Mi sono dichiarato, dunque: non sono obiettivo. Ecco perch penso che Ugo abbia sbagliato passo, nel senso di cammino, percorso, trazzra. Ha scritto per alcuni naufraghi che pensano ancora di vedere la zattera che han detto loro di notare se si parla di isole, mare e orizzonti. Nostalgici del dito, non della luna. Pi prosaicamente: vera architettura quella che resiste al tempo e che ha come dannazione l'incomprensione del proprio, tempo. In questo affresco Ugo somiglia al redivivo Isidro Parodi, vive nel luogo (assente) da cui possibile sbrogliare i nodi non essendovi imbrigliato. Io faccio cos quando mi trovo per mano dei fili imbrogliati: chiudo gli occhi, e sbroglio. Per questo lo amo. Ma tra il dito e la luna non c' solo una distanza astratta, c' il mondo intero.

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Commento 9241 di Salvatore D'Agostino del 15/01/2011


Ugo Rosa,
leggo solo adesso la tua risposta.
Condivido questo tuo pensiero: Funziona, dunque, ci che risponde al compito per cui stato messo in atto e vi risponde nel modo pi adeguato.

Qual il compito di un museo darte contemporanea di una capitale non solo europea ma mondiale?

Tre appunti:

CAPITALISMO TRANSNAZIONALE
Per Leslie Sklair non possiamo trascurare linfluenza della classe capitalistica transnazionale sullarte e larchitettura contemporanea.
Classe capitalistica che abita le citt globali.
In suo articolo apparso su Lotus (n.138) concludeva con una riflessione:Oggi anche utile riflettere su come la nuova architettura iconica nei quartieri e nelle citt possa incontrare i bisogni di coloro che vivono senza assecondare semplicemente la cultura-ideologia consumistica. Ma ci implicherebbe la fine della globalizzazione capitalistica che noi conosciamo.

LARTE RELAZIONALE
Nicolas Bourriaud nel suo saggio (ora libro anche in Italia) Estetica relazionale dice: Per inventare strumenti pi efficaci e punti di vista pi corretti, importante capire ci che cambiato e ci che continua a cambiare. Come si possono comprendere i comportamenti artistici manifestati dalle mostre degli anni Novanta e le modalit di pensiero che li animano se non si parte dalla stessa situazione degli artisti?
Per Bourriaud larte di oggi uno stato dincontro.

OGGETTI DARTE
Joseph Kosuth ---> http://www.globartmag.com/wp-content/uploads/2009/10/joseph-kosuth.jpg
Kateřina ed ---> http://www.exibart.com/foto/78514.jpg
Chris Marker ---> http://journals.dartmouth.edu/cgi-bin/WebObjects/Journals.woa/2/xmlpage/4/article/289/immemory18.jpg

Il tuo articolo ha due pecche (non unaccusa):

la prima, comune alla critica degli ultimi ventanni (quella che ha amato pi la filosofia che la sostanza), la lettura dellimmagine (costi, politica, analogie visive arca-sarcofago, ) pi che la sintassi dellarchitettura.
Conosco tre architetti che lavorano per Zaha Hadid che parlano solo di sintassi. Sintassi che, personalmente non condivido (ma questo non importa);

la seconda, lincapacit, della stessa critica di parlare con la stessa veemenza, della continua devastazione a opera del popolo del cemento del nostro paesaggio. Troppo poco cool, non da happy hours.

Per questo motivo trovo inutile e troppo semplice parlare di questo museo, totalmente devastato (poich mozzato) dalle revisioni dei tecnici comunali (per ricordarci che siamo in Italia).

Detto tra noi, io apprezzo le analisi sullarte di Mario Perniola nel suo "L'arte e la sua ombra ma ho altre necessit (ma anche questo non importa).

Io partirei da un critico eteronomico, che apprezzo secondo la maschera che indossa.
Si chiama UGO ROSA.
Il 19 ottobre del 2008 su archit, ha scritto un articolo, geniale direi perfetto, dal titolo GIUSEPPE DI VITA. Complesso parrocchiale a San Cataldo.
Ti passo il link: http://architettura.it/architetture/20081019/index.htm

Ripeto perfetto, perch LEGGE LA SINTASSI DELLARCHITETTURA E NON LA SUA IMMAGINE.

Essendo pedestre, non sopporto i critici 'incazzati' cool da divano come Ugo Rosa preferisco Ugo Rosa.

Saluti,
Salvatore DAgostino

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